Le storie di Scuolamagia, Soletta, Stream of consciousness

Lectio Magistralis

In un giorno piovoso di fine ottobre, dopo una mattinata rigorosamente scioperante, Scuolamagia si è riaccesa all’improvviso col rischio di sembrare, agli occhi del passante viaggiatore catapultato lì da qualche altrove, l’Università di Tubinga, la Scuola di Atene, la Normale di Pisa e il Massachusset Institute of Tecnology.

Ieri pomeriggio, davanti a una trentina di ragazzi e ad un’altra ventina di paesani (mamme, papà, sorelline e fratellini), Claudio Arrigoni ha tenuto la sua lectio magistralis sullo sport per atleti con una disabilità e sul movimento paralimpico. Un viaggio tra immagini e parole, un intrecciarsi di storie che mai come ieri ho sentito essere l’epica del nostro tempo, con Oscar Pistorius novello Achille senza talloni d’intralcio.

Sazi di parole ci siamo quindi trasferiti in palestra, dove abbiamo giocato bendati a rincorrere un pallone sonoro. Giocare la cecità: che lezione! Recitarla senza recitare, mettendosi nei panni. Provare a spiccare un salto nel buio di una mascherina nera sugli occhi. Certo, c’è il materasso, ma quanto coraggio ci vuole? (Comunque, proprio pochi giorni fa avevamo appurato che i bambini carnici sanno cadere, ricordate?)

Meravigliose le immagini di un bimbo che dichiara fiero il suo grande obiettivo: diventare una star del basket in carrozzina. Prima di alzarsi, dalla carrozzina, e allontanarsi tranquillamente con le sue gambe. Quello che non può camminare, in realtà, è il fratello. Cosa c’è di meglio di condividere lo stesso sogno?

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Res cogitans, Tutte queste cose passare

Per il culo

Il mezzobusto del rotocalco mattutino di Rai Uno ricorda: l’Africa non da oggi è un tema che lui e la testata giornalistica affrontano e sviscerano. Ancora in pigiama mi dispongo quindi all’ascolto e alle meritatissime sberle morali: dell’Africa non si parla mai, le guerre africane sono guerre dimenticate, nel continente africano accadono tragedie che si consumano nell’indifferenza più spietata. La Rai, continua il solerte anchorman, ha da poco addirittura un inviato a Nairobi, segnale di indubbio interesse per le sorti di quel mondaccio. Nel frattempo mi sono seduto, il caffè può aspettare. Parte il collegamento telefonico che mi aggiornerà su quello che sta accadendo per le strade di Goma. Il mezzobusto, dopo una premessa di 4 minuti di auto incensazione sviolinante, finalmente dà la linea:

 

“…mi raccomando, Enzo, 30 secondi altrimenti ci sfumano…”

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Sciopero

Ogni mattina all’appello rispondono in 11. È per questo che non lo faccio mai, l’appello. Non serve, basta guardarsi negli occhi, e con gli occhi contarsi.

Negli occhi si può anche leggere una nuova ansia: “Prof., ci saremo ancora il prossimo anno?”.

Friuli. Carnia. Forni Avoltri. Montagna. Undici adolescenti, una terza e una pluriclasse prima&seconda. Quella che tutti ancora chiamano “scuola media”, quella che tanti hanno cominciato a chiamare Scuolamagia. Sarà per il divano al centro del piccolo atrio, sarà per il the coi biscotti tutti quanti assieme. Sarà perché i ragazzi vogliono non finisca mai, ché andare alle scuole superiori significa anni di levatacce con due o tre ore di corriera ogni giorno. Significa istituti lontanissimi, con un’esigua scelta di indirizzi e l’approdo finale dentro un’economia depressa che molto probabilmente non saprà assorbirli nel ramo che hanno scelto e li costringerà, se non vogliono fare le valige e trasferirsi in città, a turarsi il naso dentro un mestiere (precario) lontanissimo dai loro sogni.

Scuola

Alessandra ha 17 anni e rimpiange gli anni di Scuolamagia. Studiare le viene facile, ha 10 in italiano e paura di nulla. Sa però cosa significa aspettare la corriera che ti porta a scuola quando è ancora buio e il paese è bianco come nelle cartoline. Soprattutto è consapevole di quanto sia assurdo che la sua stessa fatica quotidiana debba sopportarla un ragazzino di 11 anni (o addirittura una bimba di 6) e mi dice che è disposta ad occupare la sua vecchia scuola media. Claudio sorride e dice che poi toccherebbe a lui venire a sgomberarci, grandi e piccini, i suoi figli compresi. Claudio fa il finanziere e quando c’è da dare una mano alle attività del plesso non si tira mai indietro. Nessun genitore si tira mai indietro, la scuola in paese è preziosa, quasi sacra. E, ahimè, sempre in bilico, sempre sulla lama dei tagli. Un ministro che si chiama “Tre-monti” da queste parti sembrerebbe perfetto, salvo poi anagrammarlo e ottenere “tormenti”…

Nemmeno l’amministrazione comunale ha mai negato il suo appoggio: ha rimesso a nuovo i locali scolastici, ha investito in pannelli solari e nelle biomasse per ammortizzare il costo del riscaldamento, ha rincorso tenacemente la banda larga perché nelle aule gli alunni  potessero stare al passo, e navigare liberi anche tra le montagne. Soldi buttati. Uno spreco vero, questo sì. Il prossimo anno nel silenzio delle mattine non suonerà nessuna campanella. Nessun grido di ragazzino, l’aria in paese sembrerà come svuotata.

Dà fastidio passare per un lusso, una spesa inutile caricata sulle spalle della gente onesta: io, i miei colleghi e i miei 11 studenti come l’auto blu del segretario del segretario del sottosegretario. Scuolamagia è una scuola: dentro c’è il futuro di una piccola comunità, di un piccolo pezzo di Italia, con una storia, dei tratti distintivi e una lingua speciale. Ci manca qualcosa, certo. Non abbiamo alunni stranieri, per esempio. Non per questo ci siamo chiusi al mondo. Qualche anno fa abbiamo messo in scena uno spettacolo teatrale in cui si raccontava la tragedia di Portopalo, il naufragio di Natale che avevamo scoperto grazie al coraggio di un grande giornalista.

Domani mattina giuro che faccio l’appello. Anche se non serve. Voglio sentir rispondere “presente”. Proprio lì, dentro quell’aula di montagna: presenti, il Presente. Poi chiuderò il registro e ancora una volta comincerò a raccontare loro il Passato e ad immaginare – insieme a loro – che colore avrà il Futuro.

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Un decilitro di rabbia

Dio quanto li odio. Sì, di un odio anche un po’ facinoroso. Quelli che non si ricordano com’erano le scuole elementari di una volta e il mondo intero di una volta (intendendo per “una volta” mica un secolo, bastano vent’anni fa…). Quelli che anche loro hanno avuto il maestro unico e quindi: che male c’è? Mica sono andati a finire male: dirigono i giornali, parlano alla tv, hanno conquistato uno scranno, loro, e hanno la casa al mare. Ma la cosa che più non sopporto è la loro arma (spuntata) segreta: gli strafalcioni. Sì, perché i bambini di oggi scrivono (e continuano a farlo fino ai concorsi per entrare in magistratura) senza una sana dose di apostrofi, non mettono l’acca quando serve e gli accenti? Non ne parliamo…

Una a caso: Susanna Tamaro intercettata in una rassegna stampa alla radio. Cito a memoria: “I bimbi studiano il surriscaldamento globale ma non sanno più cos’è il decilitro”. Ecco centrato il problema. Ma cosa sto lì a parlare di democrazia e di Obama e di Birmania e di aborto (capita, è capitato l’altro giorno… perché i cuccioli domandano, e non domandano mai cos’è un decilitro…), di Google e di Socrate, delle dighe sul Narmada e di quote rosa?! Devo parlare dei decametri, ecco cosa devo fare. Come quando ero piccolo e la scuola insegnava tante piccole formulette a memoria, quando tutto era una filastrocca, diadainconsupertrafra(sopraesotto), la Dora Baltea viaggiava in coppia con la Dora Riparia e su sto e sta l’accento non ci andava manco morto.

 

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L’arte di cadere

Mauro Corona passa per uno a cui sta a cuore la vita della gente di montagna. Però è anche uno che sta in canottiera dove gli altri indossano il maglione. Così dichiara bel bello alle Invasioni barbariche di Daria Bignardi che a lui il decreto Gelmini pronto a chiudere le scuole di Erto va benissimo, l’importante è che lo stato fornisca un efficiente servizio di scuolabus. Metaforicamente togliendosi la canottiera e calando pure le braghe. Probabilmente sarebbe disposto ad occupare le osterie del paesello, purché non le chiudano, ma la scuola non vale proprio la pena.

Su “Repubblica” di oggi, invece, Paolo Rumiz racconta la storia dei bimbi di Prato Carnico e della Val Pesarina. Terra di anarchici e orologi, un luogo dove i bambini “li distingui da come sanno cadere. Questi rotolano, vanno giù morbidi anche sul cemento. Quelli di città sono pieni di lividi perché non mettono nemmeno le mani avanti, usano le dita soltanto per i videogiochi…”. Parole di maestra, “unica” nel vero senso della parola.

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Proteggersi dai ricordi

C’è una canzone (è già la terza in tre giorni) di De Andrè. Non serve nemmeno ascoltarla, è dentro l’intervista di Gian Luca Favetto a Dori Ghezzi sul “Venerdì”. Si erano appena conosciuti, lei e Fabrizio, e durante una sessione di prove del cantautore genovese quelle parole – col senno di poi – contenevano sicuramente una dedica speciale. Quando la donna interrompe il racconto sulla soglia della commozione, Favetto scatta la sua foto:

«Porta le mani alla bocca, mordicchia un’unghia, si protegge dal ricordo con le mani conserte sul petto».

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Ho visto anche

C’è una canzone che non invecchia mai. Ogni volta che l’ascolto ci trovo dentro tutto quello che succede. Tutto quello che serve. È accaduto anche oggi. Tornavo da scuola e alla radio ne ho sentito la nuova versione proposta da Luca Carboni. Pensate alle “classi ponte” della Gelmini e poi pensate a “quella vita che gli altri ci respingono indietro, come un insulto come un ragno nella stanza”. Per dirne una (…e per educarne cento). C’è una canzone che non invecchia mai. Cresce attorno ad un giro di chitarra meravigliosamente semplice. Vorrei avere la forza di mettermi lì a cantarla, sarebbe la miliardesima volta, ma il giorno si sta spegnendo e io con lui.

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Habemus Leggicotterum

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È decollato a ricreazione, dopo giorni di lavoro febbrile (nel senso che io ho avuto la febbre, ma i cuccioli stavano e stanno benissimo…). Chissà se saprà riempirsi di libri, di parole consigliate, di parole regalate, di sollecitazioni alla bellezza. È decollato e si sono levati al cielo calici di cocacola. Gli strati di colla vinilica e i colori a tempera ne hanno aumentato notevolmente il peso, lo spago che lo regge non è proprio nuovissimo, speriamo bene…

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Nella mente di Dio

«Certo che sono proprio dei disastri, provo vergogna per averli creati. Uno sceglie le parole quelle più semplici: A-MA-TE-VI. Si può essere più chiari di così? Tenetevi stretti, accuditevi l’un l’altro… Niente da fare. C’è quel padre meraviglioso che sembra fatto a mia immagine e somiglianza, con quella faccia che contiene tutto il dolore del mondo, una faccia che è un romanzo russo. Aiutatelo, no, un padre così… e aiutate sua figlia, rispettatela, amatela, amate la sua libertà. Non chiedo mica a nessuno di andare lì a guardarla negli occhi, Eluana, sarebbe troppo, non sono all’altezza. Ma legiferare, cazzo, quello dovrebbero essere il grado… è una cosa così semplice, così “umana”, così poco divina…

Così tocca ancora una volta a me, e dire che pensavo di averli svezzati da un pezzo. Io non sopporto che quel padre stasera debba portare tutti i suoi pianti da Fazio, prima di quel dio comico di Antonio Albanese. Non voglio vederlo un’altra volta ripetere quelle parole che dovrebbero aver già capito e condiviso tutti. Sono degli idioti. E delle merde. Sì, lo affermo anche se li ho fatti io. Lo ammetto: ho fatto delle merde. E adesso si stupiranno dell’improvvisa infezione, dell’inaspettato aggravarsi. E speriamo che vada tutto bene, che per me è ancora più difficile, e mi trema sempre maledettamente la mano…»

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Non c’è più il multitasking di una volta…

Il signor Giacomo è un pimpante pensionato – carnico di nascita, emiliano romagnolo d’adozione e d’accento. Visito coi cuccioli la sua creatura, uno stanzone pieno di cimeli della grande guerra raccolti in anni di esplorazione sul fronte italiano, facendo la posta a mille mercati delle pulci e rastrellando impolverate cantine di inconsapevoli custodi di memorie. Un tipo, così, il signor Giacomo. Uno che chiede ai ragazzi, mostrando loro una specie di tappo arrugginito: “sapete cos’è questo?” Salvo confessare di non sapere nemmeno lui di cosa si tratti: “ma prima o poi lo scoprirò!”. Uno che risponde, a chi mette preventivamente in guardia dall’idiosincrasia del prof di Scuolamagia per le armi e soprattutto per l’enfasi retorica attorno agli eroismi bellici: “il prof doveva ancora nascere e io ero in piazza da un pezzo contro la guerra in Vietnam…”. Uno lucido, uno al passo, uno che sa benissimo come si possa allestire il museo più interessante del mondo… “ma se non ci metti vicino un sito internet…”.

I cuccioli lo ascoltano curiosi, stringono tra le mani gavette, ramponi e brandelli di matite copiative che hanno vergato – forse, chissà – lettere dal fronte.

Io rimango incantato davanti ad una fotografia ingiallita. Penso alle pagine dei quotidiani che mi raccontano l’evoluzione umana che ci sta conducendo, soprattutto le donne, verso il multitasking. La donna del futuro, buona allieva del suo personal computer, saprà compiere simultaneamente 4, 5, 6, 7 azioni.

Nella foto, una portatrice carnica – correva l’anno 1916 – risale un sentiero innevato di montagna con la gerla carica di vettovaglie e di pesantissime munizioni. Impossibile che non stia pensando al crepaccio che costeggia di buon passo, impossibile non l’angosci il pericolo di incrociare il fuoco di un cecchino. Eppure: con i ferri tra le mani sta facendo la calza.

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La piccola grande differenza

Viva Obama e siamo tutti d’accordo. Obama la novità, certo. Obama sulle magliette, sicuro, anche quelle colle maniche lunghe. Però c’è un però. Un “però” che conosciamo tutti anche se forse a volte ce ne dimentichiamo. Ed è chiaro che non siamo così zucconi da aver bisogno di Zucconi che ci spieghi il why, il because e il background. Nell’ultimo faccia a faccia con l’avversario, il buon Barack ha criticato sì con nettezza e senza ambiguità la decisione di invadere l’Iraq, ma ha anche ricordato agli elettori come la vera priorità degli Usa sia quella di UCCIDERE Bin Laden. Pazienza Berlusconi – che non farebbe mai la guerra perché preferisce far l’amore – ma né Fini, né Sarkozy, né David Cameron (che mai stamperemmo sulle nostre magliette) avrebbero detto UCCIDERE, avrebbero detto “catturare e processare”, “assicurare alla giustizia”, al massimo “rinchiudere buttando via la chiave”. E allora viva Obama, Obama for President, Obama tutta la vita, Obama però.

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Tenerezza calduccia di bambino (Seconda lezione su Antonia Pozzi)

Nel 1929 Antonia Pozzi aveva 17 anni e una fantasia infinita. Giocava le parole, e ne faceva poesia come a quell’età si può saltare con la corda. Una notte ha immaginato di veder (di ascoltar) passare l’autunno, ne è nato un testo – il titolo è Fantasia settembrina – psichedelico prima della psichedelia. Parlano da soli, i versi, e non è nemmeno così importante rintracciare particolari trame di senso. Ci sono poesie da piluccare: parole acino, versi granello. Io comincio da manciatelle di ruggine e da tenerezza calduccia di bambino

 

 

Questa notte è passato l’autunno:

l’accompagnava un’orchestrina arguta

di pioggia e folatelle e gli gemeva

una ballata, carezzosamente.

Tutto il corteo ha danzato sopra i tegoli

e zampettato dentro la grondaia

fin dopo il tocco; poi la brigatella

si è incamminata verso la montagna,

col suo fulvo signore. E tutta notte

hanno gozzovigliato in mezzo ai boschi,

i gaietti compari. In lunghe file,

hanno scalato i dossi più audaci,

hanno riddato come pazzi in vetta

ai roccioni più aspri. Verso l’alba,

si son scagliati in basso a precipizio,

scivolando sul capo dei castani,

investendo a rovina le betulle,

lacerando tra i ciuffi di robinie

le tuniche dorate, abbandonando

i drappeggi di nebbia in mezzo ai rovi.

Stamane, di buon’ora, quando il sole

ha profilato d’oro le montagne,

si sono dileguati. Ma sul dorso

d’ogni boscaglia, son rimaste tracce

del festino notturno: guizzi gialli,

guizzi rossastri, appesi ad ogni ramo

come stelle filanti; manciatelle

di ruggine nel folto del fogliame,

come pugni sfacciati di coriandoli;

tazzettine di colchici, smarrite

dalle fate nei prati, per la fretta;

e in noi, l’eco affiochita delle nenie

frusciate dalla pioggia, nella notte;

in noi una bontà dimenticata

– tenerezza calduccia di bambino –

in noi un abbandono senza nome

– desiderio di brace e di carezze –

 

Antonia Pozzi, 30 settembre 1929

[per chi avesse perso la prima lezione]

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Avercela

La ragazzina è minuscola e si muove ancora per la scuola come un gattino spaesato. Scoprendo ogni giorno qualcosa di nuovo, e qualcosa di nuovo di sé facendo ogni giorno scoprire. Oggi è stata la volta di una vocetta intonata e grintosa, attorno al divano e al suono della chitarra a ricreazione. Il trillo della campanella che rimanda in classe è esorcizzato dai ragazzi – orfani del pallone: piove – col canto. E così come in cortile “l’ultima azione” intimata dal prof. può durare 10 minuti di ottimo fraseggio, anche il momento musicale si dilata a dismisura tra uno che dice “un’altra!” e un’altra che dice “ancora una!”. Canzoni. L’ultima è di Elisa ed è proprio a quel punto che Minuscola si ritaglia i suoi tre minuti di celebrità, regalando al suo insegnante (e onorato chitarrista) una riflessione sulla fruizione musicale nel mondo contemporaneo. La piccola intona che non saprebbe cosa dare perché lui fosse felice, mentre si piangono lacrime di aria invisibili che solamente gli angeli sembra sappiano portar via. Alla fine, al momento dei complimenti (“Bravissima, ma com’è che la conosci così bene?”), la voce è ancora più sicura nel rendere pubblica la sua concretissima verità: “PERCHÉ IO A CASA CE L’HO!” Capito? Lei ce l’ha, ed è chiaro che parla di una cosa concreta, qualcosa che è tuo, qualcosa che riponi, che presti, che regali e che perdi. Qualcosa che tieni in mano. Non è, come accade sempre più spesso, un file senza sostanza che si sposta dal Mulo al desktop, dalla cartella alla chiavetta Usb. È la Musica, che gira intorno ma alla quale, soprattutto, puoi girare intorno tu.

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