Fiori di Biblioteca, Le storie di Scuolamagia, Res cogitans, Stream of consciousness, Tutte queste cose passare

Il venerdì delle ragazze

04

Venerdì la mia biblioteca di montagna ha festeggiato 8 anni di vita, ma era il 25 marzo e l’anniversario che avevo in testa, nonostante il brindisi col the alla pesca e la fetta di torta al limone, era un altro. È bello sempre, il clima nella mia biblioteca di montagna. Venerdì lo era quasi troppo, quasi da vergognarsene. C’erano ragazze che pensavano a che regalo fare per il compleanno di altre ragazze, c’erano ragazze su Facebook, c’eran ragazze che dovevano andare via prima della chiusura, rammaricandosene, salvo ricomparire, dopo pochi minuti, sulla chat di Facebook. C’erano ragazze un po’ più grandi con il cagnolino appresso, c’erano ragazze che ridevano su YouTube insieme a Paola Cortellesi che registra lo spot di Magica Trippi. C’erano ragazze dappertutto, e chissà dov’erano i maschi, venerdì 25 marzo. Forse al campetto, ora che la neve pare essersi sciolta anche lì. Ce n’era una, di ragazza, che esigeva non uno ma 7 pennarelli per disegnare un arcobaleno. Forse era destino che fossero tutte così ragazze. Un anno fa è morta Marta Lunghi, ventiduenne bibliotecaria volontaria. Per le ragazze ed i ragazzi del suo paese. Perché potessero leggere, ma anche perché potessero disegnare arcobaleni e ridere di gusto. Fu atroce, quella morte italiana. Inscatolando uova, il suo lavoro precario, in nero, per 5 euro all’ora. Se ne ricordò il Presidente Napolitano, di Marta. Lo fece il Primo Maggio del 2010 e io la conobbi così, dalle parole del massimo rappresentante delle Istituzioni. Dovrebbe essere anche questo, la politica, e per favore smettetela di ridere…  

Standard
Le storie di Scuolamagia, Res cogitans, Soletta, Stream of consciousness, Tutte queste cose passare

La fine del mondo a pag. 12

A quelli di Terza piace fare la rassegna stampa. Proprio come in Tv: evidenziatore in resta e frusciare di pagine. Cami ha chiesto “La Repubblica” e si è immersa nel racconto – quasi epico, quasi macabro – dell’inviato Visetti. Giorgio ha voluto “L’Unità”, piccolo formato ma grandi dilemmi nucleari. Debora, sul “Messaggero Veneto”, ha seguito le tracce di una presunta donna friulana sperduta sul suolo nipponico. Ili non è andata oltre la prima pagina, leggendo e sottolineando, ma, si sa, il “Corrierone” è denso e corposo. E Anna? Anna, non senza qualche imbarazzo, mi ha fatto notare che il suo, di giornale, quello tra i tanti capitato tra le sue mani, dei fatti giapponesi proprio non dava conto. In prima pagina c’era un signore dai tratti non certo orientali (Santoro!), continuando a sfogliare ci si imbatteva nella Gelmini, che loro, i miei alunni, chiamano “Germini”, fin dai tempi di un lapsus freudiano di Cami, in altri signori (Fini, Bocchino), in un ciccione (Ferrara) e ovviamente nell’incerottatissimo Premier.

Poi no, eccolo, in effetti, il Giappone. Trattasi di “esteri”, la pagina giusta è la 12. E poi ecco anche la 13, si vede che il direttore aveva deciso di strafare.
Il titolo del primo pezzo – ripeto: pag. 12 – un altro capolavoro: LA FINE DEL MONDO…
E io che davanti all’edicolante mi ero imposto una sorta di par condicio da bravo insegnante pressappoco super partes
Merda.
Giornale di…
Direttore di…
Mondo di…
Fate voi.    

Standard
Le storie di Scuolamagia, Res cogitans, Soletta, Stream of consciousness, Tutte queste cose passare

Scrivi Vecchioni, scrivi canzoni

ROBERTO%20VECCHIONI%20MONTECRISTO

La prima volta che l’ho visto avevo 14 anni. È salito sul palco ed è cominciata malissimo: Agordo (in provincia di Belluno) si pronuncia Àgordo e non Agòrdo ma il cantautore evidentemente non lo sapeva. Niente paura, davanti alle sonore rimostranze del pubblico locale, quell’ometto è tornato sui suoi passi, rifacendo tutto da capo. Nuovo ingresso e…: “buonasera Àgordo!”. Bisogna sempre mettere i puntini sulle “i”, e pure gli accenti sulle “à”, un professore come lui queste cose le sa.
Poi per me si è trattato come di una sorta di rito di iniziazione. Di concerti non ne avevo visti altri, quello era il primo, quindi non che ci volesse molto ad impressionarmi. Però a colpirmi furono più le parole dette che quelle cantate. La trama tessuta tra una canzone e l’altra, il repertorio di piccoli aneddoti, didascalie, contrappunti e chiose. Una tra tutte: “bisogna amare le persone PER QUELLO CHE SONO, non PER QUELLO CHE SONO PER NOI”. Io lì, folgorato. Come avessi ricevuto le tavole di una legge divina. E quante volte l’ho ridetto e scritto, quel pensiero, a volte citando la fonte, a volte vabbeh…
Riascolto oggi parole della stessa grana, ruffiane, spudorate. Belle, ancora. Le vedo arrivare all’improvviso ad una marea di orecchi nuovi e spero facciano lo stesso effetto che hanno fatto a me. I miei bimbi a scuola, loro forse non sono ancora pronti, mi parlano di “quel vecchietto”, ma si vede che sono rimasti impressionati da quanto ci credesse…, e da tutta quella grinta…

Standard
Le storie di Scuolamagia, Res cogitans, Soletta, Stream of consciousness, Tutte queste cose passare

L’orgoglio di vivere in un paese dove non è proibito chiamare Silvio il proprio maiale

2011-01-14

Ogni tanto il ritmo vorticoso (!) e vorticante (!) delle lezioni va proprio spezzato. Succede in quei giorni – in genere a febbraio – in cui un terzo degli alunni di una scuola di montagna è impegnato in estenuanti competizioni di sci nordico che si svolgono in remote località alpine, un altro terzo se la spassa da qualche giorno sul divano alle prese con l’influenza e un’ultima porzione di studenti gira per le aule semideserte chiedendosi perché non ha abbracciato la passione per gli sci stretti o perché almeno non ha abbracciato quel cugino che starnutiva.
Ieri questo simpatico sito mi ha aiutato a spezzare. Promette candidamente di insegnarti una cosa al giorno. Una cosetta da niente, spesso decisamente una stronzata, a volte una curiosità illuminante. Mai una teoria complessa o un dato poderoso, questo è chiaro da subito. A me piace perché livella. Davanti a quelle diapositive colorate gli alunni sono davvero tutti uguali, e se alla fine ci si sfida a “chi ne ricorda di più”, di stronzatine, la gara è davvero apertissima. Non c’è secchione che tenga: armi pari.
E poi, e poi c’è quel messaggio che sembra davvero la pubblicità della Scuola, di ogni scuola. L’idea che davvero si proceda per piccoli piccolissimi passi, oggi una nozione, domani una relazione causa effetto, dopodomani un confronto, poi una data, una parola nuova, un suono, un luogo. E il nome di un vento, una formula, come si ottiene un colore, il colore di una bandiera.
Così, a beneficio di chi sguazza nella pozzanghera… sappiate che…
I Beatles non sapevano leggere la musica.
La Statua della Libertà calza un sandalo numero 876.
Ogni umano trascorre in media 2 settimane della sua vita… intento a baciare.
Le zanzare sono attratte di più da chi ha appena mangiato una banana.
Dal Titanic furono tratti in salvo anche 5 cani e un maiale.
La nostra bocca produce un litro di saliva al giorno.
Nel film “Quei bravi ragazzi” viene impiegato il termine FUCK. Sì, 300 volte.
È illegale in Francia battezzare Napoleone il proprio maiale.

Standard
Le storie di Scuolamagia, Res cogitans, Stream of consciousness, Tutte queste cose passare

Non possiamo non dirci IL CULO

I quotidiani viaggi verso Scuolamagia mi rubano all’incirca 2 ore. Uno lo sa in partenza e si attrezza. Quindi pensa, parecchio, quindi canta, quindi ascolta musiche varie e la radiofonia che le vallate di montagna permettono di intercettare. Questa mattina – il tempo di un’andata e di un ritorno – dai microfoni della radio pubblica ho ascoltato ben 2 voci femminili, voci di giornaliste navigate, avanzare un pericolosissimo punto di vista capace di fare imbestialire il mio femminismo a oltranza. Che pena queste giovani donne così volgari, capaci di macchiarsi di parole tanto spietate nei confronti di una persona anziana. “Vecchio”, “Cadente”, “Grasso”, “Fa schifo”. Ma è quello il modo di riferirsi ad un Premier attempato? E poi, quella Ruby: ma è proprio il caso di continuare a porre l’accento sulla parola “minorenne”? Ma non sembra anche a voi un po’ troppo scaltra, disinvolta, furbetta per finire nel mucchio degli infanti insieme alla vostra nipotina di 7 anni? Ecco, parole così.
Da qui l’idea del post che sguazza oggi nella Pozzanghera. Per prender parte, per stare dalla parte giusta. Fondere e intrecciare un celebre pensiero del laico Benedetto Croce (“Non possiamo non dirci Cristiani”) con l’intercettazione telefonica più eloquente della storia, un’agile sineddoche attribuita alla giovane Ruby (“…io sono il culo”).

Standard
Le storie di Scuolamagia, Stream of consciousness, Tutte queste cose passare

Il bambino e il bambone

capriolo1

Nata come nascono certe espressioni in classe – per puro caso – ormai è un piccolo cult a Scuolamagia. Un giorno uno si alza e non avrebbe dovuto alzarsi, ché già è piuttosto raro che io lo faccia stare seduto per più di dieci minuti.

«Vai al posto o ti abbatto come un camoscio», ho detto.

Sarà che i cuccioli certe cose le sanno immaginare e sembrano quasi vederle davvero. Sarà che non sanno che per me un capriolo un daino un camoscio un cerbiatto uno stambecco e un cervo sono in linea di massima lo stesso animale. Sarà quel che sarà, il camoscio è tornato al suo posto e la lezione è continuata tranquillamente senza intoppi, senza polemiche e gesti di insubordinazione.
Da quel giorno, constatato che funziona, ho abbattuto molti camosci.
Io non sono capace, ché per me uno schioppo un archibugio una carabina una pistola un mitragliatore un bazooka un kalashnikov sono la stessa arma, ma alcuni ragazzi al momento giusto mimano la fucilata nell’aria. Puntuale, Anna sbotta indignata: «Ma povero camoscio!!!».
E si ricomincia. Altro che pausa-caffè. Pausa-camoscio.
Due ore fa passeggiavo in un bosco, piccolo ma piuttosto selvaggio, quando da certi cespugli è sbucato un quadrupede maestoso, un camoscio un capriolo… non so… da piccolo avrei detto “un bambi”, ma grande, “un bambinone”, un “bambone”. Inseguito da un cane (oggi mi risulta che la caccia sia chiusa, forse si trattava dell’animale di un bracconiere, o – visto l’imbarazzante esito dell’inseguimento – di un braccobaldoniere), letteralmente volava. Ma niente era magico, non c’era leggerezza, era un volo rumoroso, era materia che rimbalza sulla materia, erano rumori di sassi smossi, foglie secche, rami e rametti spezzati. Era un fiato, un fiatone, erano sbuffi di locomotiva, era un vento. Erano traiettorie perfette e due occhi perfetti a guidarle. Era scintillante bellezza, pazienza se non c’era fantasia e c’era soltanto istinto. Puro, libero.
Son rimasto lì 2 o 3 minuti come un bambino, vittima di un incantesimo, quasi abbattuto da un camoscio.

Standard
Cineserie, Le storie di Scuolamagia, Res cogitans, Soletta, Stream of consciousness

Come una specie di sorriso

smile
C’è sul “Venerdì di Repubblica”, da quando si è rinnovato, una rubrica che si chiama BARWEB, a cura di Marco Filoni. Ecco il trafiletto di questa settimana.

Di integrazione – o della sua mancanza – si parla sempre. Anche nel web. L’antropologo Piero Vereni, nel suo blog, racconta la storia che gli ha riferito una maestra sua amica. Lei insegna in una di quelle scuole dove ben più della maggioranza degli alunni sono figli di immigrati.
In una quarta elementare la maestra propone un gioco: ogni bambino si avvicina alla cattedra, e uno alla volta i suoi compagni devono descriverlo. Tocca a Stephan, figlio di filippini: «Ha i capelli neri e lisci»; «Ha la pelle olivastra»; «È magro e ha i denti bianchissimi». Una bambina italiana, Greta, aggiunge: «Ha gli occhi a mandorla».
La maestra vuol cogliere l’occasione per parlare di diversità, e chiede: «Perché ha gli occhi a mandorla?». E Greta risponde: «Perché sorride sempre».

    

Standard
Le storie di Scuolamagia, Res cogitans, Soletta, Stream of consciousness, Tutte queste cose passare

Vieni via con Saviano?

Il primo messaggio arriva alle 21.05, mentre sto ancora trafficando con fogli stampati e fogli da stampare.
Dice: “COMINCIA”.
L’asciuttezza degli sms della mia alunna Ili è inversamente proporzionale ai fiumi di parole che impiega per raccontarti a voce anche un fatto minuscolo e insignificante.

Lo so che comincia, ed è proprio per la fretta di raggiungere il divano che mi sono imbottigliato in un pasticcio di stampe sbagliate.
Tutto è iniziato a scuola, una decina di ore prima. Ho beccato Debby in corridoio e ho tracciato una piccola “P” con la penna blu sul palmo della sua mano. “Ricordami che dopo, all’ultima ora, devo fare una pubblicità”. Me ne sono ricordato da solo, poi, nonostante la mano di Debby sia sventolata puntuale al mio ingresso nell’aula. “Se vi va, se non guardate il Grande Fratello (piacevoli smentite cariche di disgusto), stasera alle nove provate a sintonizzarvi su Rai 3”.
“Ah, c’è quello del libro e della scorta, no?”
“Sì, proprio lui, e ci sono altre cose di cui abbiamo parlato a scuola”.
“Mhh, vediamo”.
“Mhh, vedete”.
Il secondo messaggio dice: “CHI È QUESTO TIZIO?”
“Si chiama Silvio Orlando, è un grande attore. Ti ho fatto vedere un suo film, quando eri in prima media, ma lui era un po’ più giovane e non aveva la barba”.
Il terzo messaggio dice: “HA NOMINATO QUELLO DI GOMORRA… C’È ANCHE LUCIANINA?”.
Dico che non so, che non credo, e intanto penso che in classe, per quell’attitudine ad arrampicarsi su banchi e cattedre mentre leggo racconti e storie, miracolosamente senza distrarsi, “Lucianina” è il soprannome che ho dato proprio a Ili.
Il quarto messaggio dice “E QUELLO CHE SUONA?”.
Spiego di Cristiano De Andrè… Sì, proprio il figlio di quello lì, quello di cui Giua esegue benissimo le canzoni: presente quella in genovese? E IANDA E IANDA… Presente?
Il quinto messaggio dice “ECCOLO”.
Saviano. Comincia il suo monologo e ad ogni parola un po’ più complessa delle altre – lo scrittore dice “antonomasia”, dice “emblema” – temo che si possa sgretolare l’attenzione della giovane spettatrice, e che possa pensare “c’ho provato, ma non fa per me”.
È dura, è durissima. Si nominano mandamenti, ndrine e mammasantissime, e io in certi dettagli a scuola non sono mai sceso. Quando all’improvviso, un piccolo miracolo, sancito dal sesto messaggio: “ECCOLOOO!!!”.
È Antonio Albanese, anche se lei avrà pensato “Epifanio”. (Un buongiorno a voi, un buon giorno a me, t’e capì? Forse ma forse…)
Legge cose drammatiche e serissime, l’attore, ma la faccia è la sua, e giova, sicuramente giova.
Sul mio telefono arrivano altri messaggi, su quel palco arrivano altri ospiti.
Poi, a una certa ora, è normale che una ragazza di tredici anni vada a nanna.
La speranza è che non visitino il suo sonno picciotti e padrini, gente che spara e cattura. Ma non credo, forse è una sera in cui sentirsi più grande e più sicura.
Poi arrivano Bersani e Fini.
Leggono elenchi di valori.
Io rileggo un elenco di messaggi.
Valgono anche quelli.  

Standard
Le storie di Scuolamagia, Soletta, Stream of consciousness

Andrei Vado fa il mondo

Gian Luca Favetto ha scritto 41 racconti. Quarantuno biografie. Non stanno dentro un librone spesso così, stanno dentro un librino spesso come la custodia di un CD. E stanno pure dentro un CD, perché l’autore ha deciso di leggerli uno per uno per Il Narratore audiolibri.

pict1466_173917_small_
“I nomi fanno il mondo”, s’intitola la raccolta, e porta lontano, davvero nel mondo, e mille mondi schiude, per davvero. Ad alcuni nomi ti affezioni, altri affascinano, altri spaventano e inquietano. Alvise Fantasia, Arianna Levi, Angelo Maddalena, Giacomo Bambina, Cesare Balìa, Mariko Miyranawa.
Andrei Vado.  

Era un uomo indeciso. Alto, le spalle incassate e indecise. Anche i riccioli, indecisi.
Anche la barba, qualche giorno sì, qualche giorno no, qualche settimana lunga come viene, qualche settimana curata con le forbicine. Indecisa la corporatura, tra il flaccido e l’atletico.
Si chiamava Andrei Vado. Andrei, come il nonno venuto dalla Russia, lui sì risoluto nel rifarsi una vita.
Aveva la condanna del nome: non stava e non andava, si spostava titubante di qualche metro e subito ritornava sui suoi passi, le braccia molli abbandonate lungo i fianchi.
Anche i passi erano indecisi e le braccia, con indecisione, ciondolavano.
Andrei Vado, decidi: o andresti o vai. E se non vai, non continuare a pensare che potresti andare. E se vai, non continuare a pensare che saresti potuto rimanere. Così ti perdi.
“Ma so dove ritrovarmi, almeno” – diceva sorridendo, seppure indeciso: un uomo, intero, in un’esitazione.

Quando Favetto ha scritto di Scuolamagia, qualche tempo fa, ha giocato anche con il mio, di nome. “Dicendo”, in italiano. E in effetti era ed è il succo del mio mestiere: dire.
“I nomi fanno il mondo”: 41 piccoli romanzi che ho letto/ascoltato pedalando in bicicletta, con gli auricolari e il rischio di non sentire un clacson, o sulla cyclette, nei giorni di pioggia o di poco tempo per le due ruote.
Consiglio vivamente.
Ehi, sembra un nome, Consiglio Vivamente… Brutto quanto si vuole, ma chissà qual è la sua storia…

Standard
Le storie di Scuolamagia, Soletta, Stream of consciousness

Generazione PDG

La scatola di latta è riposta nelle fauci del grande drago di cartone, vicino alla leggerìa dov’è bello sedersi per terra con le parole degli scrittori, a fianco dell’armadio con gli atlanti e il vocabolario e il disordine. In fondo alla classe, dove il sole autunnale picchia forte tra le 9 e le 10. È dalla scatola di latta che ha inizio il rito, con le mani avide che la aprono e distribuiscono i piccoli involucri viola, pronti a schiudersi all’unisono. Nato così, come nascono i riti a scuola, come nascono i riti sempre.

115_D04006 Astuccio 50gr Sambuco
Ci fanno impazzire le caramelle RICOLA al SAMBUCO, ecco. Svelato l’arcano. Solo che in 3ª C le chiamiamo PDG, alias “caramelle al piscio di gatto”. Sono buone, ma l’odore che resta nell’aria tagliata dai fiati è proprio quello, tutti d’accordo. E fa ridere. Provare per credere. Basta mangiarne una in casa di un ignaro possessore di felini. Si chiederà subito dov’è Fufi, …quel gran mascalzone. Poi se ne va subito, l’odore, ma resta in bocca il dolce dello zucchero e di un bel momento. E si ricomincia, e si riparte. Di nuovo parole, idee, fatti, storie, popoli, teorie, donne, uomini, tempi, presente passato e futuro.

Standard
Le storie di Scuolamagia, Stream of consciousness

Imperativo

IMG_2397
Si chiama Imperativo perché proprio quel giorno, in classe, si coniugavano ordini. Argomento fugace, quel modo verbale col punto esclamativo, ché il condizionale e il congiuntivo – bestie ben più nere – reclamano spazio e ore di lezione. La sua padroncina mi ascoltava attenta e con l’espressione un po’ annoiata. Mi dimostrava ormai da mesi di saperli usare divinamente, i verbi, e quella mia grammatica le sarà sembrata uno strazio. Imperativo conteneva penne nere e evidenziatori gialli, la colla e un paio di forbici che ho cercato spesso per tagliare i quadratini di carta colorata su cui faccio viaggiare i temi per casa. Conteneva gomme, matite, tutto quel che serviva a chi lo metteva ogni giorno in cartella. Io quando passavo a controllare un quaderno, a sbirciare un disegno, gli facevo una carezza. A volte mi avvicinavo direttamente per fargli una carezza, e mascheravo il gesto fingendo di controllare un quaderno, di sbirciare un disegno. Poi, in terza, Marghe ha cambiato astuccio, forse perché era cambiata anche lei, e ne aveva acquistato uno da ragazza della sua età. Forse un po’ si sentiva in colpa, e verso entrambi: me ed Imperativo. A fine anno era tornato, evviva, con l’espressione sempre malinconica e il naso spelacchiato.
Oggi, finita la lezione, Marghe, che da qualche mese frequenta il liceo, mi aspettava per consegnarmi il suo astuccio delle medie. Io è una vita che non possiedo un astuccio. Dell’ultimo ricordo soltanto una spilla con Nathan Never. A scuola arraffo penne qua e là. Che in genere restituisco, che spesso perdo. Se mi serve una matita, so di trovarla nel libro che sto leggendo. Se mi serve una gomma, so che non posso correre il rischio di tracciare una linea storta.
Ora sto riempiendo Imperativo. Marghe forse si è sentita come il personaggio di Toy Story che è ormai diventato grande. Io mi sento grato a Marghe che mi ha regalato un ricordo prezioso.

Standard
Le storie di Scuolamagia, Res cogitans, Stream of consciousness

Cervelli in foga

Ho raccontato in classe un aneddoto che ho appreso in una conferenza. L’ho semplificato a dovere, un po’ per mediare il linguaggio degli scienziati davanti a dei cuccioli, un po’ perché dubito pur’io di aver capito proprio tutto tutto tutto per benino. Insomma, sembra che il loro – il loro = degli adolescenti – sia il miglior cervello che un essere umano ha a disposizione in vita. È a 15 anni che guidiamo, spesso privi di patente, una Ferrari, una Porsche, una Lamborghini. Piano piano, in seguito, ci adattiamo all’anonima  comodità di una Punto diesel. È la natura, baby, anche perché 90 anni sulla fuoriserie sarebbero insostenibili, decisamente fuori portata. Il conferenziere, molto più poeticamente, con me ha utilizzato la metafora dell’albero, mai così frondoso e fiorito come nell’età dei brufoli. Crescere, giocoforza, sarà una sorta di costante potatura, al cospetto di un tronco che una chioma troppo rigogliosa non la può proprio reggere.
E in classe ci sono rimasti male. Lusingati, all’inizio, abbacchiati alla fine, mentre ripetevano nell’aria il gesto definitivo della sforbiciata che sfronda.
Mannaggiamme.

Standard
Le storie di Scuolamagia, Res cogitans, Stream of consciousness

L’immagine è tutto

Attività da primi giorni di scuola, quando gli insegnanti alle latitudini di Scuolamagia, loro malgrado, sono più rari dei panda nei boschi del Sichuan. E a me tocca “accorpare” cuccioli appena affacciatisi oltre i confini della scuola primaria insieme a cuccioli in preda a palesi arrembaggi ormonali.
Dico facciamo un giornale. Anzi, dico: un giornale a testa di cui siete i DIRETTORIRESPONSABILI. Do qualche dritta e abbozzo una bozza. Regalo esempi e ricordo che il computer per questa volta se lo devono scordare. Sarà un prodotto artigianale, il “Giornale delle loro Vacanze”. Dopo un po’, però, cedo alle richieste dell’alunna che ha già riempito fogli di protocollo di parole e disegni e c’è proprio quella cosa che con la matita non si riesce a rappresentare per eccesso di complicatezza. Prometto una stampa dal pc. Alcuni vivono il gesto come un’insopportabile privilegio ad personam e protestano vivacemente. Sono troppi, sono una prima una seconda e una terza ma a me sembrano un quarto stato. La politica a scuola funziona così, e dopo pochi minuti è bell’e promulgata una LEGGE: scenderò in aula informatica per stampare da GOOGLE IMMAGINI una fotina per ognuno dei miei giornalisti-alunni. Sarà compito loro precisare su un apposito foglio l’oggetto del desiderio e soprattutto dei loro racconti.
Ecco. Si pensa e si dice spesso che siano “tuttiuguali”, i ragazzini di questo tempo, vittime di omologazione e di marketing standardizzante. Ogni tanto lo sospetto pure io. E invece no, ed è ad uso e consumo di questa visione ottimista che riproduco la macedonia infinita di quel foglio stropicciato con i loro desiderata.

Un koala
Uno smartphone
Una scatola piccola di Mikado
Una spiaggia della Sardegna
Un candelabro a sette braccia e una croce cristiana
Un trattore DEUTZ-FHAR 600
Una bicicletta
Caorle
Una motosega STHILL 36
La copertina del libro: “Un progetto super segreto”
Una chitarra
Uno snowboard BURTON (visto davanti e dietro)
Una foto di Ibra, possibilmente che esulta dopo aver segnato contro l’Auxerre
Un orso polare
Un paio di All Star Converse
Un Kinder Bueno
Una foto di Giua
ADSL senza limiti
Una baita
Pato, Ronaldinho e Robinho
Un fucile da biathlon

Richiesta particolare: “per favore mi verifica su Wikipedia la data di morte del pilota Tomizawa?”.

Standard
Le storie di Scuolamagia, Res cogitans, Stream of consciousness

La lingua PRECARIA di Dell’Utri

Le cose della vita: uno sta più di un mese senza scrivere una riga e poi prova a ricominciare parlando di Marcello Dell’Utri. Non avevo niente di meglio da fare? In effetti…
Fatto sta che il buon (?) Marcello ha preso carta e penna per scrivere a “Repubblica”. E qui potrebbe sorgere spontanea un’obiezione: figuriamoci se la lettera l’ha scritta lui; il politico avrà come ogni personalità che si rispetti delegato un ufficio stampa, un ghostwriter. Però, nella fattispecie si trattava di replicare, sul tema dei presunti diari mussoliniani di cui Dell’Utri è in possesso, a un caustico (al solito) articolo di Francesco Merlo, uno che se ti rade al suolo ti sta facendo un complimento. Uno così feroce che mentre lo leggi, anche se ha pienamente ragione, solidarizzeresti col suo bersaglio polemico anche se si chiama Marcello Dell’Utri. (Update: no, se si chiama MD’U no…). Insomma, non si trattava di una precisazione puntigliosa, era una vera battaglia campale.
Conclusasi, vengo al punto, con un invito del giornalista di “Repubblica” al senatore del Pdl, in un brevissimo corsivo, a mettere da parte gli interessi storiografici per dedicarsi piuttosto alla cura della sintassi. Cosa c’entra la sintassi?
Nei giorni in cui la scuola italiana lascia a casa migliaia di professionisti di cui si è servita nel corso degli anni, quello che nella maggioranza governativa passa per uno dei più raffinati intellettuali, il bibliofilo Marcello Dell’Utri, infila 3 errori da penna blu in una missiva di 10 righe. Errori veri, roba grossa, mica refusi imputabili al precario di “Repubblica” (chi è senza peccato scagli ecc…) che ha fatto “copia e incolla” per impaginare la risposta a Merlo…
Parli e scriva quanto vuole, il discusso uomo politico, dei diari del Duce e pure di quello di Hello Kitty. Ma basta dargli dell’intellettuale, please. O dare per scontato che lo sia.

Standard
Le storie di Scuolamagia, Res cogitans, Soletta, Stream of consciousness

Anna, Enzo, Pamela, Claudio e Lucia

The road
Complici il mio viaggio in Cina, il navigare intermittente tra le maglie della censura e l’inevitabile finire un po’ fuori dal mondo che prende in quelle lande, mi è sfuggito un post di Anna Gattico, sul suo blog paralimpico. Figuraccia, la mia, di quelle grandi. Perché lo scritto di Anna parla di me e di Scuolamagia. E di Lucia, che a malincuore a Scuolamagia si è laureata a giugno “ragazzadascuolasuperiore”.

Con venti giorni di ritardo, un grazie grande a tutti i protagonisti di questa piccola grande storia. Una storia di sport e di scuola, e di quando sanno andare a braccetto.

Standard
Le storie di Scuolamagia, Res cogitans, Soletta, Stream of consciousness

La casa della musica

Una delle tracce più apprezzate nel mio campionario di prof di italiano è quella che chiede ai cuccioli di immaginare l’interno dell’abitazione dei loro sogni. La settimana successiva alla consegna, di solito vengo travolto da fiumi d’inchiostro che raccontano case abitate da cani di ogni razza, popolate di tecnologie sofisticatissime, dotate di scivoli ad uso scale, arricchite da flipper, piante tropicali in salotto, iguane, trampolini, luci stroboscopiche e schiavi.
Ecco, dovessi svolgerla io, oggi, quella traccia, direi che la casa dei miei sogni è identica a quella dei Pomplamoose. Sì, certo, voi adesso farete finta di conoscerli da almeno due anni, i Pomplamoose, ché sono un fenomeno di YouTube, ché li avete visti in un servizio su Italia 1. Perdonate, ma io ci sono arrivato oggi e per puro caso.
E per puro caso mi sono innamorato della loro casa. Sono anche consapevole che probabilmente non esiste, quell’abitazione lì, e che in quei video c’è del buon cinema e tanta furbizia, ma tant’è. Io vivrei nella casa dei Pomplamoose, e so di dirlo come si può dire “la casa dei Flinstones” o “la casa dei Teletubbies”.
Vorrei inciampare in un basso elettrico, in una chitarra acustica. Vorrei appoggiarmi ad un pianoforte, picchiettare le dita su uno xilofono, scavalcare cavi di microfono al momento di andare in cucina. Appendere la giacca sul charleston della batteria.
Ah, sì, uguale. Però senza videocamere e YouTube.

Standard
Le storie di Scuolamagia, Res cogitans, Stream of consciousness

Insegnare: una faccenda di corpi

Quella dell’insegnante passa per una professione “intellettuale”. Un lavoro di “concetto”, un mestiere da fare con le sinapsi prima che con i polpastrelli. E invece no. Lo sento in giorni come questo, che seguono altri faticosi giorni di fine anno scolastico, caratterizzati da prove e da spettacoli teatrali. Rivedo il “film” e penso che sia invece tutta una faccenda di “corpi”.
C’è quello col quale spartisci il peso del pesante pannello: piccoli passetti lui avanti e tu indietro. Bisogna portarlo laggiù e laggiù è lontanissimo.
Ci sono quelli col sangue di naso, ci sono sempre e sono tantissimi. Sai già che per definizione non portano con sé fazzoletti e non hanno cognizione di come fermare quel fiume che gli ha invaso la faccia.
C’è chi ti chiede se ti può stringere forte la mano per sfogare l’ansia. Ti concedi, e ti accorgi che forse pure funziona.
Ci sono migliaia di pacche sulla spalla, e le tue mani che trascinano lembi di t-shirt per portarli nel posto dove dovrebbero essere.
Ci sono starnuti allergici, rutti di lattina, sudori di maglietta.
Ci sono abbracci, ci sono 5 da battere. E c’è da dare il gomito.
Ci sono teste che si abbassano per un rimprovero, guance che arrossano per un complimento sincero.
Si constatano bellezze, si misurano forze.
Ci sono passi nervosi.
Ci sono sbuffi di sollievo che volano ad altezza di bambino.

Standard