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Mucche alla riscossa

C’è un qualunquismo ingenuo e quotidiano da cui nessuno può dichiararsi immune. Alzi la mano chi non abbia almeno una volta nella vita voluto cancellare una Comunità Montana, preferibilmente una di quelle a 39 metri d’altitudine sul livello del – e a due passi dal – mare.

Finisce poi che si perda il senso delle parole, però. Perché “comunità” è un termine stupendo, e “montana” è un aggettivo prezioso.

Sarebbe piaciuta un sacco ad Alex Langer, la storia raccontata oggi su “Repubblica” da Carlo Petrini.

Protagoniste sono 3 comunità montane, due in Italia e una in Bosnia. Le due italiane offrono in regalo rispettivamente un uomo di gran cuore e 48 vacche. Quella bosniaca riceve commossa gli animali e l’uomo, Gianni Rigoni Stern, figlio di Mario. Accogliendo quest’ultimo come un indispensabile “libretto delle istruzioni”. Perché a Sucéska, comunità montana della Bosnia Erzegovina, dal 1995 gli uomini che accudivano il bestiame e guidavano l’agricoltura non ci sono più, spazzati via dal più grande crimine commesso in Europa dalla fine della Seconda Guerra Mondiale. Gli anziani, le donne e i bambini che sono rimasti a vivere in quella terra di per sé difficile avevano bisogno di ricominciare, di ripartire. E da soli facevano fatica.

L’idea di aiutarli, e di farlo anche così, è venuta ad un’attrice di teatro, Roberta Biagiarelli, che da tutta questa storia ha tratto anche un film. Che io voglio assolutamente vedere e adesso metto a soqquadro Google finchè non scopro come procurarmelo.

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La chiave di Sara ma anche la vasca di R.

R. è risoluta di natura. Giovedì mattina, venuta a conoscenza dei miei programmi per la Giornata della Memoria, mi ha raccontato a brutto muso un passato, negli anni della scuola primaria, fatto di filmoni pieni di immagini agghiaccianti che le sono stati sbattuti in faccia così, a tradimento, in una mattina di gennaio che per lei era soltanto una delle tante. Non si fa così, pensa R., perché c’è chi ce la fa, a sopportare la vista di quei corpi ammucchiati come stracci, e chi non ce la fa, come lei, che poi deve vedersela con certi incubi che neanche me li immagino. Perché io, continua R., non verso la lacrimuccia perché mi commuovo… Io riempio la vasca da bagno. E quasi comincia, R, a piangere. Ed è solo giovedì 26, e io non ho mostrato proprio nulla. Non ho nemmeno ancora detto nulla.

Io NON SONO D’ACCORDO con quanto scrive Carla Melazzini nel suo interessantissimo Insegnare al principe di Danimarca. No, non del tutto. Però alcune sue considerazioni mettono il dito nella piaga di una leggerezza con cui, anno dopo anno, si sono cominciati a celebrare certi riti, e a ripetere certe parole. Come se fossero scontati contenuti e modi, stili e approcci, tanto urgente pare essere l’imperativo morale di (FAR) RICORDARE.

Io NON SONO D’ACCORDO con Carla Melazzini, non del tutto almeno, e oggi ho parlato a R. e le ho mostrato immagini scelte con cura maniacale, ma ancora una volta mi sono trovato davanti ad una giornata che è in tutti i sensi un salto mortale, carpiato e all’indietro. Per atterrare su un filo.

 

La parola magica epidemica di questi tempi è senza dubbio “memoria storica”. La sua frequenza settimanale è impressionante, sulla bocca degli illustri pensatori come dei più umili professori. Suo obiettivo prevalente è di incolpare la gioventù – oltre che di tutto il resto – anche della svolta conservatrice in atto nel paese, in quanto priva della medesima (memoria storica).

Non mi capacito come gente così istruita possa dimenticare a un tratto (a proposito di memoria) ciò che la scienza e l’arte ci hanno insegnato sull’essere umano; e far finta di credere che esso sia non un labirinto ma una tavola di cera su cui basti incidere qualche buona parola, o un paio di capitoli del programma di storia, per esorcizzare il male.

Una risposta adulta tendente a schiacciare il giovane sotto la incontrovertibile verità dei fatti (la memoria storica) non può che ottenere l’effetto contrario: aumentare l’angoscia e la conseguente negazione.

Si aprirebbe qui un discorso sull’uomo, le sue angosce, le sue difese che, per quanto difficile e doloroso, avrebbe un duplice vantaggio: di attribuire ai sentimenti dell’adolescente – invece che una condanna sommaria – la drammatica dignità di un problema umano universale; e di offrire qualche spiraglio per una effettiva “assimilazione della tragedia” che è ben altra cosa da quella operazione intellettualistica, per non dire scolastica, che viene predicata sotto il titolo di “memoria storica”.

Trovo ingiusto caricare gli orrori del mondo sulle spalle fragili di una gioventù che non ha la responsabilità e non è tenuta a pagare i sensi di colpa degli adulti.

Carla Melazzini, Insegnare al principe di Danimarca

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Pozzanghera trasloca. Qui.

(comparso, per l’ultima volta, sulla vecchia gloriosa Pozzanghera)

Lo scotch, quello marrone, passa sopra le scatole di cartone e le sigilla. Sulla parete c’è il segno di un quadro staccato, sul muro quel che resta di un altro tipo di nastro adesivo, quello che sosteneva un poster. Dal soffitto penzola solo una lampadina con il suo filo. Dal pavimento è sparito il tappeto. Come una vecchia casa condannata da un trasloco è la mia Pozzanghera.

Splinder, nobile e antico gestore di blog, il 31 gennaio chiude per sempre i battenti e con lui molte migliaia di diari personali come il mio.

Da qualche giorno i miei post sono tutti consultabili ad un nuovo indirizzo (www.unapozzanghera.it), un (con)dominio più moderno che mi chiede un affitto di 50 euro all’anno. Lo sento ancora freddo ed inospitale, questo mio spazio, mi perdo ancora tra le sue stanze molto più grandi e attrezzate. Lascerò per molti giorni gli scatoloni chiusi, li aprirò un po’ per volta, quasi controvoglia. (Ci si affeziona ad un paio di calzini bucati, figuriamoci al proprio blog.) Riappenderò il vecchio poster con i segni dell’antico scotch. E (ri)comincerò, come ho scritto la mia prima volta sul web, il 31 dicembre 2004.

L’unica gioia al mondo
è cominciare. È bello vivere
perché vivere è cominciare, 
sempre, ad ogni istante.

Cesare Pavese

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Nottetempo

In questo gennaio che porta via gli scrittori, non ho strumenti per ricordare Vincenzo Consolo. Semplice: non ho mai letto un suo libro. Una volta, però, avrò avuto sedici anni, Consolo mi ha insegnato una parola. Mai sentita prima, l’ho fatta mia senza esitazioni. Mi era sembrata raffinata e complessa, una piccola architettura da ammirare sospirando. Forse una volta, in un tema del liceo, l’ho pure giocata come si gioca un jolly, o come si cala un asso. A volte sono stato sul punto di pronunciarla, ma qualche strana forma di pudore mi ha fatto desistere. Una parola, più precisamente un avverbio. 

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Adriano Sofri e le tasche di Tom Sawyer

 

Niente male come prima azione da uomo libero. Interrogare un bambino molto sveglio, che a scuola dice di aver letto Tom Sawyer. Sì, ma cosa c’era nella tasca di Tom Sawyer? Una pallina, un topo morto legato col filo, un pezzo di gomma, una scatola di petardi e una piccola pulce. Risposta esatta: bravo il bambino e bravo Adriano Sofri, autore del quiz. Bocciato io, che quella lettura a suo tempo l’ho affrontata ma senza serbare il ricordo di un particolare decisamente non secondario.
Ho percorso il tragitto del mio ritorno in macchina da scuola facendo un gioco: cosa mi ha insegnato Adriano Sofri? Via, si comincia. Che le balene comunicano da distanze infinite, anche da un oceano all’altro, e che la globalizzazione le disturba. Che bisogna stare dalla parte delle ragazzine che salgono sugli alberi perché non vengano abbattuti. Che il futuro è appeso ai destini delle donne, specie delle donne iraniane. Che Sarajevo era uno specchio e che non si può non amare Israele, anche se si disprezzano le azioni dei suoi governi. Che la faccia di Alex Langer va stampata sulle magliette. Poi la strada è finita, mentre le cose imparate (e quelle capite) no. Sarebbero serviti altri chilometri, tanti chilometri.
Rincasato, poi, ho incontrato il suo nome tra i temi più dibattuti su Twitter. Molti si felicitavano, ma senza troppa fantasia: “Sofri è libero ma in fondo lo è sempre stato”. Suona bene, sicuro, ma a cosa sono servite tutte le sue parole sul carcere e sulla vita dei detenuti? Io mi sarò dimenticato del topo morto e della pallina di Tom Sawyer, ma c’è chi ha problemi di memoria molto più gravi.
Molti, moltissimi, esprimevano riprovazione e odio, e le solite parole d’ordine di una storia infinita. “Sofri è finalmente libero, ma quel commissario è ancora morto”. Come se scontare e non scontare una pena fossero la stessa cosa.
La scelta migliore, ancora una volta, quella dello stesso Sofri. Niente da dichiarare, proprio niente, con tante scuse. È proprio che non c’è, qualcosa da aggiungere. C’è altro da fare. Il mondo è pieno di bambini da interrogare. Chissà cosa nascondono nelle tasche.

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L’allegro demiurgo

Per la legge un insegnante che lascia la sua classe incustodita è passibile di pene severissime e ci mancherebbe anche che non fosse così.

Oggi mi chiedevo, però, se la pesantezza della sanzione possa variare in base all’entità temporale dell’abbandono. Per dire, lasciarli soli 4 ore consecutive, i cuccioli, sarà più grave di lasciarli soli per 45 secondi, no?

Perché è davvero meraviglioso, nel corso dell’ultima ora del pomeriggio, quella più difficile dove affiorano feroci le stanchezze e si assottigliano le soglie di attenzione, quella dedicata per statuto al teatro, affacciarsi nell’aula spogliata di sedie e banchi e intimare serio agli undici corpi ciondolanti sulle piastrelle:

«Quando torno, tra meno di un minuto, dovete aver diviso la stanza in due, usando solo i vostri corpi».

(Tornare e apprezzare un cordone umano stretto stretto, sul lato corto, più affiatato di una nazionale ai mondiali durante l’inno…)

«Quando torno, tra meno di un minuto, sul pavimento al posto di 22 dovranno poggiare soltanto 9 piedi».

(Tornare e contare fino a 9 – missione compiuta – passando tra ragazzine che tengono in braccio ragazzine con una taglia in meno, piccoli atleti a testa in giù, le mani sulle piastrelle e una scarpa da ginnastica appoggiata al muro, adolescenti nella posizione della candela, ecc. ecc.)

«Quando torno, tra meno di un minuto, ognuno di voi dovrà indossare un indumento o un accessorio di qualcun altro».

(Tornare e ridere di scarpe spaiate, felpe enormi su corpi piccoli, piccole felpe calzate a fatica da corpi enormi, gli occhiali di Irene sugli occhi di Rebecca, la kefiah di Martina attorno al collo di Nicole…)

«Quando torno, tra meno di un minuto, voglio poter cercare una città su una cartina dell’Italia».

(Rientrare nell’aula, le cui pareti sono geograficamente libere, e fare l’appello, davanti ad uno stivalone di corpi plasticamente adagiati a terra, dov’è Torino? Risponde Luca. Treviso? Mattia. Palermo. Psst, Psst, Martina, sei tu… e Prof., che mal di schiena, a fare la Sardegna. Già, Marina, ma sembravi quella vera…)

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Cercando Andrea (2)

 

Cercare Andrea, dicevamo. E trovarlo: succede. Umida mattina nella grande città del nord. Strade affollate, cantieri aperti, tram che sferragliano. La via è quella giusta, trovare una galleria d’arte non dovrebbe essere difficile. E invece sì, soprattutto se la galleria è piccolina e se anche il barista a fianco ne ignora l’esistenza. Certo, bisogna avere il coraggio di spingere il cancello arrugginito, guardarsi attorno nel cortile su cui si affacciano i terrazzi, su cui penzolano le braccia dei maglioni a stendere, bisogna avanzare il giusto, girare a sinistra, imboccare il corridoio e distinguere il foglio appeso sulla porta, una tra le tante: ingresso libero. Entrare, respirare il profumo dei libri, tantissimi, stipati in un labirinto di scaffali. Storgo il collo per leggere un dorso a caso: Matisse. Vado dritto, anzi storto, nell’aria una chiacchierata colta e serena, tema: “quanti casini tra gli eredi dei grandi artisti”. Interessante, ma origliare è maleducazione. Sempre storto, dicevamo, poi finalmente Andrea, solamente Andrea. Pochi disegni, niente di maivistoprima ma non fa niente, l’emozione è la stessa. Non è la carta patinata dei libri, i fogli sono quelli che usano i ragazzi delle medie, marchiati “Fabriano” nell’angolo in basso a destra. Mi riempio gli occhi di leoni e corvi, cavalli e vampiri. Butto lì un arrivederci e grazie. Rispondono e riprendono subito a parlare della vedova di Mario Schifano. Fuori, ritrovo il cielo ma non è più grigio. È giallo, arancione, rosso e perfino un po’ viola.   

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La figlioletta

Specificare l’etnia dei protagonisti di vicende individuali è qualcosa di davvero disgustoso. Quello che nel bene o nel male potrebbe capitare a chiunque, dovunque e sempre non ha mai bisogno di specificazioni di quel genere. Se la stampa italiana deve applicare questa schifosa prassi, però, almeno la applichi sempre. Se nei titoli la vittima è stuprata da un algerino, borseggiata da un bosniaco, rapita da un moldavo, picchiata a sangue da un serbo, aggredita da una banda di uruguagi, allora è giusto che oggi si scriva forte, in grassetto, che la bimba uccisa da una pallottola in testa in un quartiere della capitale era CINESE. Nel titolo, intendo, nell’occhiello e nel testo dell’articolo son capaci tutti. Nel titolo quello che ti prende a schiaffi, quello che richiama la tua attenzione, quello che sta in alto. In attesa di scoprire l’identità degli assassini – se saranno stranieri ce lo urleranno fortissimo – pensiamo che quel cadaverino era un nostro piccolo, piccolissimo ospite. 

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Cercando Andrea

In questi giorni ho cercato Andrea. Lo cerco da 20 anni, ormai. E lo trovo, lo trovo sempre. Stavolta ho cominciato a cercarlo in un libro, comperato da una vita ma affrontato finalmente soltanto ora. Una biografia artistica con idee forti e originali. Alcune mi hanno convinto, altre meno. Mi è piaciuto un sacco, invece, un lavoro filologico che mi ero riproposto di fare autonomamente negli anni, accumulando libri, librini e libretti e andando metodicamente a cercare le multiformi firme ai margini – ma anche al centro, ché regole non ce ne sono… – delle varie tavole del mio autore e mito imperituro.

 

Andrea Pazienza

Aneza Pissenza

Andónza Peseta

Andrenza Paziea

Pazienzen

Apazze

APaz

Andrenza

Ardenza

Aderenza

Paz

Apa’Z

Pazience

APA!

A.P.

Paziesa Pretesa

Patona Pazisca

Andrea Placenta

Andrea Pazienta

Presenza

Andreia Paziensa

Peppinella

Assenza Perenza

Andrenza Paziena

Andrea Zanepiza

Andria Pazzia

APAX

Andy Paz

Il luogotenente Pazienza

Andraus

SPAZ!

APAZ

SPAPAZ

AZNEIZAP

Andrea Pazienza Principe del Cazzo

Andrea Pazzienza

Andrea Pazzzienza

Andrea Patonza

Andreà Pazienzà

AP©

IenzaAndreaPaz

Pazzen

Ascoli Piceno

Andrenza Gelosenzia

Andrea fa senza

Andrei Invacanza

Andrea Paperenza

Pazienza Andrea

 

(e sono solo alcuni…)

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