Res cogitans, Soletta, Stream of consciousness

Guarda e impala

 

C’è chi sbrana occasionalmente, quando ad esempio finisce nel vortice di uno scandalo bancario, e c’è chi sbrana per mestiere.

Ieri sono stato sul punto di gettare nella Pozzanghera una delle foto scattate da un fotografo olandese e pubblicate dai giornali online. Mi avevano colpito. Una leonessa coccolava un cucciolo di impala, spuntato all’improvviso nella savana pochi attimi dopo l’uccisione, per zampa leonina, della madre.

Erano l’apoteosi dell’istinto materno, quegli scatti. Erano il granello di sabbia andato ad inceppare i meccanismi severi ed implacabili del mondo naturale e le ciniche leggi che sovrintendono alla sopravvivenza delle specie.

Non ci sono cascato. Tutto troppo bello per essere vero e troppo poco vero per essere bello.

Questa mattina le ho mostrate alla mia amica Magie, quelle foto. Dall’alto dei suoi 15 anni che la portano a trasalire per ogni immagine di animaletto cicciopuccioso, ha sentenziato: “non può essere”.

Aveva ragione.

 

According to Packer (un etologo del Lion Research Center at the University of Minnesota, n.d.r.), the scene depicted in the photos is familiar to anyone who has studied lions, and to anyone who has ever watched their cat catch a mouse. “These are just variations on the theme of cat-and-mouse, where cats capture their prey and play with it until they either get bored and leave it or get hungry and eat it”.  

(L’intervista completa)

 

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Disegnare insieme

Un noto mensile ha chiesto a due disegnatori, diversi ma neppure troppo, di sedersi allo stesso tavolo e di condividere lo stesso foglio bianco. Ne è nata una jam session d’inchiostro nero che mi ha ricordato la bellezza di un gesto che in fondo frequento da sempre e che continuo a praticare nel mio lavoro quotidiano.

Disegnare insieme a qualcun altro.

Ma non ognuno per sé: insieme sullo stesso foglio. Gomito a gomito. Un atto di condivisione profondissima. Riunire due strumenti musicali non regala a parer mio lo stesso tipo d’incanto: bellissimo, ma rimane una somma, un unopiùuno. Disegnare sullo stesso foglio è invece un intero. È dare un morso alla stessa mela. Mi piacerebbe riuscire a farlo capire, ai cuccioli che mi chiamano per segnalarmi che la riga che han tracciato è storta, che il cerchio è tutto fuorchè tondo, che “gli occhi proprio non mi vengono”; far loro capire che sedermi al loro posto, o al loro fianco, stringere tra le dita la loro matita mangiucchiata, il loro pennarello da due lire è per me un onore e un’emozione grande, capace di riportarmi con la memoria a tutta la carta che ho riempito di segni con l’aiuto di altre mani.

Sarà per quello che poi la riga rimane storta, il cerchio rimane sghembo, gli occhi non ne parliamo.

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La fuga di Guia

 

Qualcosa mi dice che nessun brano di Guia Soncini sia stato ancora “antologizzato” nei ponderosi tomi in uso nelle scuole secondarie di primo grado, strizzato tra Calvino e Buzzati, tra Piumini e Omero.

Qualcuno dovrà pur cominciare, no? Almeno a leggerla, almeno in fotocopia,  ‘sta benedetta autrice contemporanea.

Io comincio la prossima settimana.

 

La prima volta che scappai di casa ero in quinta elementare. Su Canale 5 facevano un ciclo di telefilm intitolato I simpamici (i traumi inferti da certi titolisti non sono stati abbastanza indagati): un giorno mandavano Il mio amico Arnold, un giorno L’albero delle mele – cinque baluardi degli anni Ottanta a settimana.

Litigai con mia madre per ragioni che non ricordo (e che probabilmente non ricordavo già due ore dopo), e uscii di casa determinata a non tornarci. Ero sicura della mia scelta senza ritorno almeno quanto mio padre era convinto di non poter vivere senza quel qualcosa di biondo con cui si accoppiava da anni (illudendosi probabilmente da altrettanti anni che lei lo volesse tutto per sé).

La prima tappa della mia grande fuga era casa della mia migliore amica. Non ricordo se il piano prevedesse di fermarsi lì o poi fare il giro del mondo: non sono mai stata una bambina avventurosa e l’amica abitava, secondo misurazione fornita oggi da Google Maps, a 140 metri di distanza. Ma non importava, perché il silenzio e l’inconsapevolezza di dove mi trovassi avrebbero gettato i miei nella più cupa angoscia – no?

Dalla mia amica c’era il televisore rotto. Era l’ora di pranzo. Chiamai mia madre e feci l’annuncio con tutta la pomposità richiesta dalle circostanze: «Sono scappata di casa. Torno alle cinque per i Simpamici».

Guia Soncini, I mariti delle altre, Rizzoli

 

 

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Il capitolo che non c’è

Oh, boy! Che gran bel libro. So che avrei dovuto già averlo letto, mi par di aver capito sia una specie di classico. E io niente, l’avrò preso in mano cinquanta volte, riponendolo regolarmente sullo scaffale. La copertina, va detto, non viene propriamente incontro ad abbracciarti.

C’è voluta una citazione di Lella Costa nel suo saggetto delizioso sull’ironia, a convincermi di avere un conto in sospeso con quel leccalecca.

Il capitolo migliore, senza dubbio, è il tredicesimo. Non sono scaramantico e invito le gatte nere ad attraversare la strada prima del mio passaggio perché sono galante, tuttavia ho trovato di una dolcezza unica il cap. 13, mentre la vita di uno dei protagonisti è appesa ad un filo e quella degli altri non va proprio a gonfie vele.

 

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…ed è l’odore dei Limonov

E alla fine nella Pozzanghera è finito anche Limonov, il libro alla moda, il libro che spacca, il libro politicamente scorretto. Letto d’un fiato, e ora il fiato sa di limone, anche se quel “nome d’arte” in russo ha poco a che fare con gli agrumi e più con le armi. Granata, non granita.

Una lettura da cui credo di aver imparato un sacco di cose utili per capire certi snodi del presente e per immergermi in fatti più o meno remoti del secolo scorso. Ma il fascino di Limonov quello no, quello non l’ho captato, respirato, subodorato. Non avrò nulla di eroico e dannunziano, prevarrà in me un fondo di banalità e di buonismo, ma quando leggendo e sottolineando non pensavo che il protagonista fosse un fascista era perché stavo pensando che fosse un idiota, e quando non pensavo che fosse un idiota era perché riflettevo sul fatto che fosse disumano, e quando non pensavo che fosse disumano era perché lo consideravo maschilista, e quando non pensavo che fosse maschilista era perché pensavo che fosse – più semplicemente – una merda.

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La voglia di Wadjda

Ne sono convinto: si finisce di essere bambini quando si smette di volere, o quando si vuole a metà, o quando si vuole soltanto quello che vogliono altri.

Wadjda, dodicenne saudita, è viva e libera perché vuole, vuole tutto. Ha voluto le sue All Star che rompono la monotonia di quella sorta di tunica che è costretta a mettere a scuola. Quando la sgrideranno intimandole di indossare delle calzature nere come le altre ragazze, colorerà le sue scarpe da ginnastica col pennarello indelebile. E sarà fatta la sua volontà. Wadjda vuole essere amica di un maschio, e con lui vuole fare giochi da maschio. Quando il bambino si ripromette di sposarla, da grande, lei decide che vuole canzonarlo con uno sguardo e così fa. Wadjda vuole lo smalto blu elettrico sulle dita dei piedi e vuole partecipare a una “gara di Corano”. Vuole restare nel punto esatto dove non può restare soltanto perché sono arrivati degli uomini che potrebbero guardarla. Vuole essere guardata, Wadjda, e vuole ridere quando le fanno sapere che una donna con le mestruazioni non può sfogliare il libro sacro se non usa un fazzoletto per proteggerlo. Vuole che il suo nome sia scritto nell’albero genealogico del padre, rigorosamente declinato al maschile. Vuole e aggiorna quell’elenco di maschi con un foglietto e una forcina per capelli. Il genitore non vorrà e deciderà di estirpare il nome della figlia, ma quella sarà una volontà spuria da adulto, decisa da altri chissà dove e chissà quando.

Wadjda vuole soprattutto una bicicletta verde, e attorno a questo desiderio proibito ruota forse il più bel film che ho visto nel 2012, pochi istanti prima che il 2012 sgocciolasse via.   

 

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Soltanto una mela

Quando un autore decide di divulgare un tema complesso (la Costituzione, il razzismo, la Mafia, la Shoah…) tra i ragazzi, raramente riesce a fare centro. Nascono quei libri, a volte piccini piccini, che fin dalla copertina dichiarano il proprio intento: “XXX spiegata/o ai ragazzi”. Le parole, tuttavia, capita che non siano quelle giuste. Non ci si improvvisa interlocutori di quel pubblico così ostico e ritarare una lingua su di esso è una missione impossibile. Specie per autori che con tutta evidenza non hanno manco il tempo di provarci a sufficienza.

Il libro che sto leggendo è in fondo un caso particolare che un pochino sfugge a questa regola.

L’ha scritto il giornalista Giovanni Bianconi ed è una cavalcata impetuosa dentro gli anni di piombo. Senza ragazzi, va da sé, nonostante i propositi di copertina. In primo luogo perché trattasi di un tomo di 400 pagine. Senza ragazzi, poi, per com’è scritto. I capitoli si aprono con immagini nitide, quasi tattili, le storie sono quelle dei figli adolescenti delle vittime, ottima idea nell’ottica di favorire l’identificazione dei lettori con quegli sfortunati protagonisti. Dopo la prima facciata, però, un ragazzo sbatte insesorabilmente contro le “convergenze parallele” e il “centralismo democratico”, contro “governi monocolore”, “esecutivi balneari” e “matrici neofasciste”. E non ce la può fare. A patto che per “ragazzo” si voglia intendere un ragazzo qualsiasi e non un “prescelto”, il prodotto di qualche élite.

Detto questo, ripeto: il libro è un affresco vivissimo di quei tempi agitati. Un ripasso indispensabile per chi – già grande – voglia rafforzare la sua memoria e sentirsi, come me in queste ore natalizie, un “ragazzo” affamato di storie e di Storia.

 

«Forse se n’era reso conto anche uno degli assassini, che dopo l’omicidio aveva afferrato il borsello del maresciallo convinto di rubare una pistola che sarebbe tornata utile alla causa. Ma quando l’aprì, scoprì che il poliziotto aveva portato con sè soltanto una mela».

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Costruire ponti che non toccano l’altra sponda

Forse li sorprendeva il fatto che @Pontifex fosse arrivato su Twitter, nuovomondo, prima di loro. Fatto sta che dopo avermi sentito declamare il primo tweet papale, mentre diligentemente ricopiavano il compito d’italiano oggi alla quinta ora, mi sono sembrati un po’ delusi. Tutto qui? Certo, erano abituati ai cinguettii di @BarackObama e di @MichelleObama, i miei ragazzi, e forse con un principiante bisognerebbe essere più indulgenti.

Rincasando, qualche ora dopo, rimuginavo su quella schermata giallina, su quell’utente così “autorevole”, sulle ambizioni di quel progetto comunicativo, cercando di mettere a fuoco il conto che non tornava. Che è in fondo sempre lo stesso. Centinaia di migliaia di persone che ti seguono (followers, per gli iniziati…), e presto saranno milioni, nessuna da seguire. Anzi, 7: se stesso twittante in altri 6 idiomi del globo terracqueo. Il trionfo dell’autoreferenzialtà, e l’assurdo di un account ex cathedra, col dogma dell’infallibilità. Forse è solo questione di tempo e di acclimatamento, ma perché non seguire… che so… @CardRavasi, @fam_cristiana, @AndreaDisint@DalaiLama (uno che a dirla tutta non segue neanche se stesso nelle altre lingue…), solo per citarne 4?

Come diceva Alex Langer, autentico “costruttore di ponti”, è bello e importante amare le bandiere, ma a patto di cominciare da quelle degli altri. Sono convinto possa valere anche per i tweet, che provano ad essere dei cip cip. Potenzialmente qualcosa di molto più ambizioso dei soliti beeh beeh.

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Il calendario laico di Caterpillar

 

Quando mi capita di rincasare a quell’ora, parlo delle 19:00 o giù di lì, di solito mi ricompongo, rettifico la posizione del guidatore che non ne può più di guidare e mi dispongo all’ascolto di una pagina di radiofonia che fa onore al servizio pubblico.

Vado matto per il CALENDARIO LAICO di Caterpillar. Trovo quel rovistare nel grande sacco delle storie per proporre ogni sera agli ascoltatori il “santino” di un personaggio meritevole di stima e memoria, la “resurrezione” di un popolo, l’ “annunciazione” di un oggetto quotidiano che ci ha cambiato per sempre la vita, di un’opera d’arte divenuta immortale (per dire, scrivo mentre mi raccontano la prima de La Corazzata Potëmkin…), di un’idea, di un diritto, …semplicemente encomiabile.

Prima di tutto perché il progetto immagino contraddica tutti i dogmi della radio commerciale e di successo: profuma di scrittura, di buona scrittura, esige concentrazione, propina fatti spesso inattuali, ha un profilo etico altissimo.

Secondo perché è tutta la squadra del programma ad occuparsene, a turno, senza le gerarchie che sarebbe lecito aspettarsi. Un giorno ci pensa il celeberrimo conduttore, il giorno dopo la conduttrice emergente, quello dopo ancora il webmaster di cui nessuno conosce la voce.

A volte, terminato il breve frammento radiofonico, ho pensato che dovrebbero essere così, le mie lezioni di storia. Una al giorno, ogni giorno un uomo o un fatto umano da santificare. Addio Prima Guerra Mondiale, non servi a niente. Addio cronologia rigorosa degli eventi.

Da anni Caterpillar persegue un umanesimo laborioso e sincero, un umanesimo della porta accanto, ironico e fondamentalmente ottimista. Ci sarà un motivo se in passato ho spesso fermato la macchina a qualche chilometro da casa per non arrivare troppo presto e dover scendere prima che la trasmissione fosse giunta alla fine.

Ecco un esempio scritto e due orali. 

Domani è il 14 novembre
di Massimo Cirri

Il 14 novembre 1889, alle 9.40 del mattino, a New York, una ragazza si imbarca su un battello a vapore. Ha 25 anni e porta con sé il vestito che indossa, un cappotto robusto, una piccola borsa con molti ricambi di biancheria intima e gli articoli da toellette. In un sacchettino legato al collo ha un po’ di dollari, 200 sterline e anche dei lingottini d’oro.

Si fa chiamare Nellie Bly e parte per fare il giro del mondo. E deve farlo il più velocemente possibile, deve battere Jules Verne ed il Giro del mondo in 80 giorni.

Nellie è una giornalista. Ha cominciato a scrivere quando legge un articolo sessista su un giornale e allora butta giù una lettera molto precisa ed incacchiata all’editore. Che la assume. Così scrive numerosi articoli investigativi, poi viene relegata alla pagine femminili. Allora si stufa e va a New York e convince ad assumerla in un quotidiano un signore che di nome si chiama Joseph e di cognome Pulitzer. 

Poi Nellie passa una notte davanti allo specchio per imparare a fare le espressioni facciali da “squilibrata”, poi prende una stanza in un pensionato per operaie e quando è il momento di spegnere la luce dice che non vuol dormire, che ha paura degli altri, che gli altri sono matti. La mattina dopo il proprietario dice che la matta è lei e chiama la polizia. La visitano diversi medici, lei dice che non ricorda nulla. Loro confermano che è proprio matta, “un caso senza speranza”. Così finisce internata al Lunatic Asylum al Blackwell Island, un manicomio femminile. E’ quello che vuole per raccontare la brutalità, il cibo schifoso, i topi dappertutto, i calci delle infermiere, i secchi di acqua gelida. Tutto quello che fa diventare chiunque – dopo un po’ – “matto” davvero. Lei viene liberata dal suo giornale – chissà se ha avuto paura che la lasciassero lì per sempre – e scrive il libro che inventa il giornalismo investigativo sotto copertura. Come mettere insieme Sabrina Giannini di Report e Fabrizio Gatti de L’Espresso. Si intitola Dieci giorni in un manicomio.

Invece per fare il giro del mondo di giorni ne impiega settantadue. Più sei ore, undici minuti e quattordici secondi. E’ il record di circumnavigazione della terra. Attraversa l’Inghilterra, la Francia (dove incontra Jules Verne), il Canale di Suez, Ceylon, Singapore, Hong Kong e il Giappone. Passa anche da Brindisi, viaggiando sempre senza essere accompagnata da un uomo. Poi sposa un milionario.

Così domani 14 novembre Caterpillar si ricorda di quelli che si intrufolano nei luoghi chiusi per raccontarne gli orrori e delle donne che viaggiano da sole.

 

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Trento e Trieste all’Italia: ADESSO!

Ora di storia, in aula informatica. Lavoriamo sulla primaguerramondiale, in gergo PGM. Si tratta di fare un po’ il punto, ripassare, consolidare. Da un testo che ho preparato e sparato a tutti sul monitor in corpo 32 ho tolto una serie di parole e concetti chiave: a loro il compito di rintracciarli e inserirli nel posto giusto. Volano rapidi sulle cause del conflitto e sulle alleanze prebelliche, compilando a dovere; procedono lanciati su Sarajevo e sull’escalation militare. Arrivano al paragrafetto sull’Italia spaccata tra neutralisti e interventisti. Bisogna risalire con la memoria a quei tizi fissati con il completamento dell’Unità d’Italia attraverso la riconquista di Trento e della Venezia Giulia. Ma come si chiamavano quelli? Bohhh… Con la “enne”, butta lì qualcuno che forse si confonde coi nazionalisti… No, con la “i”, dice qualcun altro. Da bravo prof. non nego il mio sostegno e mimo l’atto di trapanarmi un molare… Ridono, ma non serve. Allora aiuto di più: “ERANO GLI IRR…, GLI IRR…, GLI IRRE……”

 

E Marimù, raggiante, con le braccia al cielo:

 

“…gli irRENZIANI!*”.

 

* : ovviamente non considero questa uscita della mia alunna uno strafalcione e sono più propenso a considerarla un colpo di genio.

 

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Tina & Tina – Come si coglie una calla

 

I quindicianni ce li ha cuciti addosso come un vestito colorato, né piccolo né grande: sono la sua taglia e svolazzano nel vento. La ragazza esce da scuola con una fame da lupa. Mentre camminiamo verso del McCibo leggo una scritta su un muro; penso che abbia a che fare con il suo tempo e con i ricci matti che le rimbalzano in testa. Armeggio col telefonino, la spingo dolcemente verso quel graffito e eccola illuminarsi: ha visto anche lei la foto. No, meglio: si è vista nella foto. Sa da che parte deve rivolgere lo sguardo, sa di quanti passi devo indietreggiare prima di fare clic.

Qualche ora dopo siamo in un castello. Sulle pareti non ci sono scritte clandestine, ma veri capolavori. Siamo al cospetto di alcune opere della premiata ditta Weston-Modotti: scatti che han cent’anni ma sono freschi come vestito di cui sopra, quello della ragazza. Tina si era vista in quelle foto, e ne vedeva altre oltre il suo corpo, al di là del suo corpo.

Proprio come la ragazza, che uscita dal castello corre a immortalare il tramonto così come si offre allo sguardo da quella collina friulana. Ha visto una foto e l’ha colta come si coglie una calla.  

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Etica Ibrahimovicea

 

In qualità di Professore Ordinario di Etica pallonara e Storia delle rovesciate volanti moderne e contemporanee ci terrei a far notare ai miei studenti e a tutti gli illustri partecipanti a questo simposio che non è l’ultima opera (4-2) dell’Ibrahimovic quella maggiormente meritevole di menzione, bensì la terz’ultima (2-2). Riconosco la grandezza di quell’imperioso librarsi nell’aria, per quanto viziato dall’imperizia del portiere e da una non certo marginale componente di culo, ma indirizzerei piuttosto i vostri evidenziatori verso quel precedente stop di petto e verso quella perentoria volée di destro, ma soprattutto – mi preme sottolinearlo – vi chiederei di soffermarvi su quell’insolito quanto irrituale cruccio, con la palla già nel sacco, nei confronti di un avversario rimasto a terra dolorante dopo aver tentato invano di ostacolare il prodigio tecnico dello svedese. Gesto così poco Ibrahimoviciano e quasi tenero, dimentico della prodezza appena consumata e giustamente sancita dagli applausi scroscianti.  

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Shit learning

 

 

Nel XXI canto dell’Inferno l’Alighieri fa mollare al Diavolo una scorreggia, un peto, una puzza. Alle poetiche classiche ed estetizzanti da sempre si contrappongono i cultori della materialità dei corpi, delle cose, delle cose dei corpi. Il poeta e scrittore Roberto Piumini ha intessuto raffinate storie di dame e cavalieri; il picco del suo successo tra i giovanissimi lettori, tuttavia, si deve forse ad un testo sulla cacca.

Una brava maestra ha realizzato con i suoi cuccioli un piccolo merdosissimo (in senso letterale) capolavoro.

Il clima di una Pozzanghera – con la sua acqua stantìa, ricettacolo di escrementi – gli si addice.

 

 

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Piccola posta, Soletta, Stream of consciousness

Venute al mondo

 

 Penso a dove sono finite, ventiquattrore dopo.

Copie di giornale, allegato al quotidiano del sabato.

Quelle lasciate sui sedili di un Frecciarossa o di uno sgangherato treno locale.

Quelle appoggiate sul termosifone del bagno, a fianco del water, sfogliate fino a pagina 10, ché magari era un falso allarme.

Quelle cestinate all’istante: roba da donne, solo pubblicità, vestiti e creme antirughe.

Quelle lette avidamente, sì, ma soltanto l’oroscopo, in una delle ultime pagine.

Quelle che qualunque fine facciano, sono 50 centesimi caricati sul prezzo già alto del giornale.

Quelle inzuppate di pioggia, abbandonate nel cestino dei rifiuti a quattro passi dall’edicola.

Quelle già stivate nel bidone giallo dei bravi cittadini, carta con carta, insieme ai depliant pubblicitari e al cartone delle merendine.

 

Per tutte le altre, forse c’è ancora una speranza.

Che qualcuno le trovi, le prenda in mano e vada, e corra a pag. 60.

Per leggere storie vere di donne, nella Sarajevo assediata. Storie di vent’anni fa, anche se sembra ieri.

Storie così:

 

In un altro ufficio postale, a Marindvor, in cui la gente entrava solo per trovare riparo, una donnetta anziana parlava a un telefono, parlava e piangeva, si rivolgeva a una figlia, le raccontava delle cose confuse, poi ricominciava a piangere. Durò a lungo, nessuno le badava. Quando finì, si rassettò il soprabito sdrucito e uscì, vidi che il telefono, restato sulla sua mensola, non aveva fili.

 

A raccoglierle – ma tra i propri ricordi: sono storie di prima mano – è stato Adriano Sofri.

Se la vostra copia è rimasta davvero sul sedile del treno, non disperate. Copio il pezzo nei commenti del blog.

Ma la prossima volta state più attenti. 

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Soletta, Stream of consciousness

Aprimi cielo

 

– Andiamo sull’altalena.

Non ne ho voglia… Sì dai andiamo.

– Ti spingo.

Anch’io.

– Allora chi va sull’altalena?

Dai spingiamoci senza altalena.

– Mi hai fatto male! Lo dico a mio fratello più grande.

Più grande di cosa?

– Di tutti.

Più grande di tutti?

– Più grande del mondo.

Del mondo? Ma non c’è niente di più grande del mondo…

– Che ore sono?

Che ore vorresti essere?

– Questo gioco mi ha stufato… andiamo sopra una macchina.

Perché?

– Sotto, mia mamma ha detto che non devo andarci…

Guarda, si baciano!

– Che schifo.

A me piace quando due si baciano…

– A me no, poi mi fanno ridere: sembrano dei pesci con le orecchie…

E poi chiudono gli occhi.

– Dormono per tutto il bacio?

Mi dai una caramella anche a me?

– Te la presto.

A casa la posso mangiare?

– No, domani me la riporti.

 

Alessandro Bergonzoni, da “il Venerdì”…

 

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68/57

 

“…il mio amore per i pennarelli è secondo solo

all’amore che nutro per me stesso.

Pennarello è bello e, se sai usarlo, se lo ami,

sa darti soddisfazioni,

diventa te, diventa tuo istmo,

ne ricordo uno, enorme, bleu

dopo tre anni cominciò ad avere la lingua

secca,

e presi a usarlo per le sfumature ghiaccio delle

mie nuvole, era un buon pennarello, e mi

dispiacque

quando morì, morì per aver perso il tappo…”

 

(Andrea Pazienza)

 

L’impresa è titanica, ma la 3ª di Scuolamagia sa che quando il gioco di fa duro, i duri cominciano a colorare. Si tratta di realizzare un planisfero. Il più grande mai realizzato, a mano, in una scuola media della Repubblica. E se non ci credete speditemi il post di un’altra pazza prof. o di un altro pazzo prof. che commissiona alla sua classe 6300 cm² di terre emerse e oceani da tingere a pennarello.

E qui veniamo all’amore per quegli oggetti, per i quali anch’io da sempre sbando e sbavo.

Non dovete pensare a quei cilindri con la punta grossa, quei sigari cubani di marca scadente (nonostante scomodi un grande pittore, architetto e tracciatore di circonferenze perfette) che vanno per la maggiore nelle scuole. Con quelli si colora in fretta, alla grossa, ma il primo sole basso dell’inverno, come una lancia, trafiggerebbe nazioni e acque, stingendole irrimediabilmente. Pensate a dei pennarelli teutonici, brillanti e slanciati, tenaci e costosi in maniera quasi proibitiva. Pennarelli inquadrati come in un esercito. Rosso chiaro 68/48 a rapporto. “Signorsì signore!”

Per un’ora alla settimana, quindi, eccoci sgobbare in un’operazione che sembra una Vandea didattica, un progetto di retroguardia. Ma come: oggi c’è Google Earth e questi tracciano fiordi norvegesi con le matite e li colorano a crucche tinte??? Nessuna contraddizione, in realtà: c’è un tempo per la vertigine tecnologica di planare col mouse sull’area industriale di Taranto e c’è un tempo per fare il callo sulle dita colorando di verde pisello il Madagascar. Una cosa non esclude l’altra.

Dopo un mese di lavoro, abbiamo imparato a distinguere il carattere di ogni pennarello. Infatti, solo in apparenza quei soldatini sono tutti uguali. Il rosso e l’arancione sono docili, si lasciano stendere con facilità. Il giallo ama il bianco del foglio e girerebbe volentieri al largo dal grigio della matita e da tutti i suoi colleghi. Il verde corre veloce ma non c’è verso, le linee che tracci non s’impastano, continueranno a sembrare astine ravvicinate (l’effetto ad alcuni piace, ad altri meno). Il viola stacca su tutto, è un pennarello arrogante. Il più difficile da dominare, infine, è senza dubbio un azzurro, quello che ha superato il provino per diventare oceano, ruolo ambitissimo. Non c’è verso di farlo star buono: un giorno si comporta come un cagnolino al guinzaglio, il giorno dopo inonderebbe le coste dell’Argentina e se lo guardi bene ti sembra pure più scuro della lezione prima. Capriccioso e anarchico, ma più spesso siamo soliti pensare “stronzo”.   

Si chiama 68/57, e tra un po’ ce lo sogneremo anche di notte. Sogneremo che ci rincorre, che ci dipinge fino a farci diventare dei Puffi.

Dovete capirci: in tutto son 6300 cm², e il 70% della superficie terrestre – si sa, non è una convenzione – si offre alla vista umana con quel colore, e sarà il caso di farsene una ragione…

Ciononostante, “pennarello è bello e, se sai usarlo, se lo ami,

sa darti soddisfazioni…”.

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