Le storie di Scuolamagia, Soletta, Stream of consciousness

Ho visto un TrE, ah beh, sì beh…

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Ci siamo.

Avevamo Tremonti e da oggi, dopo una sobria potatura, abbiamo solo…???

«Monti!», diranno i miei piccoli lettori.

No, ragazzi, abbiamo TrE, il nuovo disco (doppio) di Giua in coppia con il grandissimo chitarrista Armando Corsi. Un progetto che vede la luce in queste ore dapprima in versione digitale e presto – a gennaio – in una lussureggiante veste da rimirare concreta concreta tra i polpastrelli.

Oggi: conferenza stampa a Rapallo.
Il 18 novembre – sempre a Rapallo, beato chi può – concerto di presentazione.

Ci siamo.
Certo, certo. Ci serve anche Monti, ma abbiamo soprattutto un disperato bisogno di bellezza.

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Tomboy e la recensione che non recensisce

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Forse sono diventato più egoista. Forse sono soltanto meno ingenuo di un tempo, quando tornato dalla proiezione di un film come Tomboy sarei subito corso sul blog per invitare tutti a correre al cinema, fornendo la mia lettura della pellicola e elencando i mille motivi per diffonderne la fama. Forse è cambiato troppo il web: 5 anni fa i lettori erano un pubblico più passivo ma più attento; ora tutti hanno in rete una comoda casetta blu e una serie di faccende urgenti da sbrigare – inviti da mandare, amici da accettare, like da apporre qua e là. Oppure non credo più alle mie parole, che a volte proprio non trovo, che sempre più spesso trovo inadeguate, troppo affilate o troppo poco. Sarà che tutto è sempre già stato detto e che si arriva sempre tardi, sempre dopo. Quando quello che devi dire puzza come il pesce, come un cadavere da seppellire.
Quindi basta una foto e la recensione è fatta. Buona visione.

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Il Prof. Bagnasco e il piccolo Silvio

Io il Cardinal Bagnasco lo capisco.

E fin qui, sembra un rap di Caparezza.
Mi spiego. Un insegnante, capita spesso che sia quello di lettere, quando accoglie i genitori delle sue alunne e dei suoi alunni nel corso delle periodiche riunioni tra le mura della scuola, si vede talora costretto a svolgere delle complesse prolusioni sull’andamento generale della classe. È proprio allora che, in nome di indiscutibili e ragionevolissime istanze di difesa della privacy, deve sfoderare un campionario di frasi a dir poco fumose, ed è obbligato a dire la sostanza eterea del peccato senza poter citare la concretezza del peccatore. Sente di dover biasimare una precisa fascia di studenti all’interno della classe (a me è capitato di farlo riferendomi ad un gruppo di 4 elementi in tutto) per il loro comportamento poco collaborativo, si trova ad elogiare un novero di ragazzini che lavorano con costanza. Gli occhi dei genitori – spesso spaesati, si capisce – reagiscono di conseguenza. Non mi sento di escludere che il mio parlare cifrato possa aver dato origine tutta una serie di misunderstanding. “Il Prof. ha detto che qualcuno in classe si distrae sempre! E mentre lo diceva guardava dalla mia parte! Silvio, fila in camera tua senza cena!”.

Ho quindi deciso di portare fino in fondo questo blasfemo (ma per chi?) parallelo, immaginando di rivolgermi in questo modo alle famiglie dei miei alunni.

«Cari genitori, rattrista il deterioramento dei costumi dei vostri figli e del linguaggio da loro utilizzato. Mortifica soprattutto dover prendere atto di comportamenti, nel corso della ricreazione, non solo contrari al pubblico decoro ma intrinsecamente tristi e vacui.
I comportamenti licenziosi di alcuni alunni sono in se stessi negativi e producono un danno sociale per i compagni. Ammorbano l’aria e appesantiscono il cammino comune.
Da una situazione abnorme se ne generano altre, e l’equilibrio generale della classe ne risente in maniera progressiva».

Funziona, no?
Ribadisco, io il Cardinal Bagnasco lo capisco.
Aggiungo, però, che pronunciate certe parole io mi sento un ipocrita. E pure un po’ scemo.

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Almeno una poesia

Cap

Un bambino di nome Stefano
aveva cinque anni.
Facevamo un esperimento:
a chiamarlo forte
si toglieva il berretto.
Bisognava fare grande attenzione
per trovare il volume giusto:
assolutamente non piano,
ma nemmeno troppo forte:
indovinare fino a che punto
gli piaceva fingersi sordo
oltre che punto avrebbe rifiutato
di ricevere il messaggio.
Del punto esatto egli solo era l’arbitro.
La regola del gioco era segreta.
Camminava davanti a me senza voltarsi
e quando fu stanco corse via
senz’altro scopo che quello di lanciare uno strido
con tutta la sua gola di passero.

Gianni Rodari

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Alice e la Ragazza

Alice

Mi piace tanto quando Alice scrive “la Ragazza”. Del termine “ragazzo”, in realtà, la società odierna fa un uso abnorme: nelle cronache è un ragazzo il serial killer trentottenne, sono ragazzi gli atleti alla quarta olimpiade. Ignoro quanti anni possa avere, la Ragazza con la erre maiuscola. Forse si può anche scoprire, cliccando da qualche parte, ma non m’importa, il personaggio della storia funziona benissimo e il suo nome è a dir poco perfetto.
Ma aveva molto colpito anche la ragazza Angioletta, nel diario che pubblicò Marco Ardemagni qualche anno fa. Una giovane blogger venuta al mondo il 7 maggio 1868.
Una storia simile, in fondo, a quella di Alice.
Che scrive ma imparerà a scrivere tra circa 5 anni, che vede il mondo anche se la sua vista è ancora nebulosa come quella di chi passa gran parte delle sue giornate in una culla a dire sostanzialmente GNAMGNAMGNAM.
“Tutto quello che faccio lo faccio per la prima volta” è il sottotitolo del blog THE ADVENTURES OF ALICE IN THE NEWLAND. Titolo pomposo, ma così sembra solo finché non ci si mette in quei minuscoli panni. Cosa che alla Ragazza riesce benissimo. Si scopre allora, solo allora, il mondo di Alice: un mondo complicatissimo fatto di passeggini e vestitini, Tipi Alti e Signore, cose di tutte le forme, cose vicine e cose lontane come le stelle, oggetti che sono quasi già concetti, difficilissimi da interpretare: il Natale, Sanremo, i Teletubbies.

C’è da augurarsi che duri a lungo, il blog di Alice, almeno fino a quando quella bimba sarà davvero in grado di rileggere il suo passato, raccontato per interposta mamma, e continuare a descrivere da sola lo scorrere del suo presente. In un passaggio di consegne senza precedenti.     

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Quello che è successo a Sant’Anna

mscalamandrei

Quand’ero bambino, i grandi, a volte, a cena sussurravano tra loro: “Quello che è successo a Sant’Anna di Stazzema”. Lo dicevano con la complicità dei grandi alla quale non sono ammessi i bambini: “Quello che è successo a Sant’Anna di Stazzema”.
Sant’Anna di Stazzema è un piccolo paese sulle pendici delle Apuane, a pochi chilometri dalla casa dove sono cresciuto. D’estate, se andavamo a Viareggio, si vedevano nelle belle giornate i paesini sui monti: fra i grappoli di case bianche c’era anche quel paese, con quello che era successo. A sinistra, un po’ più in su, c’è Sant’Anna di Stazzema, mi diceva mio padre, Ma cosa c’era successo? Lo chiesi ai grandi: i miei genitori, mio zio, mia zia.
E non mi rispondevano. Così un giorno lo chiesi al nonno, che aveva fatto la Prima Guerra Mondiale e che non aveva paura di dire quello che non si può dire. Erano già andati tutti a letto, e certe sere mi portava a letto lui. Eravamo vicini al fuoco e le faville salivano in alto. Il nonno muoveva i tizzoni e agitò la fiamma. È schifo, disse, schifo. E poi non disse più niente e mi accompagnò a letto.
Nella mia infanzia non ho mai avuto paura, la mia famiglia mi proteggeva. Ma quella sera ebbi paura, lo ricordo. Perché capii che c’era un indicibile. Qualcosa che andava oltre: oltre la decenza, oltre quello che siamo, o che crediamo di essere, da bambini o da grandi. E senza chiedermelo mi chiesi chi siamo noi, gli uomini. […]

(Antonio Tabucchi)

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La memoria che cos’è?

In viaggio con me, nelle scorse settimane, c’era l’ultimo libro di Gian Luca Favetto.

«Quando penso alla memoria, talvolta penso a una moria di me. Questo è alla base della memoria: lasciare indietro parti di sé, staccarsi di dosso pezzi di ciò che si è stati per andare avanti e crescere. Potare e diserbare, oltre che irrigare.
La memoria è selezione, scelta, non accumulo indifferenziato. In quanto selezione e scelta, è anch’essa movimento. Non monumento, non museo, non magazzino, ripostiglio in un angolo buio di noi, ma rete, articolazione, come quella di vene e arterie, come l’architettura dello scheletro, come le radici che si ramificano, si fanno spazio, si fanno viaggio, leggere, adattabili, modificabili, in cerca della migliore condizione per ricevere e dare nutrimento».

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Le rose che non colsi, stavo facendo una prova Invalsi (2)

Come potrebbe anche essere definito l’INVALSI?

A) Un ente inutile;
B) Un ente che ha sede in un’antica villa romana;
C) Un ente preposto alla valutazione oggettiva delle competenze degli studenti italiani;
D) Un ente pubblico i cui vertici vengono nominati dal Ministero dell’Istruzione Pubblica di concerto con Gigi Bisignani. 

Bravi. Avete ragione. Così non vale. Quando, dopo una domanda come quella che vi è stata rivolta, ci si imbatte in quelle letterine maiuscole, la risposta corretta dev’essere inequivocabilmente una e una sola. Nella fattispecie, invece, se si esclude la C palesemente falsa, le altre tre opzioni contengono tutte elementi di verità. E nulla importa che la risposta giusta secondo gli organizzatori del test – io – sia la lettera A. Voi, strenui sostenitori delle risposte B e D, non l’accettate proprio, la mia matita rossa che cerchia rabbiosa le vostre crocette scorrette. Prima di tutto perché non avete tirato ad indovinare e potete argomentare la vostra scelta: siete a conoscenza dell’esistenza e dell’utilizzo di Villa Falconieri e non avete motivo di pensare che esista una carica pubblica affidata senza lo zampino di Gigino il faccendiere. E poi – si può darvi torto? – una domanda che inizia con “come potrebbe…” presta di per sé il fianco al moltiplicarsi delle risposte. Sembra quasi invitare al gioco delle ipotesi, alla fioritura delle definizioni plurime di qualcosa di complesso.
Siete arrabbiati. La situazione vi sembrerebbe grave, ma non certo seria. Per dirla con Flaiano.
Ecco, era il 20 giugno 2011 e il solito mezzo milione di cittadini italiani è stato sottoposto alla Prova Nazionale predisposta dall’Invalsi. I plichi sono stati aperti, per passare i fascicoletti dalle mani di un insegnante a quelle di un altro insegnante sono serviti appositi verbali. Quel mezzo milione di adolescenti ha impugnato la penna ed ha apposto le sue crocette.
Con tutta la concentrazione possibile, chi facendo gli scongiuri, chi facendo ambarabaccicciccoccò. Qualcuno – i più svegli – storcendo il naso: ma che domanda è questa?

«Quale altro titolo si potrebbe dare al testo che hai letto?»

Quesito seguito da 4 alternative TUTTE plausibili. Certo, una un pochino più delle altre, ma non siamo già lontani anni luce da un criterio oggettivo di giudizio?

E questa?

«Come si potrebbe definire il rapporto tra i due ragazzi?»

Si potrebbe???
Se mi chiedessero quale potrebbe essere la capitale italiana e mi indicassero di scegliere tra Roma, Parigi e Berlino, potrei tranquillamente rispondere Berlino, se solo le vicende della seconda guerra mondiale fossero andate in un’altra maniera. Oppure Parigi, se soltanto l’età napoleonica avesse trovato la giusta continuità…

Mi sto arrampicando sugli specchi? Forse, torniamo allora al testo che avevano davanti i quattordicenni italiani.

Il rapporto tra i ragazzi del racconto doveva essere definito scegliendo tra COINVOLGENTE E DELICATO (A), LEGGERO E SUPERFICIALE (B), TESO E MOVIMENTATO (C), INCERTO E BURRASCOSO (D).
Come ha ben spiegato Leonardo sul suo blog, Mister Invalsi ha deciso per COINVOLGENTE E DELICATO, ma si sa, Mister Invalsi ha il cuore tenero e si commuove per un petalo di rosa portato dal vento. Trattasi tuttavia di un’infatuazione adolescenziale appena abbozzata, quella narrata da Vittorini,  che lo stesso protagonista del racconto sente appesa ad una bava di ragno. E allora perché non LEGGERO E SUPERFICIALE? Burrascoso magari no (ma cosa vuol dire poi, “burrascoso”, applicato ad un rapporto amoroso e non alla meteorologia marina?), ma sicuramente anche INCERTO. E anche TESO, porca vacca!
I candidati all’esame sono ormai in vacanza, gli insegnanti hanno già barrato i loro registri. I primi non sanno di aver subito una piccola truffa, hanno preso solo 6, solo 7, solo 8… in base alle “opinioni oggettive” di un ente pubblico. I secondi non sanno che il “mito” dell’oggettività, fatte salve quelle materie in cui è davvero un criterio applicabile, ucciderà la fantasia a colpi di test a risposta multipla. Farà a pezzi il senso critico, il senso estetico… sostanze impalpabili e immisurabili che smetteremo semplicemente di cercare. Ci metteremo una crocetta sopra.
Qualche vecchio prof.  – ma clandestinamente, dietro qualche angolo buio – consegnerà bigliettini ripiegati nelle mani degli studenti. Questi li apriranno poco convinti e leggeranno l’incerta calligrafia.

“Ma, alla fine, il racconto di Vittorini ti è piaciuto?”

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Notte prima degli esami

Era il 1994. Era appena morto Ayrton Senna e lo sapevo. C’era appena stato il genocidio in Ruanda e come tutti lo ignoravo. Stava per cominciare il mio esame di maturità. Mancava una manciata di ore. Avevo paurissima, il giorno dopo mi avrebbero messo sotto gli occhi una di quelle tracce lunghe e incomprensibili dove mi avrebbero chiesto di esprimermi come un esperto di geopolitica, oppure mi avrebbero invitato a discettare sulla poetica di un autore mai affrontato in classe, oppure… Insomma, i peggiori scenari davanti agli occhi, mentre la cena non era pronta e la sera era vagamente afosa. Tutto molto vago, nella mente, e ovviamente non ricordo nulla delle questioni geopolitiche trattate il giorno successivo sul foglio di protocollo. In qualche modo, i panni del direttore di “Limes” devo averli vestiti.

Due ricordi ci sono, però: disposti uno di fianco all’altro nella nebbia di quel tempo lontano 17 anni. Ordinati e rispolverati ogni giugno, il giorno prima dell’esame dei miei cuccioli.
Due cose accadute in un lampo. Una perché era un lampo. L’altra perché in classe eravamo una ventina e la Prof. mica poteva tenerci al telefono mezz’ora. Però chiamarci sì, tutti, e dirci di stare tranquilli, che in un modo o nell’altro eravamo pronti e ce l’avremmo fatta. Non sapevo neanche avesse il mio numero, la Prof.

E poi il lampo, un secondo prima del drin. Ché la Prof. chiamava sul fisso e non c’erano i cellulari e di conseguenza neanche le suonerie di malikayane.
Il lampo, dicevo. E quella faccia che avrebbe caricato di energia il mondo intero. Figurarsi un maturando del 1994. Che va a rispondere al telefono ed era la sua Prof.

E adesso faccio anch’io il mio dovere e chissà cosa stanno guardando alla Tv.

 

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Un’idea per l’Invalsi: la Grammar League

Grammar
È finita la Grammar League 2010-2011 a Scuolamagia. Il trofeo viene portato in trionfo per i corridoi, a ricreazione. I pronostici della vigilia sono stati rispettati, ma per avere un vincitore, in 2ª C, abbiamo dovuto attendere l’ultima giornata. I cuccioli a scuola a volte la sanno fin troppo lunga e sono in grado di inchiodarti ai paradossi del tuo mestiere. Sanno dirti che la lezione in cui hai fornito chiare spiegazioni su che cacchio stava succedendo a Lampedusa è molto più utile di quella in cui li hai introdotti al mistero del complemento di causa efficiente. Puoi menargliela con i processi logici, con l’idea che mentre loro non se ne accorgono l’analisi di quei pezzi di frase permette l’attivazione di nuove meravigliose applicazioni nel loro software cerebrale, ma non funziona: quella roba rimarrà un’imposizione. Una cosa contro cui nemmeno protestare troppo, ché prima o dopo ci son passati tutti, anche Berlusconi e Gattuso, anche Fabri Fibra e le Veline. Però: di divertirsi, o almeno non crepare di noia, non se ne parla. E hanno ragione.
Tuttavia, quest’anno c’era la Grammar, con le sue 14 giornate e con le 10 frasi da affrontare ogni volta contrapposti ad un compagno diverso. N° 1: analisi corretta per entrambi, zero a zero. Analisi fallita per entrambi, niente di fatto. Se uno dei due la imbrocca: goal, 1-0. Palla al centro, sotto con la n° 2. E avanti. Ne è nata una piccola epica, quella di un lungo campionato perso per colpa di un complemento di termine sbagliato. Una specie di rigore calciato alle stelle a una giornata dalla fine. Non sono mancate le polemiche, come quando l’arbitro (io) ha letto P.N. (predicato nominale) dove forse c’era scritto, ma male, P.V. (predicato verbale). Una svista, succede, ma capace di fare la differenza tra un terzo e un quarto posto.

E si è scorto pure un pizzico di malinconia, per l’alunno arrivato secondo e soprattutto in procinto di trasferirsi in un altro paese, dotato di scuola ma probabilmente privo di una settimanale competizione grammaticale. Un luogo piacevole, dove il complemento oggetto è rotondo per tutti.

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La leggenda della chitarrista sull’oceano

C’è un mercante illuminato, in Italia, che ha deciso di portare un po’ di amici a New York partendo da Genova. Constatata la presenza di un oceano nel mezzo, si è affidato ad un navigato navigatore, forse il più esperto a cui poteva rivolgersi. Ha convocato una piccola ma composita ciurma e ha deciso che a bordo si sarebbe parlato del futuro e di come navigare anche su quello.

Siccome, si sa, una nave è fulmine torpedine miccia scintillante bellezza fosforo fantasia molecole d’acciaio pistone rabbia guerra-lampo e poesia… il mercante ha voluto nel suo equipaggio la mia cantautrice preferita. Una ciliegina sulla torta a vela. Da qualche giorno – al mio risveglio, 5:18 – mi connetto e guardo un orizzonte che non finisce mai, scruto la consistenza delle nuvole, ascolto il vento, immagino una rotta, penso che – aiuto!!! – quella barca è una briciola di legno dentro a tutto quel blu. Un giorno di questi, lo sento, tra le schiume incrocio una balena.

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Le rose che non colsi, stavo facendo una prova Invalsi

Prove oggettive. Crocette. O A, o B, o C, o D. Deciditi, la risposta corretta è soltanto una. Maggio 2011, tempo di Prove Invalsi. Gli studenti italiani sono sotto la lente di un microscopio. La scuola italiana li sta misurando. Tra qualche mese usciranno i risultati della faticosissima impresa, le classifiche saranno pronte, le regioni messe in colonna. Una avrà vinto, alcune andranno in Champions, molte vivacchieranno a centro classifica e ci saranno pure gli sconfitti, anche se non retrocederanno.
La meritocrazia è partita dal basso. Tra pochi anni il paese sarà gestito dai cittadini migliori secondo specchiate procedure di selezione. Ecco, questo è il motivo per cui le Prove Invalsi mi fanno ridere.

Adesso vi spiego perché mi fanno piangere.
Prendiamo una storia. Non è una storia qualsiasi, è una storia che è entrata di prepotenza nelle aule di tutti gli ordini di scuola. Enaiatollah Akbari ha raccontato a Fabio Geda la sua incredibile vicenda personale. Ne è nato un libro bello ed efficace, un passaggio da Fazio ha sparso la voce. Quella è una tragedia greca, ma anche turca e afghana, iraniana e italiana. Il mondo è stretto dentro tutto quel peregrinare tra un deserto e un mare, tra una città libera e una città assediata. Un prof. un’occasione così non se la può lasciar sfuggire e infatti Nel mare ci sono i coccodrilli è entrato in una marea di classi italiane di ogni ordine e grado. E piace, e interessa, e appassiona. È bello quando a scuola entrano le passioni. Però a scuola stanno entrando subdolamente anche le Prove Invalsi, che sono perfette per riconoscere gli Speedy Gonzalez della logica, gli alunni dal ragionamento rapido ed efficace, ma sono inevitabilmente nemiche di altre importantissime caratteristiche degli studenti. Che infatti non riescono a far emergere e di cui – semplicemente – fanno senza. Cosette da niente come la capacità di ragionamento, di astrazione, il senso estetico, il senso critico, la sensibilità umana. Immisurabili, per loro natura. Per nostra fortuna.
La scuola si sta invalsizzando, dicevo. Ho in mano un’antologia, nuova fiammante, pronta per essere adottata in una scuola secondaria di primo grado. Chi si vede a pagina 34? Enaiatollah Akbari, manco farlo apposta. Purtroppo è soltanto un piccolo frammento di quella storia, ma ai lettori male non può fare. A far male sono le domande poste in calce al testo. Made in Invalsi, neanche farlo apposta.
Oggi sono lungo, seguitemi in medias res.
Scrive Fabio Geda:

«Ecco. Anche se ti dice [tua madre, n.d.r.] cose come queste e poi, alzando lo sguardo in direzione della finestra, comincia a parlare di sogni senza smettere di solleticarti il collo, di sogni e di desideri – che un desiderio bisogna sempre averlo davanti agli occhi, come un asino una carota, e che è nel tentativo di soddisfare i nostri desideri che troviamo la forza di rialzarci, e che se un desiderio, qualunque sia, lo si tiene in alto, a una spanna dalla fronte, allora di vivere varrà sempre la pena – be’, anche se tua madre, mentre ti aiuta a dormire, dice tutte queste cose… ecc. ecc.».

Fino ad arrivare alla parola che è nell’aria da almeno 20 righe: addio. Una madre che ti dice addio, senza dirti davvero addio, mentre tu hai 10 anni e sei convinto che quella sia una sera come le altre.
Ma non divaghiamo e anzi, concentriamoci.
Ecco il quesito Invalsi.

La mamma, parlando, non smette di solleticare il collo di Enaiat. Perché lo fa?

A. Vuole far ridere Enaiat con il solletico.
B. Vuole farlo addormentare in fretta.
C. È un modo per accarezzarlo e dimostrargli affetto.
D. È un modo per dirgli addio.

Io mi arrendo subito. Per me son tutte vere. Oppure lo sono una alla volta. Oppure lo sono a coppie. Oppure nessuna. E soprattutto: perché bisogna sbilanciarsi? La prima sembra la più fragile, ma che male ci sarebbe se la madre si fosse limitata a provocare il piacere giocoso di un solletico? E se quella donna avesse voluto davvero che il bimbo si addormentasse (B) per interrompere lo strazio di quella sorta di congedo? E non è forse quella una dimostrazione d’affetto (C)? Qualcuno all’Invalsi è in grado di negarlo? E non fa parte, quel gesto, di un tragico e doloroso rito di addio (D)?

Sento puzza di polvere da sparo. Hanno sparato alla letteratura. E alla molteplicità delle opinioni. E alla dignità dei punti di vista. Una strage.

Resto lì, come l’asino di Buridano. Mi lascio morire, faccio obiezione di coscienza. Chiedo venga interpellata direttamente la madre del racconto, peraltro ancora viva in qualche remota provincia afghana, affinché riveli il vero significato del suo gesto. Fino ad allora nessuno osi procedere con le classifiche di merito da stilare.

Rido ancora, è un’altalena tragicomica.
Ripenso infine all’alunno che uscendo dall’aula, qualche anno fa, dopo una di quelle prove, dopo aver visto i compagni cimentarsi con calcoli e ipotesi di cui non era stato capace (brillava, eccome se brillava, quel ragazzo, ma di altre altrettanto importanti luci), mi guarda e mi dice sconsolato:

«Oggi ho capito di essere stupido».

Sa essere carogna forte, la meritocrazia.

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La marcia su Roma, pranzo al sacco

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Raramente giudico il lavoro dei colleghi. O meglio: lo giudico ogni 7 secondi, ma evito con cura di rendere pubbliche le mie elucubrazioni. Ogni situazione è diversa, sono diversi gli approcci e le storie personali. Nessuno ha la verità in tasca e quindi spesso è meglio starsene buoni buoni nel proprio cantuccio. Capita di sentirsi migliori? Capita, ma quello è un sentimento da stivare in fretta, passando oltre. Capita pure di sentirsi peggiori, va da sé: nella stiva c’è un angolino ad hoc ed è preferibile frequentare quello.
Oggi fatico a trattenermi. Ho casualmente incrociato la circolare di una scuola che non è la mia, emanata alla vigilia di un viaggio d’istruzione. Ho strabuzzato gli occhi dinanzi a una sterminata lista di infrazioni comportamentali che il documento in questione intende scongiurare. Il catalogo di ogni possibile scelleratezza che un adolescente possa commettere. Con degli sconfinamenti nell’integralismo puritano: il divieto di indossare “magliette sbracciate e pantaloni troppo corti” (rivolto a tutti o solo a una fetta degli utenti?), il bando di un’eccessiva quantità di indumenti e dei cosmetici (e ridaglie…). L’uso del cellulare: poche e brevi telefonate, essenziali. Richieste sulla disposizione nelle camere d’albergo? Non se ne parla, poche storie e posti stabiliti d’ufficio. Andare in cesso sul treno: solo previa autorizzazione dell’insegnante.

E buon divertimento. No, buon divertimento non c’era scritto. C’era scritto invece che i trasgressori, dopo essere stati prontamente denunciati ai genitori competenti, saranno rispediti a casa (600 km…).

Reduce dalla mia gita torinese, consapevole che la responsabilità di un insegnante è cosa seria, che un numero maggiore di alunni (ma mica poi così tanto maggiore…) comporta una proporzionale crescita delle responsabilità), penso all’unica raccomandazione fatta ai miei “terzini” alla vigilia della partenza. Le regole, in fondo, sarebbero state quelle di sempre, soltanto portate in trasferta. La questione seria era un’altra.

«Mi raccomando: ricordatevi delle caramelle al piscio di gatto!».

Le ha portate Camilla, alla fine, ma io ho infilato comunque un pacchetto di Ricola al Sambuco nello zaino.
Coi ragazzi di oggi, non si sa mai.

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Il marciapiede per Torino, sì lo so…

La sento più di sempre, questa Gita. C’è una classe speciale da accompagnare. Si aspettano tanto, e io ho promesso tantissimo. E c’è Torino e tutta la soggezione che mi mette.
Vi lascio le chiavi della Pozzanghera, come al solito. Fate i bravi, mi raccomando. Vi lascio anche una cosa bellissima da leggere, qui. Racconta di due colori, il blu e il nero, come davvero non li avete mai visti. E racconta di un uomo – come ne vedete ogni giorno, e chissà quanti ne vedremo noi a Torino. Delle storie come la sua sappiamo poco, quasi niente. Le storie come la sua, forse non le possiamo nemmeno capire.

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Complice Buuuuu, il libro di Luigi Garlando che sto leggendo in classe con gli alunni più piccoli, a Scuolamagia stiamo studiando Mario Balotelli. Fossimo all’università, diremmo “Fenomenologia di Mario Balotelli”. Un’indagine a 360°. Un italiano che è un prisma di cui indagare le infinite facce, andando oltre.
Il romanzo narra in realtà la storia di un altro ragazzo specialissimo, diverso di una diversità tutta particolare, e di un intero quartiere che è uno spaccato dell’Italia multietnica del 2011. Balotelli – quello vero – tra i protagonisti, e in copertina, mi sembrava un tocco decisamente trash. E invece tout se tient, miracolosamente. Lo scrittore, poi, dimostra di saper creare un mondo giovanile credibile, e non solo perché nei vari capitoli i ragazzini indossano magliette Abercrombie e i calciatori sfrecciano a bordo di Bmw X6.

Balotelli, dicevamo. Balotelli, avrei detto, soltanto oggi ci fosse stata l’ora di italiano (sarebbe stata la seconda, dalle 9.00). Le cronache – non i romanzi – riferiscono che ha vinto 28.000 euro al casinò, e che ne ha donati immediatamente 1.000 ad un clochard di Manchester.
Ne vogliamo parlare?
Gran gesto?
Solo mille?
(Cosa c’entra Ruby?)
No, però, alzate la mano ché così è un pollaio.

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Il cuore di Diamanti

Quando ripeto ai cuccioli che le frasi devono essere brevi, brevissime. Fiammate. Che c’è tempo per imparare a scrivere i propri pensieri in maniera più complessa e arzigogolata: tutta una vita. Prima bisogna saper sciogliere le parole in un galoppo veloce che respiri spesso. Quando con la mano faccio calare una sorta di paratia stagna davanti ai loro occhi ed è soltanto uno dei tanti punti che dovrebbero infarcire i piccoli temi, i fragili riassunti, le brevi risposte. Ecco, ogni qual volta a scuola tento di insegnare (ma si può?) una buona scrittura, penso a Ilvo Diamanti e alle sue bussole, e alle sue mappe. A volte esagera. I suoi non sono periodi – sono spari. Però arrivano, però colpiscono. Però che ritmo.

Poi oggi incrocio questo pezzo. E non ci sono le solite statistiche, non ci sono le solite curve. Non c’è la società italiana con le sue tante fette. C’è un uomo che parla col cuore. Il suo, e non è una metafora.

L’ho sentito arrivare che stavo a casa mia, pronto a recarmi a un incontro, dove mi attendevano molte persone. A discutere di cambiamenti sociali, culturali, religiosi. Mi ha fermato un dolore muto. Più che un dolore, un senso di oppressione al di sotto della bocca dello stomaco. Tanto che ho pensato a un’indigestione  –  la sera prima, sul tardi, avevo mangiato la pizza con un amico. Non dovrei, perché la digerisco a fatica, ma mi piace. E a volte  –  poche – transigo. Sono rimasto lì ad ascoltare questo dolore muto, che non accennava a diluire, a perdere intensità, nonostante l’attesa. Nonostante qualche palliativo. Non l’avevo mai provato. Non richiamava il pericolo che tutti, alla mia età, temono. L’Incombente, che ti aspetta all’angolo della strada, in qualsiasi momento della tua vita. Ti aggredisce. All’improvviso. Non avevo dolori al torace, alle spalle. Solo questa pressione allo stomaco, che si allargava e si acuiva. Ma io sapevo, ne ero certo, che era lui. Stava arrivando. E non l’ho atteso.

Ho avvertito mia moglie: “Portami all’Ospedale subito. Sta arrivando”.
CONTINUA…

 

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Tutta colpa di Giuda

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Nel grigio cortile, tra invalicabili mura, sta piovendo a dirotto. Kasia Smutniak, che interpreta una regista teatrale impegnata in un progetto all’interno del carcere di Torino, urla ai suoi allievi detenuti la chiave di lettura scelta per mettere in scena uno spettacolo sulla passione di Cristo.   

«Senza la croce, lo faremo senza la croce. Il figlio di Dio si è fatto uomo: e che cosa vuole un uomo? Vuole soffrire? Vuole morire? No!!! E allora cosa vuole un uomo, eh? La felicità. Vuole essere felice, porca miseria, vuole… vuole vivere e allora noi sogneremo il mondo senza dolore, qui e adesso. Senza Giuda, senza tradimento, senza processo, senza la condanna, senza la croce, senza la pioggia, senza il cemento!» 

Al mattino avevo scritto sulla lavagna 4 buoni motivi per guardare tutti insieme Per colpa di Giuda di Davide Ferrario, uno di quei film sfuggiti al grande pubblico impegnato a discutere dell’eterna crisi del cinema italiano a costo di perdersene i frutti più onesti ed originali.
1. La pellicola è girata in un carcere e gli attori sono dei detenuti.
2. C’è il teatro, ci sono le cose che facciamo a scuola quando prepariamo uno spettacolo, dagli esercizi propedeutici alle prove. Emozioni, entusiasmi e scoramenti compresi.
3. C’è un cameo di Lucianina Littizzetto e a Scuolamagia, in 3ª, un’alunna quotidianamente la emula con fiera vivacità.
4. Il film è ambientato e girato a Torino, la città che visiteremo a fine mese in gita scolastica.

Al termine di una scena di raccordo, una veduta notturna del penitenziario, la mia voce ha coperto per pochi secondi la colonna sonora. Mi sembrava utile una precisazione. Il canto femminile in sottofondo era quello delle carcerate, che stanno in un’altra ala della struttura, non si vedono nel film, ma ci sono anche loro.

«Coooosaaaaaa?»

Un rombo: è la sorpresa di Francesco.

«Anche le donne finiscono in carcere? Ma non è sempre colpa degli uomini?»

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Nei panni, almeno un po’…

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Siamo in sei. La 3ª C e il sottoscritto. L’incontro con l’esperto è finito e ci sono due ore da far passare prima che il pullman di linea ci riporti nel paese di Scuolamagia. Decido di condurre la mia truppetta lungo un percorso naturalistico arricchito da alcune istallazioni artistiche. Sono belle, anche se un po’ acciaccate dopo gli schiaffoni dell’inverno. Dal bosco ci accorgiamo che mancano un paio di chilometri al paese successivo, anch’esso sede di un analogo posto di fermata per la corriera delle 12.03. Non ha più senso tornare indietro, e continuando magari ci scappa pure un bignè offerto dal prof. nella pasticceria dovelifanbuoni.
Siamo costretti a ritrovare l’asfalto, e una carreggiata che si restringe. Zero marciapiedi e vetture che sfrecciano. Nasce naturale una fila indiana, che si allunga presto complice il sole che picchia durissimo. Ciondoliamo svogliati. I sorrisi scalano un paio di marce. Poi Cami ci gela tutti e ce ne restiamo zitti, fino alla pasta con le mandorle. (Ché i bignè eran finiti.)

«Siamo come quelli di Lampedusa…»

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