Cineserie, Stream of consciousness

My name is good

Dalla viuzza del quartiere popolare sbuca un furetto bambina, massimo 10 anni, zazzera nerissima, corta ma spinosetta, braccia e gambe come stecchini. Occhi a mandorla, però grandissimi.

 

Mi abbraccia forte.

 

«Hallo, Sir, welcome to Beijing!»

 

A me vien da dire grazie.

Poi penso che avrei dovuto dire Thank you. Dico Thank you.

Aggiungo:

«What’s your name?»

Non ricordo la risposta, ma era decisamente molto musicale.

«And you», rilancia, «what’s your name?»

Andrew, rispondo, senza riconoscermi in quel suono.

 

«Oooh, your name is very good!!!»

 

Un inchino e la fata sparisce dietro il muretto da cui è comparsa.

Riparto piuttosto velocemente. Se scopro che fa lo stesso con chiunque provenga da occidente ci rimango malissimo…

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Cineserie, Res cogitans

Raccolta differenziata

Carretto

Arrancano. Sono sfiancati. Manca l’aria ai loro polmoni almeno come alle ruote dei loro carretti arrugginiti. Si muovono al rallentatore, con gesti semplici e sempre uguali. La concentrazione, la poca che rimane, gli serve per capire quale sia il momento giusto per attraversare lo stradone. Sono uomini e donne, indifferentemente. Viaggiano sotto il peso dell’età più che delle bottigliette vuote che raccolgono dai cassonetti, le stesse che vedo nelle mani delle migliaia di coloratissimi giovani a spasso per le vie, incuranti del destino di quel polietilentereftalato comperato al chiosco e presto gettato via, come si fa con le cose che non hanno importanza. Non mi spiego come una città comunque apparentemente ordinata e organizzata – esagero: forse anche solidale – non sappia fare a meno dei suoi raccoglitori di bottiglie, e non sappia alleviarne la pena con la tanto celebre ciotola di riso. Tutto si lega, nella grande metropoli olimpica, tutti sembrano avere un ruolo, piccolo o grande, da chi regola il traffico con la bandierina a chi dispensa informazioni ai turisti, da chi guida il taxi a chi spazza il marciapiede. Tranne loro, le carogne che si avventano sulle carcasse delle seti saziate. Sembrano non avere voce, solo il suono della plastica accartocciata e lo sferragliare di un carretto a pedali che se ne va. Anche loro gettati via, come si fa con le persone che non hanno importanza.

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La compagna

Premessa necessaria: magari non ho capito un fico. Quindi: post col beneficio d’inventario.

 

Immaginatevi la ragazza. Una bellissima ragazza. Slanciata e fiera, fasciata da un abito semplice ma a suo modo elegante. Le braccia nude, la gonna marrone fino al ginocchio, le scarpe con un piccolo tacco. A suo fianco un ragazzo in maniche di camicia, una camicia bianca. In mano regge una cartellina rigida con dei fogli su cui traccia piccoli segni avvicinando la carta agli occhiali da presbite. Metodico, segue la ragazza, cui è con tutta evidenza subordinato.

La giovane – avrà massimo 27 anni – si avvicina all’edicolante, si intrattiene per qualche istante, pone delle domande, le risposte sono annotate da manichedicamicia. Il tono è autorevole ma sereno, la conversazione termina con un sorriso luminosissimo. È la volta del piccolo negozio di frutta e verdura, uno sgabuzzino affacciato su un marciapiede, le pesche appoggiate su un foglio di giornale, a pochi centimetri dai piedi dei passanti. La prassi è la stessa, una sorta di sondaggio, di “come vanno le cose?”. Lamentele, richieste. La verduraia qualche sassolino nella scarpa sembra pure avercelo, ma la voce della ragazza sembra riuscire a ricomporre il clima iniziale, sarà la gonna svolazzante, saranno i sorrisi.

Fine della suspance, sul petto del personaggio fin qui descritto pende un cartellino con due caratteri, un nome, e una falce intrecciata ad un martello. Certo, non arrivo al punto di definire la scena che ho spiato come un voyeur “politica”. No, non sono così ingenuo. Il gioco è truccato e lo so bene, alla giovane ragazza mancano i legittimi rivali, i concorrenti, una coetanea con un cartellino con un girasole, una spiga, un panda, qualsiasi cosa, una coetanea con un cartellino diverso.

L’espressione “vicino ai cittadini”, quella mi sento di usarla. La parola d’ordine della primavera politica italiana, con l’esigenza insopprimibile di parlare al popolo, capirne gli umori, interpretarne le aspettative. Se non uso la parola politica, troppo preziosa, non posso nemmeno affermare che la ragazza con la gonna marrone stesse combattendo l’antipolitica. Però… Però, una mezza lezioncina… tre quarti di lezioncina, via.

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In taxi…

Il tassista ha dapprima rallentato. Poi ha iniziato a imprecare per l’improvviso rallentamento del traffico. Poi le imprecazioni sono diventate una specie di preghiera, fatta di mani nervose che mollavano il volante per congiungersi e vibrare nell’aria, fatta di sguardi verso l’alto. Io, seduto di fianco alla mia borsa della spesa, riuscivo a vedere soltanto un grosso furgone in una posizione illogica. Il taxi ha disimpegnato l’immenso incrocio zigzagando, non abbastanza per evitami la visione della morte.

Le metropoli, si sa, non hanno un anima. Sono spietate. Hanno piedi che continuano a camminare, valigette che vanno per la loro strada, ombrellini che continuano a riparare da un sole invisibile e spietato. Voglio lodare qui quel tassista sconvolto, almeno quanto me. Ne deve aver viste tante, lungo le sue giornate infinite d’asfalto, ma non abbastanza per assuefarsi. L’ho pensato insonne come me, dentro questa notte bianca. A quest’ora sarà già ripartito con la sua Volkswagen Jetta: altro giro altra corsa. Sono 15 yuan. Xièxie.

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Lamento per i bambini senza cielo

Sembra facciano finta di niente ma si vede benissimo che soffrono come cani. Continuano a pestare i pedali del triciclo, tormentano la gonna della mamma. Forse ci pensano anche mentre un genitore li assiste nel fare pipì o popò dai pantaloni col buco, sul ciglio della strada. durante quel momento d’imbarazzo, quello che anche se non vuoi ti vien da guardare in su. Sopportano perché sono stoici, figli di un popolo stoico alla vigilia dell’ora X cui si è giunti dopo anni di stoicismo. Alle bambine è forse destinato un quid di dolore in più, ché le bambine non si accontentano di giochi terra terra col culo per terra, le bambine alzano prima gli occhi e vogliono far danzare i gonnellini bianchi a fiori che le nostre non indosserebbero neanche a carnevale. Sembra facciano finta di niente ma si vede benissimo che soffrono da morire. Come fossero in gabbia, una gabbia grande ma pur sempre una gabbia. Dall’otto agosto saranno sotto i riflettori, davanti agli sguardi dei coetanei di tutto il mondo. Sto qui a fantasticare una rivoluzione prepuberale, programma massimalista, uno spettro azzurro che si aggiri su Pechino olimpica. Sia ridato il cielo a quei bambini, senza se e senza ma, qui ed ora.

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Cineserie, Res cogitans

Il sabato del villaggio olimpico

Nido

Mi sono affacciato sul quartiere e sul villaggio olimpico. Ho gironzolato attorno al Nido, che due anni fa mi aveva letteralmente travolto con la sua carica futurista. Era ancora in costruzione, vibrava di scintille. Oggi è un pacco regalo pronto da scartare. Attorno turisti cinesi sono ansiosi di vedere cosa contenga. Intanto, nel suo parcheggio almeno un centinaio di camion militari stanno scaricando una marea di soldatini imberbi: imparano a presidiare e a difendere. Un altro esercito, i volontari. L’Adidas li ha forniti di maglietta coloratissima, pantaloncini e scarpe da ginnastica. Sono giovanissimi e si muovono a piccoli gruppi. Una ragazza accompagna l’amica in lacrime lontano dal plotoncino, immagino sia stata cazziata da un “colonnello”. Gli alberi attorno allo stadio hanno qualcosa di posticcio, sono stati piantati da pochi giorni e sono retti ancora da trespoli di legno. Non hanno radici, non faranno in tempo. Ecco la chiave. Tutto mi sembra mancare di radici, nulla penetra nel terreno. Le Olimpiadi sono in fondo un grande carrozzone, una grande giostra che arriva, si accende di luci e di fuochi e… riparte. Il Nido, lui sì, le radici le ha, ma sono nel futuro.

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Il fattore K

Intanto diciamolo: dietro c’è tutta un’ideologia, tutto un apparato. Basi filosofiche forti e pure una visione del mondo. Poi pazienza se quando sbarca da noi il tutto può somigliare alla morte dell’Occidente. Quello che davvero conta è che non sia la morte dell’Oriente, e che ne rappresenti in qualche modo la vita, e ne simboleggi il riscatto degli individui.

Sono reduce da una seduta di karaoke, 3 ore in una saletta climatizzata, divano in pelle, luci soffuse, controllo diretto su un cospicuo repertorio di basi musicali, camerieri servizievoli pronti ad accorrere. E soprattutto tre ore con il microfono in pugno, vero scettro del potere. Dovrebbe essere riconosciuto nelle giurisdizioni internazionali il diritto umano di cantare a squarciagola. Perché fa bene, perché scioglie i grumi nel cuore, perché fa entrare nei panni di un “noi” migliore, più libero e più puro. Ci riconcilia con la bellezza, anche con la nostra. E poi affratella, e le voci si cercano e si trovano, si rincorrono, si sovrappongono e s’intrecciano.

Modesta proposta: un’ora di karaoke a settimana in tutte le scuole, di ogni ordine e grado.

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Cineserie, Res cogitans

Yes, They can

I libri cinesi hanno copertine colorate ma sobrie. Raramente ci sono figure, quasi che i caratteri del titolo – figure essi stessi – ne fossero gelosi. Li guardo e mi sembrano inoffensivi, non c’è il libretto rosso e anzi, il rosso sembra il colore meno frequente. Sono pochi, questo sì, e pochi e sperduti mi sembrano i luoghi dove si possono acquistare. Altri generi di consumo li sopravanzano nel paniere dei cinesi. In un piccolo mercato di tuttounpo’, tuttavia, mi colpisce un’edizione in bella mostra di sé. Elegante. In tante copie una sopra l’altra, apparentemente molto venduta. Ha pure una figura sulla copertina, un sorriso elegante tra due orecchie a sventola. Ma guarda un po’, i cinesi leggono i discorsi di Obama.

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Cineserie, Stream of consciousness

L’Ego in un pagliaio

Due anni fa, sempre a Pechino. Lontano più lontano degli occhi del tramonto mi domandavo come mai non c’erano i bambini. Non c’erano gelaterie di lampone a fumare lente, come nella canzone di De Gregori, e i bambini non erano tutti a volare. Più probabilmente erano tutti a scuola, ché allora era l’inizio di luglio e non la fine, oppure – più semplicemente – il quartiere dove vivevo allora era abitato in prevalenza da studenti universitari.

Stavolta ci sono eccome. Gli hutong brulicano di pargoletti trotterellanti, bimbe col monopattino, neonati felicemente appoggiati un po’ dove capita. Su un marciapiede consumato da miliardi di quotidiani passi è ritagliato lo spazio quadrato (40 cm il lato) per un alberello di 30 cm. All’interno due pugnetti di sabbia che un fanciullo calvo bagna dall’alto con una pistola ad acqua gialla. La sorellina ha il culo nudo per terra, le manine marroni a impastare la poltiglia. Il gioco più semplice del mondo e fa niente che non ci sia il mare. Loro fanno come se ci fosse. È il loro gioco, il loro ago nel pagliaio, che non c’è sabbia e non ci sono alberelli per chilometri.

E io che non riesco a scattare la foto, proprio non ce la faccio, non riesco a violare quell’intimità. La vedo, ne vedo 300, di fotografie. Ma poi non premo il tasto, così torno a casa e premo sul computer per riporre l’immagine nella pozzanghera. Al sicuro.

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Se fossi Papa io sarei buono

Se fossi il Papa, non avrei questa barba di tre giorni. Se fossi il Papa, oggi avrei sguinzagliato il mio ufficio stampa per convocare tutti i giornalisti italiani e poi avrei aperto la finestra: «Bella gente» – avrei detto con voce sicura – «l’avete visto il giornale, l’avete letto il sito?  Avete visto che cifre? 100.000 birmani. E il terremoto, avete sentito del terremoto in Cina? 900 liceali sotto le macerie… Sentite, belli, che ne dite di sganciare 10 euro a cranio. Lì diamo a uno fidato, un Billclinton, uno così, con una bella faccia, ché glieli porti e ci faccia del bene… Sì, lo so, le tasse, la quarta settimana, il mutuo… ma suvvia, adesso ci tolgono pure l’ICI. Sì, c’avete ragione pure voi, a noi non ce l’hanno mai messo… ma dai, pensateci… Noi si dev’essere quelli buoni, è tutto lì il succo, il senso. È tutto scritto. Il nostro è un destino di bontà, non c’è verso. Siamo tutti fratelli, no? Bianchi, gialli, neri. Quel bambino con gli occhi a mandorla senza la mamma e senza il papà è nostro figlio e nostro fratello. Quel bambino siamo noi. Non possiamo non dirci birmani. Oh, visto che bravo, pure la citazione…».

Se fossi il Papa, oggi mi sarei fatto la barba e avrei evitato di dire che il divorzio è una colpa grave, e soprattutto non avrei dato della materialista disprezzatrice della vita ad una donna che ha abortito. Lo so, l’argomento è spinosissimo e complicatissimo e non lo si taglia a fette, ma quello che voglio dire è che oggi è OGGI. Oggi è questo 12 maggio con tre notizie che spiccano sulle altre: nelle prime due ci sono centinaia di migliaia di morti e altrettanti innocenti che rischiano la pelle, nella terza c’è chi ci ricorda che bisogna difendere la Vita e non sta assolutamente pensando a quelle vite lì.

Mi si dirà che in Cina e in Birmania probabilmente eroici pretini stanno già portando soccorso a quell’umanità bastonata, ma questo non colma in nessun modo una crudele ASSENZA DI PAROLE. Se si escludono le solite, spropositate e a sproposito.

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Cineserie, Soletta

La corrispondentina

Siete stanchi dei panorami geopolitici tracciati da quel sapientone di Rampini su “Repubblica”? Non ne potete più delle corrispondenze di Cavalera sul “Corriere”? Vi ammorbano gli articoli di Sisci su “La stampa”? Vi siete addormentati leggendo l’ultimo reportage di Renata Pisu? Vi coprite gli occhi quando sulla Rai compare il volto di Paolo Longo?

Bene, da oggi a Pechino c’è una nuova inviata speciale che vi consiglio caldamente.

Gallina solarize

Ha soltanto 10 anni, ma scrive da veterana. Leggete, meditate e commentate ché lei è tanto contenta.

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Carissimo Giuliano,

Tu vuoi che ti scriva di cose serie. Molto bene. Ma cosa sono le «cose serie» che vuoi leggere nelle mie lettere? Tu sei un ragazzo, e per un ragazzo anche le cose per i ragazzi sono molto serie, perché sono in rapporto con la sua età, con le sue esperienze, con le capacità che le esperienze e la riflessione su di esse gli hanno procurato. Del resto prometti di scrivermi qualche cosa ogni cinque giorni: sono molto contento se lo farai, dimostrandomi di aver così molta forza di volontà. Io ti risponderò sempre (se potrò) e molto seriamente.

Caro, io ti conosco solo per le tue lettere e per le notizie che mi mandano di te i grandi: so che sei un bravo ragazzo, ma perché non mi hai scritto nulla del tuo viaggio al mare? Credi che non sia una cosa seria? Tutto ciò che ti riguarda è per me molto serio e mi interessa molto; anche i tuoi giochi.

Ti abbraccio.

 

Antonio

 

 

Le altre lettere. Scritte dallo stesso carcere, il carcere di Turi. Piccole pagine per i figli piccoli. Per Giuliano, il figlio mai visto. Finiscono quasi sempre in un abbraccio, oppure in un bacio. Alcune in un “ti voglio bene”. Spesso sfottono Veltroni e gli chiedono che c’azzecchi con Gramsci, ormai. Hanno pure ragione, a sfotterlo. Però è vero e fa sorridere che, ammesso che sia mai esistito un Veltroni gramsciano, esiste sicuramente un Gramsci veltroniano, tenero e incantato.

Le altre lettere. Uno le legge e le rilegge, e viene voglia di prendersi a cuore le cose serie, cioè di prendersi a cuore TUTTO.

I monaci del Tibet. La bambina cinese estratta dal pozzo, ed è bello che ogni tanto i bambini riemergano dai pozzi neri. La gara di sci dell’alunno colorato. Il contratto che bisogna contrattare. Che non gli passino mai il pallone a ricreazione. Che l’amica parli male di lei proprio adesso che lei è tanto fragile. La riformetta del ministro Fioroni. La gita a Firenze da organizzare. Tutto il resto.

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Baci d’acciaio

La volta che in bicicletta, davanti al capannone dell’acciaieria, si è aperto l’immenso portone di lamiera e sono usciti suoni d’inferno, e metri di scintille, e tonnellate di fiamme. Che poi mi sono guardato le mani e le loro macchie di pennarello. Quella mattina avevo aiutato due occhioni di ragazza a colorare una madonna con bambino ed era anche quello – nonostante mi paresse assurdo – un lavoro ed era pure il mio pane guadagnato. La volta con Piumetta, al cinema di Topolò, che davano il film cinese sull’acciaieria in via di dismissione, e l’infinito piano sequenza percorreva il perimetro dell’immensa fabbrica e non finiva davvero mai. Come il dolore degli uomini che ci lavoravano. La volta di quella macchia viola, buco profondo sulla pelle bianca del polso, la volta di quelle ciniche parole di operaio: “…non è niente, è soltanto il bacio dell’acciaio”.

La volta che sarà domani e voglio parlare ai cuccioli di acciaio e di persone che si fanno baciare a morte. Ma è difficile.

C’è una canzone nuova, semplice, presto la ascolteremo tutti, presto apparterrà a tutti. «L’unico pericolo che sento veramente è quello di non riuscire più a sentire niente». Lo schiocco che fanno i baci d’acciaio lo dobbiamo sentire ancora.

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Cineserie, Soletta

PiumetTina

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Cosa pensano di Piumetta i bambini che abitano le sue foto? È molto probabile che li abbia sedotti con un sorriso, ma può anche essere che agisca inizialmente con estrema circospezione per poi colpire i loro sguardi alle spalle. E riusciranno a specchiarsi, prima dello scatto, quegli occhi d’oriente nei suoi occhi d’occidente? Tempo fa ho letto in un saggio su Tina Modotti un pensiero che mi ha molto colpito. Scattare una fotografia significa creare un legame con il soggetto scelto, e il fotografo deve offrire qualcosa in cambio. In altre parole deve condividere, compatire (in senso etimologico), annullando la distanza tra autore e (s)oggetto rappresentato. Compiere un gesto profondamente politico, insomma, con una precisa scelta di campo.

Ecco cosa pensano i bambini di Piumetta: chi è questa donna che ci ha presi in braccio?

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Cineserie

Aghi

«Luo Cuifen è una giovane donna di ventinove anni nata a Kunming, nel sud della Cina. Un giorno, stanca di dirsi passerà, domani vedrai che passa, è andata dal medico: c’era sempre sangue nella pipì del mattino, e, a parte il dolore, la sottile preoccupazione crescente non aiuta ad affrontare i giorni svegliandosi e per prima cosa vedere il tuo sangue: sangue sempre, sangue ogni giorno. Il medico le ha detto: sarà una disfunzione renale, faccia una radiografia. Ecco, la radiografia del torace di Luo Cuifen è una di quelle foto che dice qualcosa di assoluto sul tempo in cui viviamo. L’hanno pubblicata molti giornali. Merita di essere ritagliata e di stare attaccata coi magneti al frigorifero. Nel torace di Luo ci sino 23 aghi: alcuni sono lunghi anche due centimetri e mezzo. Nella radiografia sono cosparsi sullo scheletro come bacchette di Shanghai, il gioco dei bimbi.

Sembra un fotomontaggio e invece no. Aghi nei polmoni, nei reni, uno rotto in tre parti proprio sotto il cervello, aghi dappertutto. Luo non era mai stata operata in vita sua, non poteva trattarsi certo di un errore di un chirurgo, né d’altra parte neppure il più distratto dei medici può scordare decine di aghi lungo un metro di corpo. E dunque? Dunque sono stati ventitré tentativi di ucciderla. Luo era stata affidata ai nonni, appena nata. La madre lavorava, i nonni non volevano bambine in casa: le femmine sono solo un costo nella Cina rurale, le devi crescere e mantenere per vent’anni, poi passano alla famiglia del marito, non portano indietro niente. Così hanno pensato di ucciderla con gli aghi. Forse non avevano cuore di soffocarla né di abbandonarla in un campo, forse pensavano che un killer invisibile li avrebbe sollevati almeno dal peso di essere presenti al momento della morte: sarebbe morta nel sonno, poi l’avrebbero sepolta. Ma Luo era una bambina robusta e il suo corpo con gli aghi ha trovato un accordo: ha resistitito. Certo, da adolescente, e poi da ragazza, non ha avuto vita facile. Soffriva di ansia e di depressione, di insonnia, hanno raccontato poi i medici che da tutto il mondo sono accorsi a operarla. Tanti, però, tante giovani donne soffrono di ansia e insonnia, non è necessario che gli aghi si vedano nelle radiografie, ci sono aghi invisibili che bucano il respiro, e quel che bisogna fare è resistere.

A operare Luo sono arrivati ventitré medici diversi, uno per ago. Il neurologo dagli Stati Uniti, il cardiologo dal Canada. I nonni sono morti, non possono più dire com’è andata, ammesso che avessero avuto da vivi cuore e coraggio per farlo. Magari si sono rallegrati, nel tempo, dell’incredibile tempra di Luo. Magari la nonna, è bello immaginarlo, l’ha festeggiata a ogni compleanno, ringraziando il cielo per non averla ascoltata. Magari no, invece. La ragazza dice che non ha ricordi dei momenti in cui le infilavano gli aghi. Dice che solo una volta ha origliato una conversazione che le era risultata incomprensibile, si diceva sottovoce di qualcosa avvenuto quando aveva tre giorni di vita. Dev’essere successo, quindi, in un solo giorno, in un momento, in culla, come fosse una bambola di quelle che si bucano nei riti del malocchio. Mio padre ha trovato la foto del torace di Luo e l’articolo che ne parla in un giornale straniero, durante un viaggio, lo ha tenuto stropicciato nel portafogli e lo ha tirato fuori ripiegato in quattro. Tieni, mi ha detto, guarda fin dove si può vincere.

Vincere il destino, vincere l’ignoranza e la violenza, vincere un corpo nemico, vincere gli aghi che bucano anche quando non sai cos’è che ti fa sanguinare. Combattere, spingere la sorte più in là. Finché si può, credo che intendesse dire con quel foglio conservato come un amuleto, finché si può resistere, si deve».

 

CDG, “La Repubblica delle donne”

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