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I diari della bicicletta

«Prof., guarda lassù, quello è il Monte…»

«No, Marcello, oggi non sono il Prof., oggi sono il Capitano…».

Proprio così, un capitano che non sa la strada, che ignora i dislivelli, le pendenze, la quantità dei tornanti. Non conosce i nomi delle montagne e fatica a distinguere dall’alto i paesi che frequenta abitualmente. Però oggi gira così, in questo giro assurdo di tarda estate, nato per gioco, quasi per caso, da un dialogo via Skype.

Alle nove in punto il mio gregario mi aspetta già in sella ai piedi del Gigante. Dico gregario con grande rispetto, pari almeno all’ironia con cui mi sono definito capitano. Marcello non è uno sportivo in senso stretto, non indossa divise e non porta con sé tessere federali. Corre se c’è da correre, pedala se c’è da pedalare. Calcia per gioco, scia per divertimento. Deve muoversi, glielo impone l’istinto, e lo sa bene chi come me tra pochi giorni tornerà a fargli da carceriere tra le mura di un’aula.

La salita scivola nel bosco morbida e costante. La strada è stretta, il fondo liscio e curato. Il capitano procede composto, sa che va dosata ogni goccia di energia. Il rapporto è agile, la postura di sfinge dipinge traiettorie regolari nemiche di ogni zig zag. Non si alza mai sui pedali e sopporta stoicamente i malesseri del soprassella. Il gregario sale invece brillante e inquieto, tra una mezza impennata e un improvviso cambio di direzione per schivare un grillo. Ha quattordici anni, lo scudiero, e nonostante il parere contrario espresso dal suo superiore, decide di rompere il silenzio dell’ascesa con gli mp3 stivati nel suo cellulare. Mi sembra di bestemmiare quel paesaggio, penso allo sguardo di altri ciclisti puristi incrociati nell’ascesa, ma in fondo anche quelle canzoni han sostenuto questa piccola impresa. Laura Pausini, Ligabue, Il cielo d’Irlanda della Mannoia, i Beatles e una versione a me sconosciuta – e ne conosco tante – dell’Alleluja di Leonard Cohen.

Usciti dal bosco e dalle sue carezze d’ombra, la strada ci ha svelato il suo disegno. Un arabesco di tornanti tatuato sulla schiena verde della montagna. Una roba da sindrome di Stendhal, se non ci fosse il serio rischio di finire stesi dalla fatica. Quindi: testa bassa e pedalare.

Finisce l’asfalto, comincia lo sterrato. All’ansia di non farcela si somma quella di bucare. A scacciare i pensieri neri ci pensa Marcello, insegnandomi nomi di montagne e di versanti, indicandomi falchi e marmotte, lepri e uno stambecco maestoso che ci scruta da un metro sotto il cielo.  «Prof., guarda lassù…». Questa volta, però, a parlare sono io.

La meta di quest’avventura in bicicletta risponde al nome di “Panoramica delle Vette”. Lo sguardo, infatti, riesce ad abbracciare distanze colossali, orizzonti senza limiti. Scendo i sentieri della memoria, fino all’ultima volta davanti ad un’emozione così: in Cina, nel 2006, giocando a rincorrere con gli occhi la Grande Muraglia fin dove andava a perdersi, dentro nebbiose lontananze.

La discesa è insieme una faticaccia e una paura. Solo per me, però: il mio compagno di viaggio, annoiato dalla lentezza che gli ho imposto, battezza traiettorie insensate e appoggia il collo del piede sulla sella, la pianta sul manubrio. Gioca. Lo sgrido, vabbè, ma andiamo davvero piano. Mangiamo fragole di bosco e beviamo altri panorami. Planare sul primo luogo abitato dagli umani, ultima frazione sulla soglia della montagna, è un sapore variegato di gioia e tristezza. Ce l’abbiamo fatta, ma com’è insipido questo asfalto di “pianura”, e come sono già lontane quelle immagini così pure, che a filtrarle con Instagram ti sembra di sottoporre ad un bombardamento nucleare.

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Pronto, Yelena? Ti ricordi di me?

La campionessa russa Yelena Isinbayeva ha almeno in parte smentito le atroci dichiarazioni rilasciate nei giorni scorsi a sostegno della legislazione anti gay varata da Mosca. Mi sono esercitato ad immaginare le ragioni del suo dietrofront.

 

Magari è arrivata una telefonata dallo sponsor, timoroso di perdere una fettona di mercato.

 

Magari ha telefonato proprio Putin, dicendo lascia stare Yelena, non son cose per signore, lascia che me le sbrighi io, certe sporche faccende. Tu pensa a portare sempre più in alto il nome della Russia.

 

Magari ha telefonato Silvio, l’amico personale di Putin: “Consentimi di darti un consiglio, Yelenona, fai come faccio sempre io, smentisci tutto, dichiara di essere stata fraintesa… di’ che è tutto un misander… un misundestunting, com’è che dite, voi giramondo… ah, te l’ho raccontata la barzelletta quella dell’asta?”

 

Magari sono state le meravigliose, tante tantissime cacche (con la tastiera :poop: ) che da ventiquattrore hanno cominciato a depositare sulla pagina pubblica dell’atleta russa centinaia di utenti di Facebook. Uno sconfinato tappetone di merda su cui atterrare dopo un salto tutto storto.

 

Magari tutto è partito proprio da una telefonata. Inaspettata. Pronto, Yelena? Ciao, sono Ekaterina, ti ricordi di me? Sì, al liceo. Quella in ultima fila, con la lunga coda di cavallo. No, non eravamo amiche per la pelle, ma qualche bella risata insieme ce la siamo fatta. Eri così bella, non riuscivo a staccarti gli occhi di dosso. Una volta ti ho anche scritto una lunga lettera, ma il coraggio di fartela leggere non sono proprio riuscita a trovarlo. No, non vivo più a Volgograd; adesso la mia casa è a Stoccolma. Ci vivo con Anna. Ci siamo conosciute a Londra, cinque anni fa, eravamo lì per lavoro… E tu? Dimmi di te… Ma no, dei salti so tutto… dimmi il resto… sei felice?

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Quelli che fermano i carrarmati

C’era un ragazzo che come noi amava la vita e la libertà.

Ce lo ricordiamo tutti.

Ci siamo chiesti tutti cosa contenessero le sue borse di plastica.

Ma è passato tanto tempo, e forse qualcuno nemmeno se lo ricorda più, quel ragazzo. È passato talmente tanto tempo che nemmeno le borse di plastica esistono più.

Egitto, bulldozer contro i sit-in

Questo invece è appena ieri.

Egitto, bulldozer contro i sit-in

Questo è sangue che bisogna ancora lavare, se non verrà coperto da altro sangue.

Immagino che Beppe Grillo abbia a fianco a sé un giovane smanettone, uno che alla bisogna compone i fotomontaggi per il blog più seguito dagli italiani. Ligio ai suoi doveri di attivista, quel ragazzo taglia la testa ad Enrico Letta e la deposita sul corpo di un vampiro, ah ah ah, cose così.

Ieri, Grillo ha commissionato questo.

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Voi che lo votate, un italiano su tre, pensateci a questa perfetta “scelta di tempo” del vostro leader.

Ripetetevi che lui è fatto così, che son fatti così i comici. 

E continuate pure a prepararvi all’autunno.

 

Ah, il ragazzo, quello colle borse e senza Photoshop, si avvicinava al carrarmato fino alle strisce pedonali.

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I numeri del Barcellona (anche lasciando Messi e Neymar in panchina)

Stavo annaspando nella calura agostana. Il mouse era sudaticcio come le news su cui cliccavo. Poi all’improvviso ho guardato l’immagine di un calciatore di spalle. La notizia era quella del suo debutto nella formazione che l’ha acquistato a peso d’oro. A colpirmi, però, è stato il numero sulla maglia. Un undici particolare, strano, vagamente a sghimbescio, somigliante al profilo stilizzato di due montagne, o al muso appuntito di due cavalli. Non ho pensato “bello”, ma mi ha incuriosito come sanno fare tutte le cose un po’ fuori posto, e tutti i frutti del pensiero divergente. Sono quindi finito su Twitter, digitando le parole chiave “numeri” e “Barcellona”, ed ho trovato reazioni di marca italiana estremamente severe: quanto sono brutti, fanno schifo, che roba è? Fino ad un emblematico: li ha disegnati uno spastico?

Fuochino (…e figura di merda).

I numeri li ha disegnati Anna Vives, che non ha lesioni di nessun tipo al cervello ma è una giovane donna con la sindrome di Down. Dopo una prima esperienza lavorativa in un supermercato, ha deciso di dedicarsi con successo al disegno e alla grafica. Probabilmente nelle partite ufficiali (quello di ieri sera era “calcio d’estate…”) la squadra catalana tornerà a sfoggiare i numeri “tradizionali” pensati dalla Nike; tuttavia, l’idea del calciatore Iniesta rimane molto dolce e suggestiva. Come lui, anche altre star dello sport spagnolo, il motociclista Lorenzo e il cestista Gasol, hanno voluto regalare notorietà al lavoro di Anna. Perché di lavoro si tratta.

 

Nel prossimo anno scolastico mi sa che a Scuolamagia scriveremo con Anna.

 

(Il font Anna, comprensivo di numeri e segni di interpunzione, si può scaricare gratuitamente, ma sul sito è possibile effettuare una donazione…) 

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Lettera a Erich Priebke

Gent.mo Erich Priebke (!!??!!??),

 

vede com’è difficile già soltanto cominciarla, questa lettera? Capirà come non avrei mai potuto scrivere “caro,”, ma anche il “gentile” quello delle lettere formali, quello che non si nega a nessuno, quello che si scrive anche quando poi nella missiva si va al sodo di contestazioni critiche e reprimende, ammetterà che suoni strano, davanti alla palese non gentilezza di alcune sue prese di posizione e più in generale della sua condotta da quando nel 1995 è stato estradato in Italia.

La notizia è che lei sta per compiere 100 anni e soprattutto che qualche italiano sembrerebbe intenzionato a festeggiare il suo genetliaco e di farlo spudoratamente in un luogo pubblico. Non è di questo che le voglio parlare, tuttavia. Esistono i mezzi per evitare quello scempio e mi auguro che chi è nelle condizioni di utilizzarli lo faccia prontamente.

Ieri tutti i siti dei giornali hanno pubblicato un video in cui lei sta camminando su un marciapiede romano accompagnato dalla sua badante. Una scena come se ne vedono tante in giro per le città e per i paesi. Abbiamo infatti riscoperto la sua esistenza. Quel 100 tondo tondo ci ha ridestati dal sonno e abbiamo di nuovo incrociato quel suo corpo possente, certo invecchiato, ma ancora in grado di deambulare, seppur sostenuto, in maniera sostanzialmente dignitosa. Mi sono chiesto cosa volessero i nostri occhi da quelle immagini. Che lei incespicasse e sbattesse la faccia sull’asfalto? Che lei provasse vergogna nel veder catturata ed esibita la sua fragilità di vecchio? Pensi che lo showman Fiorello, su Twitter, ha appena associato la sua condizione di centenario alla morte di quel giovane motociclista avvenuta a Mosca pochi giorni fa. Sottinteso: come sono ingiuste le cose del mondo, un venticinquenne innocente ci saluta tanto presto e invece Priebke… Pochi istanti fa, invece, lo scrittore Erri De Luca sullo stesso social media le ha augurato di viverne altri 100, di anni: “possa trascinarsi per un altro secolo il suo nome maledetto…”.

Il suo caso ci interroga sul significato profondo della Giustizia. Lei è stato dichiarato – seppur dopo un iter giudiziario rocambolesco – colpevole per crimini orribili. Una giuria ha fatto i conti con prove certe, con riscontri oggettivi. La sua difesa ha avuto modo di giocare le proprie carte. Il verdetto nel condannarla ha tenuto presente la sua età avanzata, così come prevedono ordinamenti “uguali per tutti”, dal ladruncolo al boia nazista. Un difficile esercizio di ricerca della verità è stato portato a termine. Funziona così, in democrazia. Noi siamo “i buoni” e con i nostri strumenti da “buoni” abbiamo messo sotto la lente un tempo lontano in cui erano prassi le azioni di “cattivi” come lei. “Cattività” da cui, a quel che mi risulta, lei non ha mai preso le distanze.

Nei prossimi giorni si eserciteranno in tanti sul tema del suo compleanno. La immagino impermeabile agli insulti che nel tempo le saranno piovuti addosso in quantità, magari anche nel corso delle sue normalissime passeggiate colla badante. Ci saranno gli editoriali e le battute sagaci. Ci saranno le volgarità e le minacce. Ecco il punto: forse noi “buoni” non dovremmo cadere in questa trappola. Proprio perché non siamo come lei, proprio perché noi gli istinti li dobbiamo frenare, dobbiamo aiutarci vicendevolmente a farlo. Può capitare che qualcuno non si trattenga, è umano, ma ci dev’essere qualcun altro vicino che lo quieta indicandogli battaglie più urgenti su cui concentrare le energie.

C’è un vecchio criminale nazista che non schioda dalla vita e gode invece di ottima salute. Ma è stato condannato. La Giustizia si è pronunciata. La sua infamia è scritta, e può essere raccontata a chi verrà. Dovrebbe essere sufficiente. Perché, altrimenti, rischiamo di diventare al solito paradossali, noi italiani: prendere lei come facile obiettivo – lo sanno tutti cos’è un nazista – e gettare la spugna sul fatto che ormai moltissimi giovani ignorano che gente della sua risma, trent’anni dopo la guerra, faceva saltare le stazioni ferroviarie stracolme di innocenti. C’è talmente tanta Giustizia da fare, in questo paese e in questo mondo, per sprecare la propria rabbia e la propria indignazione su quella che – al netto dell’orrore che rimane e deve rimanere – è già stata fatta. Io la sua faccia, Signor. Priebke, me la ricorderò finché campo, e anche certi suoi infimi sorrisetti, ma la sua pratica mi devo sforzare di metterla in un’altra cartella. Io gioco coi “Buoni”, e i “Buoni” non stappano una bottiglia nemmeno quando muore un “Cattivo”. Se no che “Buoni” sono? Se tra buoni e cattivi non ci sono più differenze, o sono marginali, allora tanto vale che ci si definisca “i verdi” e “i blu”.

Qualche anno fa, l’allora responsabile della comunità ebraica italiana Tullia Zevi ebbe a dire, con riferimento al suo ergastolo: “noi teniamo al principio della imprescrittibilità dei crimini di guerra nazisti, dunque al processo e alla condanna all’ergastolo; non teniamo che il condannato resti in galera e ci muoia”.

Oltre a riportare questa citazione della Zevi, Adriano Sofri ha scritto nel suo Chi è il mio prossimo:

«Un minuto dopo la sentenza, sarei stato sollevato se Priebke fosse stato rimandato a casa sua. Non ha alcuna importanza, ai miei occhi, che uomo sia oggi, quali pensieri esprima o taccia sul suo passato, quali condoglianze o perdoni accetti o rifiuti di pronunciare. Riguarda lui. Forse riguarda i parenti delle vittime, ammesso che diano peso a ciò che lui dice o tace: non so. Per me non ha alcuna importanza. Non importa niente che uomo sia, ma che sia un uomo: un vecchio uomo innocuo e superfluo per chiunque, se non per la propria vecchia donna e per sé.»       

La vecchia donna, sua moglie, è nel frattempo mancata in quel di Bariloche, Argentina. Del suo video a spasso per Roma non mi ha colpito la sua fiera fragilità di vecchio, bensì la dedizione e l’amorevole cura della sua badante. Un’altra donna. Italiana? Ispanica (in fondo lei ha trascorso decenni in Sudamerica…)? Originaria dell’Europa dell’est come capita spesso? Chi lo sa e cosa importa. I malpensanti avranno buon gioco nell’immaginare questa signora avidamente attratta dai beni che le rimangono, e dal fatto di poter “alzare il prezzo” davanti ad un utente così fuori dal comune. A me, invece, piace pensarla come una donna che ha ben chiaro un concetto: un uomo rimane un uomo, molto prima della feccia delle sue idee e delle sue azioni. Una che gioca tra “i Buoni”, insomma, quelli di cui ho voluto parlarle in questa lettera. Me la saluti.

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Ugo Riccarelli: nei suoi libri l’amore si faceva così

 

Allo stesso modo, quando fu nell’oscurità della stanza di Cafiero, stesa accanto a lui, le piacque perdersi nei suoi abbracci, lasciare che lui imparasse a conoscerla come un viaggiatore un Paese sconosciuto, così come per tanto tempo aveva immaginato che avrebbe fatto Sole alla ricerca di Oriente.

E a sua volta si fece vincere dalla curiosità di esplorare il continente che le stava accanto, e allora si stupì che sua madre avesse sempre raccontato l’amore tra un uomo e una donna come il tramestare d’animali che, quasi per conferma, l’Ulisse aveva poi esercitato nei confronti della Mena. E invece, mentre Cafiero per la prima volta entrava in lei, l’Annina gli si strinse contro e le parve di essere lei a possederlo, di essere un cielo così vasto da riuscire a tenere quella nuvola di carne tutta dentro il suo piccolo abbraccio, di portarselo dentro a conoscere luoghi che non avrebbe mai immaginato, e fuori di sé, di corsa e lentamente, in una camminata senza fine.

E il cielo sognò, più tardi, sfinita da quel viaggiare, e sognò anche le nuvole e l’Oriente, e l’acqua che risaliva i fiumi, e una notte piena di luce, e un treno che procedeva in retromarcia, e la Mena che seppelliva i propri vestiti, e lei che finalmente dormiva tranquilla sopra un nocciòlo.

Nei giorni seguenti, sola nella casa vicina alle mura, sentì questa tranquillità come qualcosa alla quale non avrebbe mai potuto rinunciare, qualcosa che era saldato col sangue a Cafiero, e quando si accorse di sentire ancora su di sé l’impronta del suo corpo capì che non avrebbe mai potuto rinunciare a quel peso, né per le chiacchiere del paese, né per il Prataio, né per il buon nome dei Bertorelli.

Ugo Riccarelli, Il dolore perfetto, Mondadori.

 

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Stringendo l’occhio, guardando il fiore del grano

Non ho mai letto un libro di Vincenzo Cerami, al massimo qualche suo intervento sui giornali. Non ho motivo per piangerne la scomparsa o per lodarne l’opera semplicemente perché non ne so abbastanza. Tuttavia, un piccolo senso di colpa mi ha punto in questi giorni, per aver sbeffeggiato il suo racconto protagonista della Prova Nazionale Invalsi del 17 giugno. Il testo, non credo rappresentativo della grandezza dello scrittore, era in realtà incolpevole; a farlo precipitare nei bassifondi del ridicolo sono state ovviamente le domande apposte in calce dal carrozzone nazionale preposto alla valutazione del sistema scolastico.

Leggendo qua e là, però, ho scoperto che alla penna di Cerami – il Cerami sceneggiatore – devo alcune pellicole a cui mi legano ricordi piuttosto tenaci. Nessuna pietra miliare della filmografia mondiale, d’accordo, ma piccole storie tutte venate da una loro ingenua purezza, tutta roba che oggi non potrebbe esistere e finirebbe inevitabilmente dentro la centrifuga del cinismo. Erano storie di padri magari tutti sbagliati, sbalestrati, perduti, ma che non perdevano la forza di guardare negli occhi, con dolcezza, bambini incapaci di recitare come tutti i bambini dei film, almeno di quelli italiani. 

 

 

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L’arte tutta femminile di incastrare le corriere

 

Immaginavo fosse dura leggere di un Tour de France senza la penna di Gianni Mura, la sua passione per le storie incastonate come perle dentro la cronaca, le sue sublimi divagazioni, ma così è davvero troppo. La Grande Boucle si apre con una tappa pasticcio, un inconveniente dietro l’altro, e un episodio tra i tanti riconcilia teneramente con la fallacia degli umani. Un superpullman guidato da un superautista (uomo) si incaglia maldestramente sotto l’arco del traguardo montato da tecnici (uomini, con tutta probabilità) nell’ambito di una corsa di corridori (uomini) organizzata e diretta da importanti personalità (uomini) del ciclismo francese, prima di venir soccorso da una provvidenziale squadra di pompieri (uomini). Il tutto davanti a qualche centinaio di milioni di telespettatori (per gran parte uomini) sparsi per il mondo.

Ecco la cronaca dell’inviato (uomo) di “Repubblica”.

 

«Il genio al volante (c’è un filmato già cult) alza gli occhi e,

come vostra moglie al parcheggio dell’ipermercato,

decide che sì, lì ci passa».

 

Chiudo il giornale, se non ora quando?

 

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Due vite in una

 

Ho notato uno strano pudore nei ricordi commossi del calciatore Stefano Borgonovo. È stato giustamente messo in luce il suo coraggio, è stata con forza raccontata l’impari sfida alla malattia che ne ha fatto un eroe. Si è detto dell’infinita dignità e della generosità.

Il pudore che non comprendo riguarda il prima. Perché non ricordare anche l’atleta nel pieno della forma, perché non mostrare in Tv gli stacchi imperiosi, le rovesciate acrobatiche, gli slalom tra i difensori avversari… Come se la seconda vita di Borgonovo avesse in qualche modo oscurato e vanificato la prima, come se tra quelle due esistenze ci fosse un’incompatibilità di fatto. Essere stato l’emblema della vigoria fisica a mio avviso non ostacola e anzi sublima la successiva struggente testimonianza di quell’uomo che della vita ha bevuto davvero tutto il succo.

Ci pensavo, ieri sera, e mi è venuto in mente un pomeriggio allo stadio. La squadra di casa, a rischio retrocessione, offriva biglietti a prezzi stracciati per richiamare in curva sostenitori depressi. Una delle tre partite a cui ho assistito dal vivo, tutte da adolescente o poco più. Udinese-Cremonese 3-3. Con doppietta di un elegantissimo, regale, felpato Stefano Borgonovo. 

 

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Aria che cambia aria

Aria è stata una delle mie prime alunne. Son passati dieci anni, ma sembra ieri. Era una ragazzina entusiasta e volitiva… No, fermo subito le parole astratte, sto parlando in “pagellese”, che in questi giorni – purtroppo – scatta di default. Proviamo così: era la prima ballerina nei miei spettacoli, costruiva gigantesche mummie con la carta igienica e la colla vinilica, portava a scuola – e mi convinceva a farceli rimanere! – gattini trovatelli con la tosse. Ecco, così la descrizione è più concreta e va decisamente meglio.

Una volta abbiamo litigato e sul suo quaderno, il giorno dopo, ho trovato al posto del tema domestico una frase: “Lei capisce sempre e solo quello che vuole”. Ripetuta 30 volte, il contrario di quello che una volta facevano fare i maestri e i prof. (“Ho dimenticato il libro a casa. Ho dimenticato il libro a casa, ho dimenti…”). In calce, tuttavia, c’era scritto anche “…però adesso basta litigare, ché domani è un altro giorno”. È fatta così, la ragazza.

Aria, con la sua calligrafia piena ci curve e tornanti, inseriva nei suoi quaderni riflessioni spiazzanti. Come lei stessa ricorda, non tutti i giorni erano ugualmente ispirati e buoni per la scrittura, ma quando capitava che lo fossero dalle righe nascevano pensieri difficili da dimenticare: “riuscirò a raggiungere i 18 anni?”.

Beh, c’è riuscita. E poi si è pure laureata. E poi? E poi – complice quest’Italia che lasciamo perdere… – ha deciso che il suo futuro andava almeno momentaneamente ricercato altrove. Da qualche settimana, infatti, Aria vive ad Ankara, e lavora nell’ambito di un progetto di volontariato. Ovviamente non conosce la lingua turca e i suoi colleghi, a quanto pare, non masticano granché l’inglese. Insomma, ci vuole un bel coraggio. E, di questi tempi, ci vuole anche un bel blog per raccontare tutto a chi è rimasto qui sotto questa mezzaluna senza stelle.

Manco a farlo apposta, appena atterrata sul suolo turco, il paese che la giovane ha scelto per trascorre il prossimo anno della sua vita s’è incendiato come un mucchietto di foglie secche approntate d’autunno da un metodico contadino.

Insomma, Aria ha cambiato aria, nonostante Aria non sia cambiata.

 

(Da oggi il blog Ariaditurchia lo trovate tra i link della Pozzanghera)

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Libero sindacato cassiere di periferia

La cassiera di un cinema di periferia. Una di quelle sale che hanno perso la sfida con i mostri a dieci schermi, e allora si sono specializzate in pellicole di qualità, gioielli d’autore.

Le unghie smaltate della donna danno il resto con eleganza: a qualche coppia d’anziani, a qualche signore solitario, a due innamorati che si tengono stretti, ad un’uomo che paga per due ma poi lei all’ultimo non arriva, e il film sarà per forza bruttissimo.

Un piccolo cinema lontano dal centro: un luogo che la domenica pomeriggio si popola di bambini per l’ultima trovata dei maghi dell’animazione.

E lei, la cassiera, stacca il biglietto e guarda, studia. I cuccioli pronti alla magia, ma altrettanto concentrati sulla voglia di infilare la manina in un otre di pop corn. I papà divorziati che si sentono in colpa, il tempo è poco e il film è una strada troppo comoda: neanche quel giorno riusciranno a parlare col figlio. Si accontenteranno di vederlo ridere alle gag di un suricato.

Non è un lavoro duro, quello della cassiera. Certo, gli orari balordi, i sabati e le domeniche, il Natale, la Pasqua. Certo, l’attesa tra il primo e il secondo spettacolo, l’infinito gioco di appiccicare una faccia alle voci degli attori, le battute delle pellicole più proiettate imparate a memoria e il sapere in anticipo se dentro, al buio, le persone rideranno, e quanto. I piccoli riti: appendere le locandine, uscire dal botteghino per sgranchirsi un po’; le piccole scocciature: rispondere alle mamme che chiedono se un film sia proprio adatto…, beccarsi gli improperi di chi una schifezza così non l’aveva mai vista.

Qualche raro grazie, quando i titoli di coda dell’ultimo spettacolo stanno già scorrendo e la cassa è già stata chiusa. Chissà perché, quei grazie, come se fosse stata lei, semplice cassiera, a scegliere quella storia o quel finale o quel bacio o quell’abbraccio o quel semplice sguardo di celluloide.

 

(Venerdì 25 aprile Beppe Grillo ha definito Lilli Gruber, colpevole di aver ospitato nel suo programma alcune opinioni molto critiche verso il M5S, una che “al massimo potrebbe fare la cassiera in un cinema di periferia”). 

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“Papà, a Scuolamagia ci sono 21 alunni”… “Dove l’hai letta sta cazzata?” … “Sull’Unità…”

 

Come dicevamo, Andrea Satta ha trascorso un paio di giorni in Friuli, ospite della rete di scuole Sbilf. In un baretto anonimo dove ci siamo fermati per un caffè, Andrea è rimasto incantato davanti ad una carta della regione che lo ospitava, una di quelle con le montagne sporgenti, con “i rilievi in rilievo”. Mentre il suo caffè si freddava, ha percorso con il dito valli e pianure, conche e litorali. Ha accarezzato i confini, di cui mi è parso – come dargli torto – particolarmente ghiotto. Il suo mi è sembrato un atto d’amore verso la geografia. Oggi ha scritto di questo suo viaggio – quello concreto o quello col dito? cambia qualcosa? – sull’Unità.

(L’articolo si può leggere nei commenti)

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C’è chi in fondo al suo cuore ha una pena

 

Le parole di Jannacci entrano a scuola senza bussare, senza bisogno di chiavi. Nemmeno di chiavi di lettura. Sono una lingua sconosciuta ma non straniera. Stralunate, surreali, divertenti, sono le parole di un nonno un po’ matto che sta dalla tua parte, che ti fa l’occhiolino e pure ti copre se hai combinato qualche guaio.

Forse le ho usate troppo poco, in classe, ecco, questo è il problema. Ma quando è accaduto non mi sono mai chiesto se stessi facendo la cosa giusta. Era evidente che .

Scuolamagia omaggio a Jannacci

(clicca per ascoltare)

 

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Avresti mai pensato di intitolare O TEMPORA, O MORES?

I parlamentari eletti sono “casi psichiatrici”.

Le parlamentari, ma forse anche i colleghi maschi, sono “troie”.

Per Marco Travaglio chi non capisce certe cose evidenti che capisce lui è un “cerebroleso”. Pazienza che il termine faccia riferimento a tutt’altra forma di disabilità, pazienza soprattutto che sia la dolorosa caratteristica di persone che vorrebbero leggere Travaglio senza sentirsi insultate.

Un ottantenne sembra ovvio debba addormentarsi mentre ascolta i discorsi fluenti di un quarantenne.

Il femminicidio diventa l’idea geniale per uno spot.

Chiunque abbia 5 righe di spazio su un giornale o sul web ne usa almeno 3 per ricordare a tutti, e sempre, che Brunetta è prima di tutto un nano.

Un sindacato di polizia contesta una sentenza oltraggiando la madre di una vittima.

Che la diga presentasse svariate crepe ce n’eravamo accorti.

È altrettanto evidente che questi che arrivano a valle non sono soltanto quattro schizzi. Non sono avvisaglie.

Viene giù tutto.

La civiltà, dico.

Dove si scappa? 

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To Be Continued

Anche se non c’è un doodle a ricordarcelo, il 24 marzo cade la giornata mondiale per la lotta alla tubercolosi. Sarei disonesto se vi dicessi che intendo sensibilizzarvi in tal senso. Ne so poco o nulla e, anzi, necessito di urgenti interventi di sensibilizzazione.

Da qualche anno, però, io il 24 marzo spero che piova e che sia domenica. Per 24 ore filate, quel giorno, quelli della Stazione di Topolò radunano il villaggio globale e offrono in streaming audio un ricchissimo menù di musiche, un variegatissimo banchetto con suoni da tutto il mondo. Per dire, mi sono connesso e la musica che mi ha accolto proveniva dalla Nuova Zelanda: un vero concerto con tastiere, altri ammennicoli tecnologici e – soprattutto – il suono che fa la festa di compleanno di una bambina di 5 anni.

Sono uscito cinque minuti per comprare i giornali e ora mi accoglie un bel tappeto sonoro tessuto a Città del Capo, Sudafrica. Un sottofondo di pioggia e il canto di quelli che direi sono pennuti di quelle parti. Alle 9.30 farò un salto in Giappone, dove immagino (adesso: 9.21) si staranno preparando. La Cina me la sono persa, peccato, avrei dovuto svegliarmi alle 4.00. Alle 12.00, per dire, gioca l’Italia con la pianista Alessandra Celletti.

Morale della favola, la mia, in soldoni. Da giorni ci sorbiamo le omelie di quelli che hanno capito il Web, che sanno usare la rete, che con i computer fanno la democrazia come ad Atene. Quelli che erano così connessi che manco si conoscevano. Quella rivoluzione lì, se esiste davvero, se ne sta racchiusa dentro queste 24 ore di arte e creatività dolcemente invadenti, meravigliosamente gratuite.

Mi fermo qui: prima vi connettete meglio è. Buon ascolto!

Cliccate su…

 

ToBe Continued

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La prospettiva di Ivan

Che bisogna guardare il mondo da prospettive sempre nuove, da ottiche diverse, me l’ha insegnato, tra gli altri, Ivan Scalfarotto.

Anche scrivendo parole come queste.

Quindi, mentre dalle stelle – tutte e cinque – piovono cattivi auspici che si espandono – a macchia di giaguaro – sul futuro del paese, cambio prospettiva e gioisco per un nuovo onorevole come ce ne vorrebbero mille.

[eco fuoricampo: vaffanculoooooooo!!!]

Cinquecento, vabbè.

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Le domande di Alex

Giornalisti, blogger e personalità varie si sono dati da fare, nei giorni scorsi, per far arrivare agli italiani le loro più o meno motivate dichiarazioni di voto.

Io prima delle elezioni, di tutte le elezioni, rispolvero un vecchio file ripescato nel computer di Alex Langer dopo la sua tragica fine. Datato 4 marzo 1990, rimane qualcosa di misterioso: avrebbe dovuto evolvere verso qualche sorta di pubblicazione o era destinato ad una riflessione strettamente personale? Non lo sapremo mai.

Intanto, mi piace da impazzire l’idea che ad aiutarmi ancora una volta non siano delle RISPOSTE ma delle DOMANDE.

 

Cosa ci può realmente motivare?

Cambiare il mondo o salvaguardarlo?

Solidarietà come autocompiacimento?

Abbandonare la radicalità?

Etica della rivoluzione?

Navigare a vista?

Esiste da qualche parte una linea di demarcazione tra amici e nemici?

A chi ci si può affidare?

Cosa ti dice il sud del mondo? Solo cattiva coscienza?

Perché cercare la salvezza altrove (perché poi dover andare lontano…)?

Vivresti effettivamente come sostiene si dovrebbe vivere?

Passeresti il tuo tempo con coloro ai quali rivolgi la tua solidarietà?

Professionalità. Potresti vivere anche senza politica? Ti sei davvero domandato cosa ti procura e ti ha procurato?

Altruismo/egoismo?

Quali costanti?

Quali sintesi (p. es. giustizia, pace, salvaguardia del creato)?

Cosa faresti diversamente?

Alex Langer

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