Res cogitans, Soletta, Stream of consciousness

Guarda e impala

 

C’è chi sbrana occasionalmente, quando ad esempio finisce nel vortice di uno scandalo bancario, e c’è chi sbrana per mestiere.

Ieri sono stato sul punto di gettare nella Pozzanghera una delle foto scattate da un fotografo olandese e pubblicate dai giornali online. Mi avevano colpito. Una leonessa coccolava un cucciolo di impala, spuntato all’improvviso nella savana pochi attimi dopo l’uccisione, per zampa leonina, della madre.

Erano l’apoteosi dell’istinto materno, quegli scatti. Erano il granello di sabbia andato ad inceppare i meccanismi severi ed implacabili del mondo naturale e le ciniche leggi che sovrintendono alla sopravvivenza delle specie.

Non ci sono cascato. Tutto troppo bello per essere vero e troppo poco vero per essere bello.

Questa mattina le ho mostrate alla mia amica Magie, quelle foto. Dall’alto dei suoi 15 anni che la portano a trasalire per ogni immagine di animaletto cicciopuccioso, ha sentenziato: “non può essere”.

Aveva ragione.

 

According to Packer (un etologo del Lion Research Center at the University of Minnesota, n.d.r.), the scene depicted in the photos is familiar to anyone who has studied lions, and to anyone who has ever watched their cat catch a mouse. “These are just variations on the theme of cat-and-mouse, where cats capture their prey and play with it until they either get bored and leave it or get hungry and eat it”.  

(L’intervista completa)

 

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The question

La ragazza chiede se può andare in bagno. Nell’aula i banchi sono disposti a ferro di cavallo e lei sta all’angolo, quello opposto alla porta d’ingresso. Può, certo che può.

L’insegnante, momentaneamente chinato sul banco di un assente, scartabella cercando una fotocopia colorata smarrita e la sente tagliare la classe, tracciandone di buon passo la diagonale. Cinque secondi al massimo, percepiti come un piccolo fruscio.

Il ragazzo, dal suo banco, è soltanto una voce – curiosa, da scienziato.

«Prof., ma perché le donne sculettano?»

 

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Disegnare insieme

Un noto mensile ha chiesto a due disegnatori, diversi ma neppure troppo, di sedersi allo stesso tavolo e di condividere lo stesso foglio bianco. Ne è nata una jam session d’inchiostro nero che mi ha ricordato la bellezza di un gesto che in fondo frequento da sempre e che continuo a praticare nel mio lavoro quotidiano.

Disegnare insieme a qualcun altro.

Ma non ognuno per sé: insieme sullo stesso foglio. Gomito a gomito. Un atto di condivisione profondissima. Riunire due strumenti musicali non regala a parer mio lo stesso tipo d’incanto: bellissimo, ma rimane una somma, un unopiùuno. Disegnare sullo stesso foglio è invece un intero. È dare un morso alla stessa mela. Mi piacerebbe riuscire a farlo capire, ai cuccioli che mi chiamano per segnalarmi che la riga che han tracciato è storta, che il cerchio è tutto fuorchè tondo, che “gli occhi proprio non mi vengono”; far loro capire che sedermi al loro posto, o al loro fianco, stringere tra le dita la loro matita mangiucchiata, il loro pennarello da due lire è per me un onore e un’emozione grande, capace di riportarmi con la memoria a tutta la carta che ho riempito di segni con l’aiuto di altre mani.

Sarà per quello che poi la riga rimane storta, il cerchio rimane sghembo, gli occhi non ne parliamo.

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La fuga di Guia

 

Qualcosa mi dice che nessun brano di Guia Soncini sia stato ancora “antologizzato” nei ponderosi tomi in uso nelle scuole secondarie di primo grado, strizzato tra Calvino e Buzzati, tra Piumini e Omero.

Qualcuno dovrà pur cominciare, no? Almeno a leggerla, almeno in fotocopia,  ‘sta benedetta autrice contemporanea.

Io comincio la prossima settimana.

 

La prima volta che scappai di casa ero in quinta elementare. Su Canale 5 facevano un ciclo di telefilm intitolato I simpamici (i traumi inferti da certi titolisti non sono stati abbastanza indagati): un giorno mandavano Il mio amico Arnold, un giorno L’albero delle mele – cinque baluardi degli anni Ottanta a settimana.

Litigai con mia madre per ragioni che non ricordo (e che probabilmente non ricordavo già due ore dopo), e uscii di casa determinata a non tornarci. Ero sicura della mia scelta senza ritorno almeno quanto mio padre era convinto di non poter vivere senza quel qualcosa di biondo con cui si accoppiava da anni (illudendosi probabilmente da altrettanti anni che lei lo volesse tutto per sé).

La prima tappa della mia grande fuga era casa della mia migliore amica. Non ricordo se il piano prevedesse di fermarsi lì o poi fare il giro del mondo: non sono mai stata una bambina avventurosa e l’amica abitava, secondo misurazione fornita oggi da Google Maps, a 140 metri di distanza. Ma non importava, perché il silenzio e l’inconsapevolezza di dove mi trovassi avrebbero gettato i miei nella più cupa angoscia – no?

Dalla mia amica c’era il televisore rotto. Era l’ora di pranzo. Chiamai mia madre e feci l’annuncio con tutta la pomposità richiesta dalle circostanze: «Sono scappata di casa. Torno alle cinque per i Simpamici».

Guia Soncini, I mariti delle altre, Rizzoli

 

 

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Ho un problema con la Memoria, quella Memoria

Li guardo dal basso verso l’alto, come la posizione che ho occupato nel teatro mi consente di fare. Lo spettacolo è appena iniziato. L’attrice esperta li ha fatti entrare ed accomodare su una lunga fila di sedie. Racconteranno – benissimo – la storia di quelle donne friulane che aspettavano i convogli ferroviari diretti verso i campi e intercettavano i bigliettini dei prigionieri, scritti in fretta e furia prima che la deportazione fosse compiuta e prima che fosse troppo tardi. Gli attori sono ragazzi delle medie, come i miei, e io riesco a guardare solo le loro scarpe.

Ci sono le Nike marroni, le Asics da corsa, le Adidas blu. Ci sono le Puma basse e affusolate e quelle alte da basket, slacciate, bianche. Una ragazza indossa due ballerine nere e muove velocemente i piedini che le abitano: ha freddo. Una indossa degli stivaletti che arrivano a metà polpaccio, il suo vicino un paio di scarpette eleganti con il bordino argentato.

Da qualche anno la Giornata della Memoria mi mette in crisi, mi fa traballare. La scossa più forte me l’ha data un libro fondamentale, e ne ho già scritto, ma forse tutto è cominciato prima, quando ho smesso di essere sicuro e di entrare in classe il 27 gennaio più motivato che in un giorno qualsiasi.

Che diritto ho di far vedere loro tutto questo? A quell’età, dico. Non dovrebbero scoprirlo più tardi, già grandi, dentro lezioni e discussioni (e film, e libri, e spettacoli teatrali) da adulti? Sono sicuro che sia giusto mostrare uomini orribili e terrificanti a ragazzini e ragazzine che forse non hanno ancora preso davvero le misure di un uomo buono e di un uomo cattivo? No, non ne sono più sicuro. È una questione di memoria. La Memoria con la maiuscola, certo, tutta la vita. Ma non in quel momento, non con l’intensità che c’ho messo in certe occasioni.

Lo spettacolo era calibratissimo e dolce. Luminoso. C’erano i bigliettini, al centro. E dentro i bigliettini parole d’amore. I ragazzini hanno ancora dimestichezza coi bigliettini, nonostante il cellulare; a scuola i Prof. lo sanno e fanno finta di non vedere la carta che transita clandestinamente tra le ginocchia e il ripiano dei banchi. Era calibratissimo, dolce, luminoso, lo spettacolo. Ma giocava col fuoco. Un fuoco che mi sono illuso di domare tante volte, e da cui oggi – forse, però – difenderei quelle scarpe pulite, ancora così povere e ignare di cammino.

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Una domenica da leoni

I giornali, questa mattina, pullulavano di leoni.

C’erano vecchi leoni spelacchiati che credevo quasi estinti. Invece ruggivano piangendo un compagno morto. Ripensavano alle battaglie vinte e perse con gli altri animali della savana, gridavano che la guerra non è finita, perché la guerra non può finire. Erano ciechi, quei vecchi leoni, in fondo lo sono sempre stati. Erano tre, erano quattro, erano più di 24, purtroppo.

Scrocchiano un paio di pagine e riecco altri leoni. Fuor di metafora: leoni d’Africa più veri del vero. Erano 100.000, 50 anni fa. Sono rimasti in 15.000, nelle stime dei pessimisti, oggi. Quindicimila, un po’ meno dei miei concittadini in questa piccola landa friulana. Chissà cos’avrei risposto, m’avessero chiesto “quanti sono in tutto i leoni?”. Pur privo di qualsivoglia strumento, avrei risposto 900.000, massimo 1.200.000. Mi sarei sentito realista, e senza l’aria di chi spara a caso.

Corro a preparare la lezione, domani in classe si parla di leoni.

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Jakarnia

Bisogna essere elastici, bisogna saper trasporre, traslare.

Avrei voluto mettere nella Pozzanghera un’immagine che raccontasse la mia giornata da prof. di montagna, e soprattutto il mio avventuroso viaggio di ritorno, 2 ore e ½ di guida al posto della classica ora tonda tonda, con l’ansia, la paura, il cambio – terza, seconda, prima, seconda, terza – a sostituire da solo gli inutili freni. Avrei voluto ma sarebbe servita troppa concentrazione, e avrei perso minuti preziosi per rintracciare il telefonino e l’inquadratura giusta. Tanto, come dicevo, basta essere elastici, trasporre, traslare. Ecco quindi un odierno scatto da Jakarta con un protagonista che potrei essere io, con un mezzo di trasporto che potrebbe essere la mia Peugeot e un clima avverso che potrebbe essere la neve di questo gennaio virato al bianco.

 

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La dolce supplenza

Come in una sorta di dolce supplenza. Come avessero ricevuto una delega, e se ne occupassero per conto terzi. Consapevoli che, anche se son costati 35 euro (!!!!), i miei pasticcini non sono e non saranno mai la stessa cosa. Consapevoli altresì che con le mie mani non saprei da dove cominciare…

Ogni anno una mamma di Scuolamagia confeziona con figlio e figlie la mia torta di compleanno, in un gesto che è stato dapprima una grande sorpresa ma che in fondo in fondo ormai finisco spudoratamente per attendere, per prefigurare (cioccolato, crostata? cosa staranno architettando quei demoni del forno?), e che oggi si è compiuto con puntualità, inesorabilmente tenero, a dir poco magico.

Poi le torte a scuola, si sa, hanno vita breve di farfalle. Ma il profumo resta nell’aria, e impregna l’anima.

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Il capitolo che non c’è

Oh, boy! Che gran bel libro. So che avrei dovuto già averlo letto, mi par di aver capito sia una specie di classico. E io niente, l’avrò preso in mano cinquanta volte, riponendolo regolarmente sullo scaffale. La copertina, va detto, non viene propriamente incontro ad abbracciarti.

C’è voluta una citazione di Lella Costa nel suo saggetto delizioso sull’ironia, a convincermi di avere un conto in sospeso con quel leccalecca.

Il capitolo migliore, senza dubbio, è il tredicesimo. Non sono scaramantico e invito le gatte nere ad attraversare la strada prima del mio passaggio perché sono galante, tuttavia ho trovato di una dolcezza unica il cap. 13, mentre la vita di uno dei protagonisti è appesa ad un filo e quella degli altri non va proprio a gonfie vele.

 

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…ed è l’odore dei Limonov

E alla fine nella Pozzanghera è finito anche Limonov, il libro alla moda, il libro che spacca, il libro politicamente scorretto. Letto d’un fiato, e ora il fiato sa di limone, anche se quel “nome d’arte” in russo ha poco a che fare con gli agrumi e più con le armi. Granata, non granita.

Una lettura da cui credo di aver imparato un sacco di cose utili per capire certi snodi del presente e per immergermi in fatti più o meno remoti del secolo scorso. Ma il fascino di Limonov quello no, quello non l’ho captato, respirato, subodorato. Non avrò nulla di eroico e dannunziano, prevarrà in me un fondo di banalità e di buonismo, ma quando leggendo e sottolineando non pensavo che il protagonista fosse un fascista era perché stavo pensando che fosse un idiota, e quando non pensavo che fosse un idiota era perché riflettevo sul fatto che fosse disumano, e quando non pensavo che fosse disumano era perché lo consideravo maschilista, e quando non pensavo che fosse maschilista era perché pensavo che fosse – più semplicemente – una merda.

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Campagna elettorale

È tempo di primarie parlamentari. Confesso che domani mi recherò al mio seggio senza conoscere a dovere il profilo dei candidati ad essere candidati. Colpa soprattutto mia, avrei potuto studiare di più e meglio. Con qualche attenuante: la rete non pullula di interventi dei contendenti, decisamente poco abili e agili nello sfruttarne le potenzialità.

Poco male, per una volta il destino ha tolto le castagne dal mio fuoco.

Me ne stavo assorto davanti allo scaffale di una libreria, nell’angolo più periferico di quel grande negozio. Si è avvicinato a piccoli passi, felpati. Ci siamo spartiti – a fatica, per qualche minuto – quei pochi metri di spazio, prima che iniziassero altri settori, altri generi, altre tipologie di libro. Era lì di proposito, il candidato, convinto e fiero. Cercava delle poesie.

E ha trovato il mio voto. 

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Soltanto una mela

Quando un autore decide di divulgare un tema complesso (la Costituzione, il razzismo, la Mafia, la Shoah…) tra i ragazzi, raramente riesce a fare centro. Nascono quei libri, a volte piccini piccini, che fin dalla copertina dichiarano il proprio intento: “XXX spiegata/o ai ragazzi”. Le parole, tuttavia, capita che non siano quelle giuste. Non ci si improvvisa interlocutori di quel pubblico così ostico e ritarare una lingua su di esso è una missione impossibile. Specie per autori che con tutta evidenza non hanno manco il tempo di provarci a sufficienza.

Il libro che sto leggendo è in fondo un caso particolare che un pochino sfugge a questa regola.

L’ha scritto il giornalista Giovanni Bianconi ed è una cavalcata impetuosa dentro gli anni di piombo. Senza ragazzi, va da sé, nonostante i propositi di copertina. In primo luogo perché trattasi di un tomo di 400 pagine. Senza ragazzi, poi, per com’è scritto. I capitoli si aprono con immagini nitide, quasi tattili, le storie sono quelle dei figli adolescenti delle vittime, ottima idea nell’ottica di favorire l’identificazione dei lettori con quegli sfortunati protagonisti. Dopo la prima facciata, però, un ragazzo sbatte insesorabilmente contro le “convergenze parallele” e il “centralismo democratico”, contro “governi monocolore”, “esecutivi balneari” e “matrici neofasciste”. E non ce la può fare. A patto che per “ragazzo” si voglia intendere un ragazzo qualsiasi e non un “prescelto”, il prodotto di qualche élite.

Detto questo, ripeto: il libro è un affresco vivissimo di quei tempi agitati. Un ripasso indispensabile per chi – già grande – voglia rafforzare la sua memoria e sentirsi, come me in queste ore natalizie, un “ragazzo” affamato di storie e di Storia.

 

«Forse se n’era reso conto anche uno degli assassini, che dopo l’omicidio aveva afferrato il borsello del maresciallo convinto di rubare una pistola che sarebbe tornata utile alla causa. Ma quando l’aprì, scoprì che il poliziotto aveva portato con sè soltanto una mela».

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Le storie di Scuolamagia, Stream of consciousness

Il mio presepio

 

Camminavo ieri nella mattina di ghiaccio, portando a spasso il malditesta del sabato. La luce era una coperta distesa sulla mia cittadina, senza riuscire a scaldarla. Solo la facciata della grande chiesa sembrava giovarsi di quel miracolo luminoso. Da una nicchia su quella spianata verticale di marmo mi ha raggiunto l’eco di una musica. Diamonds, Rihanna. La cantano le mie alunne e ne hanno devozione. Tre corpi si riparavano dal freddo su quegli scalini protetti. Avranno avuto quindici, sedici anni, e probabilmente a quell’ora avrebbero dovuto essere in classe. I cappucci d’ordinanza alzati, gli zaini buttati lì su quelle pietre consacrate. Sullo sfondo, quello con gli occhiali si occupava della musica col suo cellulare; due gradini più in basso quello biondo e quella coi ricci rossi fuoco erano abbracciati. Lei distesa su di lui, con i capelli a cascata, gli unici ad uscire dalla nicchia per finire a favore di vento. Una pietà a ruoli invertiti: lui madre, lei cristo. Il campanile ha scoccato lentamente le undici. Biondo ha scoccato un bacio robusto sulle labbra di Rossa. Alleluja, alleluja. Io un presepio così bello non l’avevo mai visto.

 

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Compiti delle vacanze

Cara 3ª,

ve l’ho detto che ieri ero cotto. Avevo preparato 6 fogli (erano blu) con i vostri compiti per le vacanze, ma poi ho avuto la brillante idea, mentre riordinavamo Scuolamagia dopo lo spettacolo di giovedì, di appoggiarci sopra una decina di maschere dei Beatles, più quella di Yoko Ono. Risultato: sommersi e dimenticati.

Così, mentre giocavamo a “Spenna il pollo” all’ultima ora, a me ronzava nella testa una domanda: “C’è qualcosa che devo DIRE a queste creature del demonio, ma cosa?”. E non mi veniva in mente nulla, perché era DARE, non DIRE.

Se cliccate qui sotto trovate i compiti. Se qualcosa non dovesse funzionare o ci fossero dei dubbi su come impostare il vostro lavoro, sapete come fare a trovarmi.

Buone vacanze, statemi felici, nonostante i compiti.

Profus

Compiti Natale terza 2012

 

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Non possiamo non dirci gay

Ancora su @Pontifex, mica sana sta cosa.

Sembra abbia detto:

 

“I tentativi di rendere il matrimonio fra un uomo e una donna giuridicamente equivalenti a forme radicalmente diverse di unione sono un’offesa contro la verità della persona umana e una ferita grave inflitta alla giustizia e alla pace”.

 

No, spetta, rileggo:

 

“I tentativi di rendere il matrimonio fra un uomo e una donna giuridicamente equivalenti a forme radicalmente diverse di unione sono un’offesa contro la verità della persona umana e una ferita grave inflitta alla giustizia e alla pace”.

 

No spetta, ingrandisco:

 

“I tentativi di rendere il matrimonio fra un uomo e una donna giuridicamente equivalenti a forme radicalmente diverse di unione sono un’offesa contro la verità della persona umana e una ferita grave inflitta alla giustizia e alla pace”.

 

Provo col grassetto.

 

“I tentativi di rendere il matrimonio fra un uomo e una donna giuridicamente equivalenti a forme radicalmente diverse di unione sono un’offesa contro la verità della persona umana e una ferita grave inflitta alla giustizia e alla pace”.

 

Forse con un po’ di colore.

 

“I tentativi di rendere il matrimonio fra un uomo e una donna giuridicamente equivalenti a forme radicalmente diverse di unione sono un’offesa contro la verità della persona umana e una ferita grave inflitta alla giustizia e alla pace”.

 

Poco? Vediamo così.

 

“I tentativi di rendere il matrimonio fra un uomo e una donna giuridicamente equivalenti a forme radicalmente diverse di unione sono un’offesa contro la verità della persona umana e una ferita grave inflitta alla giustizia e alla pace”.

 

Chiedo a Google di mostrarmi la frase in un’altra lingua, più elastica, più moderna. Non sia mai ch’io mi sia sprovincializzato troppo.

 

“Attempts to make marriage between a man and a woman legally equivalent to radically different forms of union are an offense against the truth of the human person and a grave wound inflicted onto justice and peace”.

 

Mescolo un po’ le parole…

 

“I tentativi equivalenti di rendere il matrimonio radicalmente fra un uomo e una unione giuridicamente a forme diverse di donna sono un’offesa contro la ferita della persona umana e una verità grave inflitta alla giustizia e alla pace”.

 

Lo stampatello maiuscolo non tradisce mai.

  

“I TENTATIVI DI RENDERE IL MATRIMONIO FRA UN UOMO E UNA DONNA GIURIDICAMENTE EQUIVALENTI A FORME RADICALMENTE DIVERSE DI UNIONE SONO UN’OFFESA CONTRO LA VERITA’ DELLA PERSONA UMANA E UNA FERITA GRAVE INFLITTA ALLA GIUSTIZIA E ALLA PACE”.

 

Cambiamo il punto di vista.

 

˙”ǝɔɐd ɐllɐ ǝ ɐızıʇsnıƃ ɐllɐ ɐʇʇılɟuı ǝʌɐɹƃ ɐʇıɹǝɟ ɐun ǝ ɐuɐɯn ɐuosɹǝd ɐllǝp àʇıɹǝʌ ɐl oɹʇuoɔ ɐsǝɟɟo,un ouos ǝuoıun ıp ǝsɹǝʌıp ǝʇuǝɯlɐɔıpɐɹ ǝɯɹoɟ ɐ ıʇuǝlɐʌınbǝ ǝʇuǝɯɐɔıpıɹnıƃ ɐuuop ɐun ǝ oɯon un ɐɹɟ oıuoɯıɹʇɐɯ lı ǝɹǝpuǝɹ ıp ıʌıʇɐʇuǝʇ ı”

 

Niente da fare. Mi sento in colpa, mi sogno migliore di così, mica mi basta essere migliore di @Pontifex…

Ma il mio cervello è inchiodato lì. Si è come inceppato. Non ragiona e continua a proiettare soltanto una vignetta di Andrea Pazienza. Schiaccio CTRL ALT CANC e non si sblocca. Non riesco a riavviarlo. AIUTO.

Mi arrendo: ragioneremo la prossima volta.

  

(Dove dovevano andare i Papi secondo Paz)

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Costruire ponti che non toccano l’altra sponda

Forse li sorprendeva il fatto che @Pontifex fosse arrivato su Twitter, nuovomondo, prima di loro. Fatto sta che dopo avermi sentito declamare il primo tweet papale, mentre diligentemente ricopiavano il compito d’italiano oggi alla quinta ora, mi sono sembrati un po’ delusi. Tutto qui? Certo, erano abituati ai cinguettii di @BarackObama e di @MichelleObama, i miei ragazzi, e forse con un principiante bisognerebbe essere più indulgenti.

Rincasando, qualche ora dopo, rimuginavo su quella schermata giallina, su quell’utente così “autorevole”, sulle ambizioni di quel progetto comunicativo, cercando di mettere a fuoco il conto che non tornava. Che è in fondo sempre lo stesso. Centinaia di migliaia di persone che ti seguono (followers, per gli iniziati…), e presto saranno milioni, nessuna da seguire. Anzi, 7: se stesso twittante in altri 6 idiomi del globo terracqueo. Il trionfo dell’autoreferenzialtà, e l’assurdo di un account ex cathedra, col dogma dell’infallibilità. Forse è solo questione di tempo e di acclimatamento, ma perché non seguire… che so… @CardRavasi, @fam_cristiana, @AndreaDisint@DalaiLama (uno che a dirla tutta non segue neanche se stesso nelle altre lingue…), solo per citarne 4?

Come diceva Alex Langer, autentico “costruttore di ponti”, è bello e importante amare le bandiere, ma a patto di cominciare da quelle degli altri. Sono convinto possa valere anche per i tweet, che provano ad essere dei cip cip. Potenzialmente qualcosa di molto più ambizioso dei soliti beeh beeh.

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