Le storie di Scuolamagia, Soletta, Stream of consciousness

La verità di Alice

Le avventure di "Alice in Newland".
 
No. Io non sono una bambina affettuosa.
Non nell’accezione che di solito si dà ai bambini affettuosi.
Se mi chiedi un bacino non te lo darò mai.
Neanche se sei mia madre, mio padre, mia nonna, la mia migliore amica. 
Neanche se sono mesi che non ci vediamo. 
Mai.
 

 

Questo post è stato pubblicato il giorno in cui a scuola cominciavano gli esami. Fuori tempo massimo, quindi, per entrare a far parte dell’Antologia dei miei alunni. Da qualche anno, infatti, ho smesso di affidarmi ad una raccolta ufficiale di testi letterari. Ho detto basta con quel gran calderone messo insieme da un arbitrio che non era il mio, in cui magari i curatori pensavan bene (maleee!!!) di ammazzare i brani con qualche domandina “Invalsi style”, per allenare i ragazzi alla comprensione di ciò che gli adulti desiderano con intransigenza essi comprendano.

Così, l’Antologia nasce giorno per giorno nelle mani degli alunni, attraverso fogli stampati o fotocopiati che si accomodano nelle bustine traparenti di un quaderno ad anelli o in quello che tecnicamente si chiama “portalistino” e viene via a pochi euro in qualsiasi cartoleria. Il numero esiguo di alunni non mi fa nemmeno sentire troppo in colpa per lo scialo – davvero minimo – di fotocopie.

Per rendere più gradevole l’oggetto, ogni tanto ci concediamo un foglio colorato o la stampa di una bella immagine; ognuno poi è libero di inserire disegni e di personalizzare la copertina.

Ma torniamo al post di cui sopra, tratto da un blog di cui ho già scritto e che “a volte ritorna” nell’Antologia di Scuolamagia. Senza che nessuno studente si sia mai lamentato, senza che nessun dodicenne maschio abbia mai sollevato sospetti di cicciopucciosità da ragazzine.

No, ad Alice si sono affezionati tutti, e chi rimane assente il giorno in cui leggiamo un post reclama quando torna la fotocopia mancante. Un gesto che viola e contraddice ogni statuto di vita studentesca. 

Il perché di questo successo?

Credo abbia a che fare con il fatto che quella bimba esiste davvero. E che quelle pagine trasudano verità. Tutta la verità, nient’altro che la verità. E tutto questo – com’è giusto – Alice non lo sa. 

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Un poeta

 

Quando ho sentito nominare Andrea Pazienza per la prima volta, lui era già morto da qualche anno. Non è passato moltissimo tempo, ma abbastanza sì perché ancora non ci fosse internet, e nella mia cittadina non c’erano e non ci sono mai state le fumetterie, e di libri patinati all’epoca manco parlarne. Per dire che tutto è cominciato con un giornalino consumato, saranno state 15 pagine, sfogliato sotto il banco nell’ora di latino. Non era nemmeno proprietà di quell’amico vicino di banco: infatti, non poté neppure prestarmelo. Solo 5 minuti per innamorarmi senza capire, anche se, ma questa convinzione è venuta dopo, non c’era proprio niente da capire.

Non me n’è mai fregato del ’77 bolognese e di quegli anni. Massimo rispetto, ma io “non c’ero”. Io sono arrivato dopo e il mio dovere è soltanto quello di studiarlo, quel tempo saltato in padella. Mi hanno sempre infastidito le interpretazioni sociologiche attorno al mio mito coi pennarelli. Tutti pronti a fargli indossare una maglietta, a farlo entrare in un movimento, in una generazione, in una consorteria storica già ricca di gesta, personaggi e interpreti. C’ero io quella volta e con me c’era anche Andrea Pazienza. Ecco, così non vale. Perché quell’uomo non apparteneva a nessuno. Mentre a lui – è molto diverso – apparteneva tutto. E quindi anche i cortei, le battaglie, le radio libere. Ma esattamente come l’orma di un cane, il ramo spezzato di un albero, tua cugina che certe sere si fa prendere da una feroce nostalgia.

Sostiene Moreno, a cui Andrea mise le stelle sulla faccia, che è prima di tutto di un poeta che stiamo parlando. “Scrivere di Andrea Pazienza e la poesia, significa guardare con diffidenza a quell’e di mezzo”.

Un suo bellissimo ricordo di Paz continua così, e mi permetto di citarlo in questa domenica lontana 25 anni da un altro giorno di giugno.

 

«Alcuni anni fa, mia figlia Cora nel tema “Cosa vorresti da Babbo Natale?”, chiese che gli insetti potessero vivere anche d’inverno. Andrea avrebbe condiviso; non aveva bisogno di “capire” i bambini. Come loro lui viveva fuori da sé. Sapeva benissimo che extra-Io c’è un paese bellissimo. Andando a zonzo per le campagne era là, dove si posava lo sguardo. I bambini e gli animali fanno così.

Andrea Pazienza è stato tutta la sua vita e anche quella di chi incrociava.

Ne incrociò parecchi. Una volta capitò a un istrice che agonizzava in un fosso con zampe anteriori maciullate da una macchina. Andrea fu anche quell’istrice, quella macchina e la frenata.

È dispendioso essere tutto ciò che si incontra ma dentro di sé, lui, doveva ben sentire che, alla fine dei propri giorni, ognuno reca con sé solo ciò che ha donato» 

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Aspettando chi non può tornare

A 24 anni scrivevo la tesi di laurea e in biblioteca stavo quartid’ora a fissare le “Opere di Piero Gobetti”, due metri e mezzo di libri nello scaffale in alto a sinistra. Da qualche tempo sapevo che lui era morto a 25. Di cose sue avevo letto praticamente nulla, ma due metri e mezzo di articoli e saggi cozzavano parecchio duro con le mie 250 pagine in corpo 12, margini generosi, interlinea estrema.

Un piccolo romanzo racconta gli ultimi giorni del mio mito con gli occhialini e il ciuffo ribelle. Da un mese lo leggo e rileggo, aprendo a caso, come si fa – almeno credo – con una bibbia.  

 

«…la lettera di una moglie che non ha raggiunto in tempo Parigi, c’era una foto di lei con il bambino, è la prima, Non lasciarla troppo alla luce, perché non è ancora fissata e svanisce; e sentire di non avere fatto abbastanza per evitare ciò che comunque non è possibile evitare, avere per un minuto, all’improvviso, la sensazione che non sia accaduto niente, che si può aspettare anche chi non può tornare, che si possa fare soltanto questo: aspettare, nelle stanze rimaste vuote, intoccabili, congelate, fino a che piomba in un’ora del pomeriggio tutto insieme il peso dell’assenza – devastante, lugubre, senza speranza – o dentro notti infinite, tormentate e nere come questo inchiostro, fino a che con ogni atomo di noi, a una profondità che ci toglie il respiro, sentiamo l’irrimediabile, e che tutto questo è reale, reale come la vita che continua, mentre di un uomo si è costretti a dire che era, è scomparso – e una parte di noi con lui.»

 

Paolo Di Paolo, Mandami tanta vita, Feltrinelli.

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Aria che cambia aria

Aria è stata una delle mie prime alunne. Son passati dieci anni, ma sembra ieri. Era una ragazzina entusiasta e volitiva… No, fermo subito le parole astratte, sto parlando in “pagellese”, che in questi giorni – purtroppo – scatta di default. Proviamo così: era la prima ballerina nei miei spettacoli, costruiva gigantesche mummie con la carta igienica e la colla vinilica, portava a scuola – e mi convinceva a farceli rimanere! – gattini trovatelli con la tosse. Ecco, così la descrizione è più concreta e va decisamente meglio.

Una volta abbiamo litigato e sul suo quaderno, il giorno dopo, ho trovato al posto del tema domestico una frase: “Lei capisce sempre e solo quello che vuole”. Ripetuta 30 volte, il contrario di quello che una volta facevano fare i maestri e i prof. (“Ho dimenticato il libro a casa. Ho dimenticato il libro a casa, ho dimenti…”). In calce, tuttavia, c’era scritto anche “…però adesso basta litigare, ché domani è un altro giorno”. È fatta così, la ragazza.

Aria, con la sua calligrafia piena ci curve e tornanti, inseriva nei suoi quaderni riflessioni spiazzanti. Come lei stessa ricorda, non tutti i giorni erano ugualmente ispirati e buoni per la scrittura, ma quando capitava che lo fossero dalle righe nascevano pensieri difficili da dimenticare: “riuscirò a raggiungere i 18 anni?”.

Beh, c’è riuscita. E poi si è pure laureata. E poi? E poi – complice quest’Italia che lasciamo perdere… – ha deciso che il suo futuro andava almeno momentaneamente ricercato altrove. Da qualche settimana, infatti, Aria vive ad Ankara, e lavora nell’ambito di un progetto di volontariato. Ovviamente non conosce la lingua turca e i suoi colleghi, a quanto pare, non masticano granché l’inglese. Insomma, ci vuole un bel coraggio. E, di questi tempi, ci vuole anche un bel blog per raccontare tutto a chi è rimasto qui sotto questa mezzaluna senza stelle.

Manco a farlo apposta, appena atterrata sul suolo turco, il paese che la giovane ha scelto per trascorre il prossimo anno della sua vita s’è incendiato come un mucchietto di foglie secche approntate d’autunno da un metodico contadino.

Insomma, Aria ha cambiato aria, nonostante Aria non sia cambiata.

 

(Da oggi il blog Ariaditurchia lo trovate tra i link della Pozzanghera)

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Franca Rame, il (non) ricordo di Marco Travaglio

Gipi il fumettista segnala un articolo apparso oggi. Muovo dal suo efficace sarcasmo, ma sento di dover andare oltre. Non riesco a limitarmi allo scherno e allo schifo, in quella pece ci vedo inzuppati l’Italia e questo tempo malconcio.

Mi spiego. Di Marco Travaglio penso da una vita tutto il male possibile. Ma a volte mi quieto pensando: che diritto ho di criticare, quello apre i faldoni, spulcia le carte, e io certe sere mi addormento leggendo a malapena i titoli e guardando le figure.

Questa volta, però, è diverso. Sul tappeto non ci sono processi e sentenze, giudici e condannati, questa volta si tratta di ricordare Franca Rame dopo averla conosciuta e frequentata. E Travaglio comincia dall’inizio, dal primo incontro – ovviamente subito una baruffa di ore, lei a fare lei, lui a fare lui – con l’attrice a confessare, alla fine, guarda un po’, di aver probabilmente torto.

La frequentazione prosegue, ed ecco la Franca complimentarsi, guarda un po’, per il botto editoriale di un libro di Marco, eccola chiedere a Marco di dipanare un suo dubbio esistenziale, con la vita a squarciarsi davanti ad un bivio. E avanti: la volta che quella grande donna aveva telefonato per fare un in bocca al lupo al nuovo quotidiano fondato, guarda un po’, dal giornalista, offrendo umilmente la sua collaborazione. E quante altre telefonate, sempre lei a lui (“Marcooooooo…”), mai lui a lei, sarà stato forse geloso il grande Dario, di quel giurnalist ch’al vegnìa dal Piemunt, figliocc dal Muntanell, con la maneta tacada sbrendolante tintinante dal tacuino.

Insomma, il giorno in cui è morta Franca Rame, Travaglio scrive un articolo su Marco Travaglio. Dell’attrice si dice che sì, era davvero bella e pure un po’ matta. E stop.

È questo non saper farsi piccoli e scomparire alla bisogna, il grande male. Ci siamo dentro tutti, chi più e chi meno. Siamo incapaci di amare gli altri per quello che sono, senza ridurli a specchi per i nostri io.

Alla radio stamattina un ascoltatore ricordava invece un minuscolo evento teatrale, estemporaneo, tanti ma nemmeno troppi anni fa. C’era anche la Franca, rigorosamente gratis, come si fa con le buone cause. Recitava e si spendeva per quell’opera da nessun soldo. Chi era il suo prossimo? Donne stuprate? Popoli sopraffatti? Lavoratori sfruttati? No, pochi bambini provenienti da famiglie un po’ meno fortunate. Avevano osato privarli della gita scolastica. E Franca non c’aveva visto più.

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On the road… to the school

Un vecchio classico dei giornali online, ormai, è la foto dei bambini che vanno a scuola. Cioè, quelli che “lo fanno strano”: alunni che guadano fiumi dopo che una piena si è portata via il ponte, zainetti sulla teleferica, scale di corda che si inerpicano sulle rocce, canotti e dorsi di elefante. Oggi scopro da “Repubblica” che c’hanno fatto pure un libro, su queste avventure on the road… to the school, e nel suo commento a quegli scatti Marco Lodoli mi ha dato pure l’idea per un tema da assegnare ai miei virgulti.

Innegabile che la questione abbia un suo fascino. Nonostante siano molto meno esotici e avventurosi, mi soffermo spesso sui tragitti casa-scuola di mia competenza. C’è C. che arriva in bici e comincia subito ad esercitarsi nelle sue piccole acrobazie da cortile: impennate e giochi di equilibrio che lui sostiene si debbano definire trick. Ci sono E. e M., fratello e sorella, che camminano a distanza. Non hanno litigato e il loro legame è fortissimo, ma quel viaggio funziona così. Tra i loro pensieri del mattino non c’è fratellanza. C’è O. che non ha strade davanti a sé. A separare casa sua dalla scuola sono un grande prato e una piccola ringhiera da scavalcare. C’è N. che arriva quasi ogni mattina scortata dal suo fedele cagnetto, il quale sembra concederle indulgente il permesso per quelle cinque ore di libera uscita. Ci sono T. e F., anche loro sangue del loro sangue, che arrivano e cercano subito il pallone, c’è R. che cammina piano, sempre pensierosa e mai spensierata, compie tragitti vagamente tortuosi, quasi a voler allungare quelle operazioni di sbarco a scuola. C’è M. che si siede sulla panchina del cortile e sembra avvolta in un guscio. C’è un’atra M. che cammina con le cuffiette: capita che ascolti P!nk o la lezione di geografia in podcast, e io sono felice perché le ho passato entrambe. C’è G., c’è Y. ,c’è L. e ci sono altre tre diverse M.: ognuna di queste iniziali ha la sua strada ed un suo modo di percorrerla verso la prima ora di lezione. Per ultimo ecco lo Scuolabus, ma quello è tutto un altro arrivare, con le sue regole e i suoi stilemi. Materia per una prossima puntata.

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La foto

Finché un giorno a Scuolamagia si catapultò un fotografo. Arrivò di notte, con un’auto astronave che non ostentava ricchezza, no, ma raccontava l’esigenza di raggiungere le cose in fretta e immortalarle, prima che svaniscano. Certe foto non aspettano, sembrava dirti quell’Audi parcheggiata davanti all’albergo. Io il fotografo l’ho incontrato in quella mattina di novembre mentre il campanile non aveva ancora battuto le sette. Un paio d’ore di sonno a quel professionista erano parse sufficienti, e si trattava di trovare il set giusto. Una minuscola scuola di montagna non la puoi mica fotografare all’interno, con il planisfero sulla parete, con la lavagna sullo sfondo. Ci siamo quindi ritrovati nei prati del paese, e io temevo ad ogni passo di aver invaso qualche proprietà privata. Lui, al contrario, era per mestiere incline a pensare che tutto appartenesse per diritto naturale alla sua macchina fotografica. Difficile spiegarlo a certi cani da guardia, però, mi diceva col sorriso sciorinando un’aneddotica da Indiana Jones.

Era entusiasta per la luce di quel giorno che stava nascendo. Una luce rarissima, lo confermavano anche gli specifici strumenti di misurazione, una luce da sfruttare il prima possibile. Poche ore più tardi, alle nove e mezza, per il fotografo sarebbe accaduto qualcosa di simile ad un dito che pigia su un interruttore. Una luce per tutti normale e benvenuta sarebbe stata per lui come un buio paralizzante, e addio foto di copertina. Bisognava fare presto e ingabbiare quel prodigio d’alta montagna.

Taccio i preparativi di quell’unico scatto, con i banchi e gli zaini e la lavagna portati a fatica nel prato indorato dall’autunno, sotto gli occhi dei boschi e delle vette. So di aver pensato che davanti agli alunni immortalati stava andando in scena una lezione unica e bellissima. Un lavoro, una passione, un’arte si mostravano ai loro occhi perfettamente fusi, compenetrati. Ed il livello dei tre ingredienti era altissimo. E quando ci sarebbe ricapitato!

L’uomo che aveva fotografato Capaci dall’alto a poche ore dalla strage ci diceva di sorridere, di guardare a sinistra piuttosto che in basso. Era simpatico, e sembravamo comunque interessargli, vai tu a capire il perché. Pochi anni dopo spezzava il cuore l’infinita fila di bare, a L’Aquila, in un’altra fotografia aerea, sulla prima pagina del “Corriere”, il giorno dopo i funerali. Rendeva davvero inutili le cronache e gli editoriali.

Scrivo oggi queste righe dopo essermi imbattuto casualmente in quest’enormità.

 

Sest

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La gita, il fuoco, la pioggia

Gita. Ci provano da una vita a rottamare la parola sostituendola con termini più pregni e altisonanti. “Visita”, “viaggio”, “d’istruzione”. Quella tien duro: Gita. Due sillabe che non si schiodano, sono piantate negli immaginari come due querce.

Gita. Domani. 5 giorni (!). Ci saranno un ostello ed un lago, un bel po’ di verde e 13 burfaldini da accudire. Chissà se si lasciano portare a correre prima dell’alba.

 

La Pozzanghera rimane aperta, continuate pure a farci ciaff ciaff a piedi nudi, e già che ci sono ci infilo questa perlina del mio “idolo” pop, a cui qualcuno deve aver detto che, se coverava questa canzone, mi sarei irrimediabilmente sciolto. 

 

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Un seme di terra

 

 

E si moriva d’estate in montagna

bella ciao, con un fazzoletto rosso al collo

magari proprio sul più bello

di una vita tutta da desiderare

o tra le lenzuola fresche di una bella mattina

e si moriva d’inverno

nascosti nel fieno di qualche cascina

con una donna mai vista

a fingere d’esser tua madre

o tua moglie

e si moriva d’autunno nei fossi

sorpresi di foglie

come cicale curiose del gelo

e si spariva ragazzi in aprile

d’agosto

fermati e freddati sul posto

o su un vecchio vagone piombato

poi s’è morti di ordigni e di trame

di stragi che adesso chiamiamo di stato

truffandoci la vista

nel linguaggio dolciastro del potere

con cui strisciamo la notizia

della pace armata

e delle bombe intelligenti

che anche oggi, a sorpresa, uccidono qualcuno

e ci chiediamo tutti, teleguidati nei salotti bene di Rai1

che storia sia davvero questa

che non riusciamo più a chiamare nostra

siamo i ribelli della montagna *

l’8 settembre

Ustica

una finestra in questura

da cui si cade e si muore

revisioni, processi

indagini che non portano mai a niente

e tutto il sangue nel sangue

negli occhi stanchi della gente

che ha stretto di lacrime e lavoro

questo suo seme di terra

da cui è nato un paese che ripudia la guerra

 

Maurizio Mattiuzza, Gli alberi di Argan, La vita felice edizioni

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Andrea Satta e la sindrome dell’altricentrismo

Ho avuto il privilegio di conoscere Andrea Satta, e di accompagnarlo a zonzo per il Friuli con il suo prezioso libro di favole. C’è in lui qualcosa che mi ha sorpreso, che mi ha disorientato, che mi ha alla fine entusiasmato. Ed è qualcosa che non ha nulla a che vedere con la sua voce, con la sua penna, con il suo lavoro di pediatra di base. È qualcosa di nascosto, in realtà senza esserlo affatto. Si trattava soltanto di unire i puntini, guardare le cose sotto un’altra luce, cambiare il punto di vista. Andrea Satta ha parlato – in meno di 48 ore di permanenza friulana – per tantissimo tempo. Nulla di strano, ci aveva raggiunti per quello. Che fosse un grande affabulatore, inoltre, non mi ha di certo sorpreso. La sorpresa è venuta da un’evidenza raggiunta soltanto ora: Andrea è un uomo senza IO.

Quel pronome non esiste, nelle frasi che pronuncia. Al centro di tutto ciò che dice ci sono sempre gli altri, tantissimi ALTRI, tutti gli altri del mondo. Raccolto in stazione appena sceso dal treno, tempo un minuto e mi stava parlando di Alfredo Martini, grande vecchio del ciclismo italiano. Percorse due rotonde e la sua voce aveva già abbracciato la storia della sua cara amica Margherita Hack. Ma qui potreste pensare che la testa di legno ami vantarsi per le importanti frequentazioni e conoscenze. Macché, c’è davvero posto per tutti e le sue chiacchiere sono invase di persone semplici, quasi sempre distinguibili per una caratteristica originale, per un talento raro, oppure per un tratto di sofferenza indossato con dignità. Il camionista che trasporta mozzarelle, l’insegnante precaria in attesa che il telefono squilli con l’annuncio di una supplenza. E poi l’esercito delle mamme che lo attendono in ambulatorio: le Cerasela dalla Romania, le Kadidja dal Marocco. E poi altri ancora: Concita la giornalista, Sergio la matita che disegna col cuore e senza gli occhi, i musicisti della sua band, i mille compagni di pedalate, il bambino di Tolmezzo che ha raccolto e stringe nel pugnetto un fiore giallo per la mamma e una margherita per la sorella, mezzora dopo averlo incontrato nella sua scuola. Scarto il cd che mi ha regalato Andrea, che riterrei la naturale dimora per l’io di un musicista, e… niente da fare nemmeno lì: trovo invece righe che mi ricordano quanto sia importante abbracciare sempre Patrizia Moretti, la mamma di Federico Aldrovandi.

Non riesco a coniare un termine che definisca questa condizione che mi appare come il contrario esatto dell’egocentrismo. “Altricentrismo”? “Egoperiferismo”?

Boh, ci rinuncio. Però mi è sembrata, quella condizione, la panacea di tutti i mali del mondo.

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Andrea e Antonio

Ho letto il libro che Andrea Bajani ha dedicato alla memoria di Antonio Tabucchi.

Oggi comanda la matita che sottolinea mentre leggo. A lei la parola, a lei le parole.

 

Il mappamondo svirgolato dei tuoi affetti. (pag. 17)

 

La tua voce saliva su come fumo da un camino,… / … come se non fosse ormai troppo tardi per ogni colpo di tosse già tossito… (pag. 23)

 

Se l’ignoranza fosse un vuoto, mi dicevi, sarebbe facile riempirlo di cose, di cultura, di civiltà. Ma l’ignoranza, caro mio, è un pieno. È un muro, e i muri si possono solo abbattere, oppure scavalcare. (pag. 35)

 

E dentro al telefono la tua voce slabbrata, prossima a sparire. (pag. 39)

 

Era come se mi stessi consegnando le parole, come se mi stessi facendo scivolare attraverso il telefono, dall’altra parte dell’Europa, tutto il vocabolario, per poi dirmi una frase molto semplice Qui dentro c’è tutto quello che ti serve. (pag. 40)

 

Avevo fischiato per chiamarti, in maniera maldestra, troppo forte per quella notte, per qualsiasi notte. (pag. 75)

 

E così eravate rimasti lì, insieme, tuo figlio con in braccio la tua morte appena nata… (pag. 122)

 

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Epitassi

Ogni mattina a scuola cadono denti, sanguinano nasi. Tutto si ferma, in quelle giovani esistenze ferite, l’orizzonte si riavvolge attorno a quei canini dondolanti come fosse un filo interdentale. Il sangue, invece, goccia dal naso all’improvviso, macchia il quaderno, la piastrella, la manica della felpa. A 11, 12 anni manca ancora la perizia necessaria (stringi forte le narici con le dita, piega la testa all’insù), ma manca quasi sempre, soprattutto, un fazzoletto. Gli eroi son sempre giovani e belli, e immortali e figurarsi se portano con sé i fazzoletti per il naso. Non bisogna temere la tenerezza, no. Fa tenerezza il naso di una ragazzina, di un ragazzino. Inteneriscono quelle stille impreviste quanto innocue, annullano le distanze.

Anche il naso di Carolina Kostner ha iniziato a gocciolare come quello di un’adolescente nel corridoio di una scuola. Nel bel mezzo di una finale mondiale, per di più, e senza sporcarla nemmeno troppo, dimostrando come possa nascere grazia anche da una piccola fastidiosa disgrazia.

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Coi più sfrenati voli, con la più austera passione

È domenica mattina e mi prende il panico. Mi compare davanti agli occhi la pagina del giornale con la foto virata seppia. Era nel giornale di martedì, di mercoledì, o di giovedì? Non ricordo. Ricordo soltanto di essermi ripromesso di leggere a sera quell’inedito nelle pagine culturali.

Al panico segue la ricerca spasmodica. Parte dei quotidiani finisce in un cassetto, carta pronta per accendere il fuoco, al mattino presto. Non è lì. Rovisto quindi nel bidone sul terrazzo – sia lodata la differenziata – e trovo la copia di “Repubblica” del 7 marzo. E pagina 43, quella che cerco.

 

Il mio Avatar sui social network aveva una moglie, bellissima.

Ed ecco il suo inedito, un testo scritto dopo 6 anni di vedovanza. Con tante grazie al fascismobuono

 

«Se la vita non mi avesse ridotta a trent’anni così disperatamente vecchia e sola, se nel mio domani ci fosse ancora la possibilità di una speranza o di un sorriso, oggi vorrei fabbricare, per la mia gioia, qualche impossibile sogno. Ho aperto la finestra: il vicolo era pieno d’ombra ma una diritta lama di sole scintillava sui vetri della casa di fronte: fuori dallo stretto intrico delle viuzze nel viale che porta al mare, indovinavo diffusa la calda luce del novembre; forse sulla spiaggia le donne dei pescatori cantavano riaggiustando le reti, certo sciami di bimbi giocando si sorridevano. Ho desiderato uscire, scuotere dalle spalle questo grigio torpore, ancora cercare ansiosamente un brivido nuovo, ancora tendere le mani. Verso che cosa? Queste mie mani che da troppo tempo non hanno carezze, non sanno più stringersi nel gesto sovrano del prendere, non sanno più schiudersi alla soavità del dare. Ho visto nello specchio il mio volto opaco, senza risalto: ho abbassato gli occhi sul vestituccio di cotonina bigia, ho sentito la disadorna povertà del mio corpo: oh, senza imprecare. Ancora una volta ho piegato la fronte.

Poiché non c’era più sole ho richiuso la finestra: mi sono seduta sulla coperta di cotone a scacchetti bianchi e rossi, sul letto gelido e duro. Ho guardato le cose intorno: la catinella di ferro scrostata, le tendine sudicie sui vetri polverosi, il tavolo consunto e roso dai tarli, le sedie impagliate.

Un piccolo ragno si inerpicava lentamente lungo il muro: l’ho lasciato salire e nascondersi in un angolo, sotto la tappezzeria lacera. Senza ribrezzo, senza timore: perché questa è la realtà.

L’ho tanto cercata la mia realtà: coi più sfrenati voli, con la più austera passione. Senza mai appagarmi. E la realtà è questa: vita che non è vita, morte che non è morte. Grigio che dilaga, dilaga, che non ha fine, che resiste, che dura, che sarà ancora oltre il pulsare malato del mio cuore e delle mie vene.

La stanza è quasi buia: e c’è il silenzio intorno. Presto sarà la notte: e torneranno anche gli altri e dovrò alzarmi, sedere al mio posto nella umiliante promiscuità della tavola comune, aprire la bocca, rispondere alle domande, mangiare.

E poi? Non piango: non debbo pensare a nulla. Domani sarà come oggi. E un altro giorno ancora.

Nulla oltre questo, nulla di diverso da questo. Non chiedo perché. Non mi ribello. Mi piego con [……] anche se la ragione mi è ignota. C’è tanta pace in questa disfatta: me ne lascio penetrare, inerte. Accetto il mio destino, con umiltà».

 

Ada Prospero Gobetti

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L’ora buona delle Fate silenzio

 
– Fate piano!
Maestra, esistono davvero?

– Chi?
le Fate piano…

– Secondo voi bambini?
Per me sì: appoggiano le cose adagio, camminano a rallentatore, non hanno mai fretta e se uno va troppo veloce, con la magia lo fermano per un po’, e salvano le persone che potevano morire alla svelta, invece pianino pianino non sbattono contro le cose.

– Io ho conosciuto le Fate silenzio
Cosa fanno?

– Cercano di far star zitti tutti quelli che urlano o non smettono mai di parlare, e alle volte tolgono i rumori della paura.
E voi bambini sapete cosa sono i rumori della paura?
Io lo so: quando nel buio senti qualcosa che dà i brividi, le Fate silenzio ti aiutano e non li senti più, smetti di tremare e torni a dormire.

– Ci sono solo di notte?
No… un giorno durante un terremoto mia sorella ha sentito come un tuono che non finiva mai, sono arrivate le Fate silenzio e tutto è finito subito.
Una volta io ho visto le Fate così.

– E cosa facevano?
Così

– Così come?
Come dicevano loro: se io dovevo scrivere o disegnare, mi aiutavano a fare così, se dovevo mangiare, lo facevo, così loro erano felici anche per me…

– Ma come sono?
Così

– Così come?
Non so…. come della gente che vola quando è felice, e se non vola scende e guarda cosa può fare per far volare anche gli altri che sono a terra

– Bambini cosa vuol dire essere a terra, qualcuno me lo sa dire?
Mio padre aveva una gomma a terra, sgonfia come un pallone.
Mio fratello aveva un pallone sgonfio ma con un calcio lo ha fatto volare.

– A terra vuol dire anche stanco, malato, triste, giù.
Se mia mamma mi aspetta giù io devo essere triste?

– Se lei è giù devi essere giù anche tu!
Io abito in una casa a tre piani e certe volte uno è giù e gli altri sono tutti su, ma tristi…
Io abito a un piano terra e siamo sempre tutti giù: più giù di così moriamo, ci seppelliscono.

– Adesso bambini andate, fate presto.
Le vedo: andiamo con loro, così non saremo mai più in ritardo.

 

Alessandro Bergonzoni, “il Venerdì”…

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Il concerto del passato che parla del futuro

Todo cambia. La realtà sorprende e spiazza. Succedono cose prima d’ora impensabili. Conforta pensare a qualcosa che stia fermo, rimanga lì, perché quando è nato sembrava perfetto così e così perfetto sembra anche oggi. L’ho pensato davanti alle parole di certi pezzi che ha cantato Claudio Lolli, patrono di questo blog, nel suo concerto di venerdì, a Cervignano. Una serata fuori dal tempo, lontana dal presente, uno spettacolo clamorosamente privo di novità, anzi: compiaciuto per il fatto di somigliare più di sempre alla sua vecchia storica versione. Edito e superedito, senza alcun progetto da vendere, senza alcunché da perseguire sulle strade di iTunes. E tutto ciò, tutto questo miracolo, soltanto grazie ad un libro. Quello ingiallito, con la copertina strappata. Quello che il cantautore stringeva tra le mani, lo scrigno di testi da tempo forse dimenticati, o più probabilmente così rispettati da temere qualsiasi scivolone mnemonico.

Da lì si riparte sempre, dalle parole, dalla poesia.

Uscendo da un concerto di 30 anni fa, il primo marzo 2013, mi è fin troppo chiaro che bisogna sempre andare avanti e che “indietro non si torna neanche per prendere la rincorsa”. Canticchiando arie di sax vien da immaginare un futuro di luce: zingari felici che si rincorrono, compagne che volano sulle pozzanghere e che so… un Papa nero, no… meglio… un Papa donna.

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Res cogitans, Soletta, Stream of consciousness, Tutte queste cose passare

La prospettiva di Ivan

Che bisogna guardare il mondo da prospettive sempre nuove, da ottiche diverse, me l’ha insegnato, tra gli altri, Ivan Scalfarotto.

Anche scrivendo parole come queste.

Quindi, mentre dalle stelle – tutte e cinque – piovono cattivi auspici che si espandono – a macchia di giaguaro – sul futuro del paese, cambio prospettiva e gioisco per un nuovo onorevole come ce ne vorrebbero mille.

[eco fuoricampo: vaffanculoooooooo!!!]

Cinquecento, vabbè.

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Le domande di Alex

Giornalisti, blogger e personalità varie si sono dati da fare, nei giorni scorsi, per far arrivare agli italiani le loro più o meno motivate dichiarazioni di voto.

Io prima delle elezioni, di tutte le elezioni, rispolvero un vecchio file ripescato nel computer di Alex Langer dopo la sua tragica fine. Datato 4 marzo 1990, rimane qualcosa di misterioso: avrebbe dovuto evolvere verso qualche sorta di pubblicazione o era destinato ad una riflessione strettamente personale? Non lo sapremo mai.

Intanto, mi piace da impazzire l’idea che ad aiutarmi ancora una volta non siano delle RISPOSTE ma delle DOMANDE.

 

Cosa ci può realmente motivare?

Cambiare il mondo o salvaguardarlo?

Solidarietà come autocompiacimento?

Abbandonare la radicalità?

Etica della rivoluzione?

Navigare a vista?

Esiste da qualche parte una linea di demarcazione tra amici e nemici?

A chi ci si può affidare?

Cosa ti dice il sud del mondo? Solo cattiva coscienza?

Perché cercare la salvezza altrove (perché poi dover andare lontano…)?

Vivresti effettivamente come sostiene si dovrebbe vivere?

Passeresti il tuo tempo con coloro ai quali rivolgi la tua solidarietà?

Professionalità. Potresti vivere anche senza politica? Ti sei davvero domandato cosa ti procura e ti ha procurato?

Altruismo/egoismo?

Quali costanti?

Quali sintesi (p. es. giustizia, pace, salvaguardia del creato)?

Cosa faresti diversamente?

Alex Langer

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Allora come spieghi questa maledetta nostalgia

 

 

C’era una volta una giovane donna che ritagliava sagome umane dalle foglie. Era un’artista, quella donna, e perseguiva il vecchio grande sogno di fare della propria vita un’opera d’arte. Compiendo gesti come mettersi in cammino e raggiungere Gerusalemme in autostop, vestita da sposa. Milano, Venezia, Gorizia, Lubiana, Banja Luka, Sarajevo, Belgrado, Sofia e avanti, mettendo in campo la sua fiducia negli umani come fanno ogni giorno gli autostoppisti e quelli che li raccolgono.

C’era una volta questa giovane donna che fu vittima della sua opera d’arte, di quel gioco di fiducia e speranza infrantosi sullo scoglio di un maschio feroce, violentatore e assassino, in terra turca. Ho un vago ricordo di quelle cronache e di quegli imbarazzi. Certo che… una donna… da sola e vestita da sposa… In quelle lande, poi… Voce del verbo “andarsela a cercare”, coniugato fino quasi a convincermi. D’altra parte non conoscevamo ancora la parola “femminicidio”, non avevamo ancora ascoltato le omelie dei parroci fustigatori di minigonne, e le donne non ballavano tutte assieme la danza che Pippa Bacca eseguiva già benissimo da sola, e correva l’anno 2008.

Il nuovo video di Malika Ayane, reduce da Sanremo, sembra celebrare in maniera discreta, davvero sottovoce, l’ultimo progetto di quella donna che ritagliava uomini dalle foglie e si fidava ciecamente del suo prossimo.

 

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