Le storie di Scuolamagia, Res cogitans, Stream of consciousness, Tutte queste cose passare

Le cose cambiano, e la scuola è gay

Chissà che conclusioni avrebbero raggiunto, gli insegnanti sguinzagliati dalla curia milanese alla scoperta di come e quanto l’immaginario gay abbia invaso le classi, le file di banchi, i corridoi, le file davanti ai distributori di merendine.

Probabilmente al termine della loro “indagine informale” avrebbero tratto un bilancio confortante, dal loro punto di vista, ché i docenti italiani tutto sono fuorché un’avanguardia. In nessun campo, figuriamoci in quello.

Le cose, tuttavia, cambiano. Indipendentemente da chi sieda in cattedra.

“Prof., nel tema posso metterci un gay? In tutte le serie americane ce n’è almeno uno…”.

Rimasi stupito, ed era il 2003. Certo che si poteva.

Poi qualche anno dopo venne un tema cupo e di difficile lettura. Ma era colpa mia, non riuscivo a capacitarmi – aprendo e richiudendo il protocollo – che la protagonista fosse trans. Messa a fuoco la cosa, tutto scorreva liscio nel racconto di un’identità complessa e tormentata. Racconto che io non avrei saputo scrivere, figuriamoci in seconda media.

Molta strada rimane da percorrere, per gli insegnanti, per gli alunni e per gli 007 delle curie curiose.

Ma intanto non posso non pensare agli esami di stato di questo giugno, con una ragazza concentrata sulla brutta del suo tema: dentro c’è il suo futuro, il suo realizzarsi nel mondo della moda, tra collezioni da disegnare, sfilate da allestire, party e jet lag. Un futuro di fama e soldi a palate, ma anche di fatica e di stress. Tanto da rendere indispensabile la presenza costante di un assistente tuttofare. Ma i lettori non si facciano strane idee, tra la stilista e l’efficientissimo Andrew (in mio onore, NdR) non c’è niente. Quello è gay fino al midollo.

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Il mondo salvato (?) dai ragazzini

Abbiamo rischiato di avere un Ministro degli Esteri trentenne.

Peccato, avrei corso volentieri il rischio.

E pure donna, il cerchio del rischio era infuocato.

Nel pomeriggio dei lunghi manganelli ho immaginato un capo delle forze dell’ordine – unificate, con un occhio alla spending – con le medesime caratteristiche: fresco di laurea, con lo smalto sulle unghie.

Anche Paolo Gentiloni dovrà occuparsi di unghie smaltate, quelle che gridano vendetta dentro i dossier dall’Iran.

Nei giorni scorsi girava per Twitter, rimbalzando da un inviato speciale canadese a un politologo statunitense, da un’osservatorio sull’Asia ad un filosofo australiano, una carta tematica sull’età media della popolazione in Africa.

Solo la Tunisia si colloca appena sopra i 30 anni, comunque 14 meno dell’Italia.

In Niger, per dire, la media è 15. In Burkina Faso 17.

Siamo davanti ad un mondo ragazzino, un affare complicato per ministri al massimo trentenni.

Manca una foto, a corredo di questa disamina geopolitica (inutile, in quanto proveniente da un vecchio di quasi quarant’anni).

Eccola, è di oggi, massimo di ieri. Ritrae un giovane burchinabè dentro il suo paese in rivolta.

Chissà se l’ha vista anche il nuovo titolare della Farnesina…

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Il tuffo di Brittany

Brittany ha un appuntamento con la morte. È fissato per sabato. No, non si tratta di un tragico destino pronto a pioverle addosso, a sua insaputa. La data l’ha scelta lei, agenda alla mano, come si fa con la revisione dell’auto o la messa in piega dal parrucchiere.

Il cancro che ha nel cappello è troppo forte e cattivo, non si tratta di un portafortuna e Brittany è lì tranquilla mentre il mondo sta girando pieno di fretta.

Si è trasferita da San Francisco fino nell’Oregon, dove morire, in un caso come il suo, si può. Per me – ceo della Ignoranti Corporation – l’Oregon significa due cose soltanto: la storia di Brittany e lo scrittore Chuck Palahniuk, che a occhio ne saprebbe trarre un travolgente racconto.

In Italia in molti hanno scritto della scelta di Brittany, in maniera preziosa alcune donne (Chiara Lalli, Daria Bignardi e oggi Emanuela Audisio…) e chissà se è soltanto un caso.

Però dubito se ne parli granchè, nei tinelli italiani in questa fine ottobre di gettoni e manganelli. Peccato, perché ci riguarda un bel po’. Metti che un giorno s’arrivi anche noi sulla soglia di quel diritto…

Scrive oggi l’inviata di “Repubblica”:

«Sarebbe bello non giudicare Brittany, non dividersi, non polemizzare. Quanti di noi alle prese con un tuffo difficile da una scogliera, dicono all’amico: guardami. Perché se tu mi vedi io avrò meno paura. E oggi ci si può far tenere la mano anche online».

Assistere al tuffo di Brittany si può. Basta andare su questo sito e spedirle una sorta di “cartolina”. E pazienza per la retorica e la guerra sporca tra le associazioni pro e quelle contro.

Sulla scogliera si sente soltanto un gran rumore di onde e di vento.

Aggiornamento: Brittany sembra abbia deciso di rimandare il suo appuntamento. Un gesto di libertà che si somma a quello di cui ho parlato nel post.

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Il piccolo fiume incontra il Grande Fiume

 

Il piccolo fiume si forma a poco a poco, da tanti piccoli affluenti silenziosi.

Eccolo radunarsi nei pressi del lungo ponte e delle quattro strade che vi convergono, due di qua, due di là.

Il piccolo fiume è fatto di persone, alcune scese da macchine in transito, altre accorse dopo aver abbandonato il piatto della cena in corso, nelle case vicine.

Ad attirare il piccolo fiume è il boato del Grande Fiume, impetuoso come non accadeva da anni, prepotente nel suo folle correre verso il mare. Ad accelerare il cammino di quei piedi sono le sirene di soccorsi prestati non lontano da quel luogo, in un punto da cui provengono anche luci lampeggianti.

La processione si sparge lungo il ponte e sulle sponde, raramente così vicine al flusso dell’acqua. Capto le poche parole che sfuggono al fragore di quell’onda sporca e spietata con i timidi arbusti cresciuti a riva: “…ti ricordi la piena del ’78, o era il ’79?”, “E quella volta, sarà stato l’85?”. Discorsi di vecchi, quasi felici di ricordare, e di quel potere di confronto concesso loro dagli anni. Intanto, papà stringono forte – con le destre – manine sinistre di bambine attonite e senza domande. Una donna forse prega, e forse è straniera. Ragazzi scesi dagli scooter ridono forte di qualcosa.

La scena si ripete uguale a se stessa. Acqua che rincorre altra acqua. Il film durerà a lungo, e il cielo è gonfio di nuova pioggia.

Il piccolo fiume si dissolverà molto prima del Grande Fiume. 

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Para la memoria

La notizia ha un paio di giorni e l’hanno sentita tutti.

Succede ancora, fino al momento in cui non succederà più.

Un altro nipote riabbracciato dalla legittima nonna.

Un bambino rubato al corpo ammazzato di una giovane madre. Il figlio di una “sovversiva” riciclato impunemente dai carnefici dei genitori naturali, nella notte buia dell’Argentina.

Un incubo lungo una mezza vita, una vita da Ignacio, riscattato da un esercito di nonne coraggio che mettono il tuo passato in una centrifuga e te lo restituiscono con un’etichetta diversa, che se la leggi dice Guido, non Ignacio, Guido Carlotto, origini italiane, figlio di Laura, imprigionata, colpevole di aver partecipato alla vita politica del proprio paese, uccisa a 23 anni poco dopo il parto. Desaparecida no, le sue spoglie furono riconsegnate alla famiglia. Quel bimbo sì, scomparso, come molti altri.

E la notizia, quel piccolo capolavoro di giustizia, l’han sentita già tutti.

Non hanno sentito tutti – invece, forse – la canzone “Para la memoria”, che Ignacio/Guido, musicista cantautore, ha scritto, interpretato (fisarmonica e voce) e dedicato a questa storia. Proprio lui, il bimbo rubato, quell’esistenza uscita come un maglione rovesciato dalla lavatrice della Storia.

Si sa che i cantautori spesso raccontano di sé nelle canzoni. A differenza dei semplici interpreti, capita che si emozionino in maniera particolare, rivivendo spesso all’infinito, nel corso della carriera, i sentimenti fissati nei versi e nelle note.

Ecco, se tale luogo comune corrisponde al vero, da quale tornado sarà percorsa la pelle di Guido Carlotto mentre esegue “Para la memoria”?

 

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MicroMega contro la libertà indecente

MicroMega. Quand’ero all’università quella testata incuteva in me una sorta di venerazione. Era la rivista che si occupava di filosofia ancor prima che di politica, e io ero un iscritto a lettere che amava sconfinare dal classico piano di studi infarcendolo il più possibile di esami filosofici.

Era una rivista, ma quando la sfogliavi (e la leggevi) affiorava la consapevolezza di trovarsi dinnanzi ad un vero e proprio libro. La carta ruvida e gli ampi spazi bianchi a margine degli articoli invitavano ad apporre note e commenti a matita. Una goduria.

Poi è venuta la stagione dei numeri settimanali, ai tempi delle guerre di inizio secolo e di tante schifezze berlusconiane. Anche quelli, seppur più agili e decisamente più economici, li classificavo tra le mie carte come fossero tomi.

È trascorsa una manciata d’anni, la rivista ha conservato la sua mission, ma si è dotata di strumenti utili ad affrontare i tempi che cambiano: siti, blog, account e profili d’ordinanza.

L’odierna battaglia online, però, invita nientepopodimeno che a firmare una petizione per la revoca dei servizi sociali al condannato Berlusconi.

Quella rivista lì – le menti che un tempo ho creduto le migliori della generazione precedente alla mia – chiede quindi con forza la contenzione di un vecchio (per carità, il meno raccomandabile vecchio in circolazione). So benissimo che gli arresti domiciliari in una villa che fa provincia non somigliano minimamente alla reclusione in gattabuia del povero spacciatore magrebino, ma chi si diletta di idee non può non sapere che, se “ci sono cittadini meno uguali di altri davanti alla legge”, la libertà è il medesimo valore per chiunque e sempre. Quando un corpo è detenuto è detenuto e basta, i metri quadrati filosoficamente non contano.

Togliere la libertà, di movimento e di espressione, ad un vecchio evasore fiscale. Questo è ciò che insegna e persegue la più blasonata rivista di pensiero del mio paese. Dimenticando ancora una volta come l’Italia necessiti di un cospicuo supplemento di Giustizia, non di manette. Evidentemente i MicroMegalomani se ne fregano del fatto che il nostro pregiudicato non sia visto come tale dalla stragrande maggioranza della nazione, e che in quel dato sia marchiata la sconfitta del sistema educativo, di ogni istituzione pubblica, di ogni famiglia italiana. Berlusconi ha ahinoi commesso in 3D quello che più di metà italiani commette o commetterebbe ogni giorno nel suo piccolo.

Che ‘sto putrido garbuglio etico e culturale si possa sbrogliare con la contenzione fisica di un vecchio, sia pure il peggior vecchio, invocata a suon di firme digitali, la dice lunghissima su come stiamo  messi.

A corredo dell’iniziativa molto poco filosofica (e molto poco di sinistra) della rivista filosofica per eccellenza campeggia una vignetta con la faccia del pregiudicato S. B. copiaincollata ad arte a fianco di un maiale. Un genere che va fortissimo, specie nei post di un famoso blog appena appena un po’ meno avvezzo alle questioni gnoseologiche, epistemologiche, teoretiche. Ma solo un po’, belìn. 

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Il neo di Michela Murgia sul volto della Sardegna

«Il volto della Sardegna l’abbiamo già cambiato».

Lo scriveva su Twitter Michela Murgia, il 15 febbraio 2014, a poche ore dalle elezioni regionali.

Sarebbe bello oggi dicesse che non era vero, che quella frase era frutto di un calcolo, la mossa scontata di chi sa di non aver fatto breccia nel cuore degli elettori – ultimi sondaggi alla mano – ma prova comunque a soffiare sulle tiepide braci di un sogno già svanito.

Non era vero, il volto della Sardegna nella migliore delle ipotesi si darà una sciacquata con l’acqua di mare e una grossolana soffiata di naso, si toglierà un po’ di quelle cacchette dagli occhi, come al risveglio da un sonno pesante, ma sarà più o meno lo stesso.

Il 10% (salvo sorprese ormai poco probabili, scrivo alle 15.00) è troppo poco, soprattutto se calcolato su un elettorato già fortemente mutilato dall’astensionismo e in presenza di una potenziale fettona di popolazione di area grillina orfana di candidature pentastellate.

La candidatura della scrittrice di per sé era legittima e benvenuta, il rischio di far vincere la destra nell’ansia di smarcarsi a sinistra faceva parte del gioco democratico, a patto di assumersene pienamente la responsabilità politica e di riuscire ad enunciare senza remore davanti al mondo l’equivalenza (cara a Grillo) di Pd e Forza Italia.

L’importante è non pronunciare la bestemmia del volto cambiato all’isola, soltanto perché una minoranza ha rimirato compiaciuta se stessa dentro un piccolo, piccolissimo specchio. Sopravvive nel paese un estremismo di retroguardia, irrimediabilmente senza popolo, che non smette di piacersi e di guardare la realtà dall’alto di torri d’avorio finissimo.

Il volto del popolo, intanto, si nasconde altrove, refrattario al cambiamento. Più della giovane scrittrice, impressionano i tanti continentali – politici, giornalisti, intellettuali – saliti sul carro sgangherato della Murgia soltanto per averci visto il sassolino che può inceppare gli ingranaggi del nemico, salvo infischiarsene delle battaglie per l’indipendentismo e delle altre paturnie identitarie dei Sardi. I loro preziosi endorsement scenderanno presto a posarsi su qualche nuovo cavaliere senza macchia, pronto a cambiare il volto di un’altra città, di un’altra regione, di un’altra isola. Con un piccolo neo, ma volete mettere il fascino di un neo?

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Enrico e Matteo come Tina e Dominique

 

Voglio dimenticarmi per qualche istante di essere quel fine politologo che sono. Voglio mettere tra parentesi il mio lucido sguardo sulla situazione economica, le mie idee sul futuro del paese, financo il mio bagaglio pesantissimo di studi sulle dottrine politiche e sulle forme di governo.

Voglio ragionare con il candore di un bambino.

Voglio alzare il ditino e suggerire a Renzi & Letta, a Letta & Renzi, di trarre ispirazione da un fatto accaduto oggi alle Olimpiadi di Sochi.

E se la risolvessero così anche loro?

Facile, no?

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Non dirmi che hai paura

Preso da una strana euforia, l’8 agosto del 2008 ho pubblicato un post con un elenco di persone importanti, e mi ci sono infilato. In comune quegli umani avevano soltanto il fatto di trovarsi contemporaneamente nella stessa gigantesca città. L’8 agosto 2008 a Pechino cominciavano i giochi della XXIX Olimpiade. Ricordo le grandi manovre davanti a quello stadio pazzesco, a due giorni dal via. Ricordo i bambini cinesi che sbucavano dai vicoli per abbracciarti e augurarti il benvenuto in città. Ricordo la cerimonia d’apertura vista alla Tv cinese, accompagnata da un primitivo liveblogging. Ricordo tanto, è una mia caratteristica, ma non ricordo Samia. Eppure Samia c’era ed era bellissima, avvolta negli abiti tradizionali del suo paese, la Somalia, dentro una delegazione sparuta e spaurita. Da qualche giorno, da qualche ora, mangiava come mai aveva mangiato e come mai più avrebbe fatto, e dormiva per la prima volta su di un letto degno di quel nome.

La sua storia l’ho conosciuta per la prima volta nel 2012, in un pezzo della scrittrice Igiaba Sciego, ed ora – romanzata senza stravolgimenti – è finita nel libro di Giuseppe Catozzella. Si legge in un fiato, e il racconto di una vita finisce per somigliare al percorso dei 200 metri piani. Quei giorni a Beijing 2008 stanno sulla curva, prima del rettilineo delle lunghe falcate, prima di dare tutto.

C’eravamo io e George Bush, quel giorno a Pechino. Con noi c’erano Lula e Laure Manadou. C’era anche Putin, e lui ci sarà anche a Sochi, pensa un po’, venerdì. C’erano migliaia di atleti e c’era soprattutto Samia Yusuf Omar.

 

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Risolvere la questione Kyenge, così

When in trouble, go big. Lo dicono gli Americani. Io l’ho imparato dal giornalista Francesco Costa, ed è pure il sottottitolo del suo blog.

Sei nei pasticci, non ti difendere: attacca. Come un tennista che va a rete, come un ciclista che prova il tutto per tutto su una salita. Prenditi dei rischi, ma spariglia, osa, fai una mossa che smuova davvero le cose.

In trouble lo siamo oltre ogni più ragionevole dubbio. Ci sono italiani razzisti che dettano la tabella di marcia ad altri italiani razzisti affinché vadano a scagliarsi, lungo tutto lo stivale, contro il primo e unico Ministro della Repubblica colpevole di essere di colore, con l’aggravante di essere donna. Alla luce dell’attuale situazione politica, una Ministra tra l’altro talmente lontana dal poter attuare qualsivoglia proposito riformatore da mettere ancor più in luce i rigurgiti della Lega, comprensibili solo e soltanto scomodando la categoria del razzismo.

Se non è trouble questo…

Quindi che fare?

Una cosa ci sarebbe. Strana, sorprendente, e si presta a tutta una serie di obiezioni che mi sono già rivolto da solo. Però è BIG. Proprio quello che servirebbe ora che siamo in trouble.

Napolitano domani si alza, si siede allo scrittoio e nomina Cécile Kyenge Senatrice a Vita.

La motivazione? Le vogliamo bene e ce la vogliamo tenere stretta, punto. Vogliono farla dimettere lanciandole le banane? E noi la promuoviamo e le chiediamo di servirci, con lauto stipendio e onori annessi, per un numero più lungo possibile di anni.

Le forze politiche di tutto l’arco costituzionale plaudono con forza (tutte, anche quella di Peppe, ché glielo chiede la rete…).

La Lega muore.

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Due come loro, due come noi

Bari, poliziotti scoprono due campioni al centro accoglienza

A quelli come loro di solito si impedisce di scappare.

In questa storia due di loro più veloce scappano e meglio è.

A quelli come loro di solito si dà un foglio di via.

In questa storia a due come loro si dà semplicemente il via.

A quelli come loro di solito si prendono le impronte digitali.

In questa storia a due come loro si prendono i tempi.

A quelli come loro di solito si tolgono i lacci delle scarpe, per il timore di atti di autolesionismo.

In questa storia a due come loro si fa il groppo alle Asics  e alle Nike nuove fiammanti, leggere e flessibili.

I due come loro, protagonisti di questa storia, si chiamano Abdul e Mussie: uno somalo e l’altro eritreo, rispettivamente 21 e 25 anni, sono rinchiusi nel Cara (Centro di accoglienza per i richiedenti asilo) di Bari, nell’attesa infinita di un permesso di soggiorno.

I due come noi sono agenti di polizia, si chiamano entrambi Francesco ma per Abdul e Mussie sono più confidenzialmente “my big father” e “my big brother”.

I due colleghi, podisti per hobby, hanno visto la corsa dei due africani e hanno capito di non trovarsi davanti a due runner normali. Per dire, Abdul ha disputato un buon 5.000 metri a Daegu, Corea del Sud, ai mondiali di atletica del 2011. Un posto dove fai la fila per l’antidoping con Usain Bolt.

Poi la vita, soprattutto in certi paesi disgraziati, capita che prenda pieghe tremende e che tu finisca catapultato dai podii internazionali alle carrette che attraversano il Mediterraneo.

Si può storcere il naso, certo, e pensare che i migranti in Italia sono tanti e hanno bisogno di attenzioni più urgenti rispetto a quel borsone di capi tecnici messo a disposizione gratuitamente dai due agenti col pallino della corsa.

Intanto però le nostre forze dell’ordine hanno bisogno di riscatto, e una vicenda come questa rappresenta un esempio decisamente virtuoso. Riflettete, se vi sembra poco: tempo fa si è tenuto in quel centro di accoglienza un “Trofeo del Profugo”, il somalo e l’eritreo hanno stracciato tutti, giocoforza, ma il sovrintendente Francesco Leone, agente di polizia, è fiero di essere arrivato terzo. Per quanti italiani “profugo” è peggio che un insulto?

Francesco e Francesco vedono le cose senza fronzoli e retorica: se uno è nato per correre devi permettergli di correre. A loro sembra assurdo che il destino di Abdul sia così tanto diverso da quello di Bernard Lagat, keniota naturalizzato statunitense, star dell’atletica, soltanto pochi centesimi più veloce del somalo diciottenne, ai tempi di Daegu. Spiegano: “È come se nascosto in quel campo ci fosse stato uno che a 18 anni aveva perso con Federer. E non gli davi più una racchetta in mano”.

È come se in quel campo lavorassero due persone così e non gli dai il Ministero degli Interni. 

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Halloween? No, Natale

“Pensaci tu”, mi ha detto un giorno quella mamma. Aveva appena constatato come la sua bimba di paura non ne facesse nemmeno un grammo, e quello era un pomeriggio di fine ottobre da consacrare agli zombie e agli scheletrini, sotto la luce di una zucca vuota, un pomeriggio da mostriciattoli che sgranocchiano biscotti a forma di bara. In effetti, quella sposa cadavere era tutto fuorchè impressionante: la tradivano un sorriso raggiante e una scorza impenetrabile di dolcezza. “Pensaci tu”, una parola. Avere qualche dimestichezza con i fogli e le matite non significa sapersi trasformare alla bisogna in esperti di body painting.

Ho cominciato disegnandole un ragnetto sulla fronte, rompendo il ghiaccio tra quella pelle di latte e il nero di una matita per il trucco. La mano che tremava ha reso quella bestiola goffa e incerta, decisamente inefficace.

Registrate le dimissioni della mia fantasia, ho ripiegato mestamente sui consigli di Google, fino a scoprire un motivo evidentemente caro ai cultori della materia, con decine e decine di immagini: la bocca cucita.

Si squarcia qui il velo che separa un post simile a tanti altri su questo blog, del tipo “gustoso aneddoto dal mondo bambino e ragazzino”, da un tuffo nella realtà agghiacciante del medioevo che stiamo attraversando.

Un paio di mesi fa ho disegnato sorridendo quello che ieri è accaduto per davvero. Neanche per un secondo ho pensato che quel topos si potesse materializzare al di fuori di quel gotico immaginario.

Ho steso una base di rosso sangue sulle guance, e alla mia modella faceva il solletico. Ho tracciato in nero il percorso verticale del filo, ho aggiunto (male) sfumature bianche. Ho scattato una foto e l’ho pure piazzata sulla mia bacheca di Facebook. A scuola, il giorno dopo, un’alunna ha pure recensito schifata la mia opera, dicendomi come avrei dovuto fare, e cosa avrebbe fatto lei al mio posto.

Oggi Concita De Gregorio ha scritto un editoriale che rimette un po’ di cose al loro posto, nel giusto ordine. È per questo che si ripiomba nei medioevi, si perde l’ordine.

 

«Però poi arriva, un giorno, il gesto che azzera la rabbia livida del tuo personale benessere negato, il gesto che ti ricorda cosa siamo, tutti, prima dei nomi che ci danno e che ci diamo: esseri umani, siamo. Lo riconosci, quel gesto, perché lascia muti. La conversazione consueta si spegne in uno sguardo che si abbassa, una voce che borbotta, la replica che tarda ad arrivare, non arriva.

Cos’hanno fatto? Si sono cuciti la bocca. Come cuciti? Cuciti. Ma le labbra? Le labbra, una insieme all’altra. E come?» 

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Vite che non sono la mia

Da qualche tempo prima di andare a dormire clicco su Repubblica.it e dedico le mie penultime energie (le ultime spettano di diritto al libro che ho sul comodino) a Il mondo in un minuto, piccolo compendio quotidiano di fotografie dal pianeta. Gli scatti che mi colpiscono di più finiscono spesso a fare da copertina al mio profilo su Facebook.

Mentre compio questo piccolo rito, sono sfiorato da un pensiero ricorrente: l’oriente mi sembra più fotogenico dell’occidente. Mi stupisco dell’ingenuità di questo assunto, che so demolire dialetticamente anche da solo, ma tant’è: mi capita di rimanere incantato davanti ad un mercato popolare di Giacarta più che davanti ad un corteo di operai messicani, davanti ad un panorama di Taiwan prima che dinnanzi allo skyline di Toronto.

La faccio breve e confesso di sentirmi una merda per aver guardato le immagini provenienti dalle Filippine con gli stessi occhi di quando metto in scena il mio “premio fotografico” delle sere qualsiasi. Ho visto la bellezza dove avrei dovuto sentire soltanto la compassione. Ho benedetto il talento ma anche la fortuna di chi ha saputo incastonare una bambina disperata nel mosaico dei fili elettrici ingarbugliati ai rami; ho trovato spettacolare una moto guidata da un padre in fuga, passeggeri due figli piccoli e due enormi orsi di pezza.

Dal poco che so di quell’arcipelago lontano è riemerso poi questo video, che credo domani mostrerò ai miei giovani virgulti, con la storia pazzesca degli abitanti del cimitero di Navotas, a Manila. Un affresco di vita, occhi spalancati, salti e corse a piedi nudi messo in scena direttamente nel teatro della morte.

Ma ci son ricascato, quella è di nuovo la bellezza.

Di vite che non sono la mia*.

 

Above and Below from Stefan Werc on Vimeo.

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A day

Era finito il gomasio, e il gomasio dalle mie parti lo vendono soltanto lì.

Così stamattina sono entrato come faccio sempre e sempre con quell’unico scopo, ma in quel negozio non era un sabato come gli altri. Era l’ultimo. Il foglio appeso al vetro (lunedì non riapriamo) parlava chiaro, ma meno delle facce. Non solo quelle delle lavoratrici, tutte donne, i volti tirati e gli occhi lucidi. Anche quella della signora più affezionata ma anche più ignara di me, passata di lì a fare scorta di farro e yogurt biologici. Le veniva da piangere e chiedeva del domani. La sua interlocutrice era rassicurante e relativizzava in prima persona (“io per fortuna ho mio marito…”), ma lasciava trapelare un salto nel vuoto per colleghe e colleghi.

Con i miei alunni ho scelto di partecipare a Italy in a day. Siamo saliti sul punto panoramico che domina il paese di Scuolamagia e abbiamo fatto – e ripreso – un urlo. Prima avevamo filmato con il tablet una partita di calcio con in mezzo al campo una ragazza che scriveva un tema, con tanto di foglio di protocollo e Zingarelli d’ordinanza. Non ci sceglieranno mai, Salvatores si coprirà gli occhi con la mano, ma è stato divertente.

La scena giusta per raccontare il paese, però, era senz’altro quella che ho visto entrando in quel negozio, tra gli scaffali semivuoti e quella gente ferita. Prima di recuperare 3 barattoli di gomasio e venire a scrivere questo post.

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Se 14 euro ci sembran pochi

Basta un rapido sguardo alle prime pagine dei giornali di oggi per fare i conti con un’evidenza: 14 euro al mese ci sembran pochi. L’occhiata fugace a un paio di talk politici, ieri sera, regalava la medesima impressione: risatine, sfottò, benaltrismi. Critiche feroci alla legge di stabilità e alle sue magre iniezioni alle buste paga sono arrivate da destra e da sinistra, da leader politici ed economisti, da osservatori stranieri e casalinghedivoghera.

La Pozzanghera è perfettamente consapevole di come molti cittadini italiani fatichino nel quotidiano campare e non ha quindi bisogno di particolari approfondimenti per chiamare “buffetto” quello che avrebbe dovuto essere uno “gancio sinistro” in faccia alla povertà.

Tuttavia, in tanti hanno un filo esagerato nell’ironizzare su quelle 14 monetine messe una sull’altra. 14 dischetti di metallo pur sempre in grado di sfondare una tasca, far traboccare un pugno, sbancare una macchinetta del caffè.

Se quindi quella tintinnante pochezza finisce per offenderci, se risulta inutile ai fini del rilancio dei consumi…

…perché non regalarla alla causa dei migranti che arrivano dal mare?

Con serietà e rigidi controlli, s’intende.

Perché non consegnare quell’obolo irrisorio, anche quello di un mese soltanto, a chi ne ha di gran lunga più bisogno?

Ai bimbi migranti, orfani di padre di madre e di tutto, in prima pagina sui quotidiani di oggi, appena sotto lo scherzetto democristiano delle 14 monetine.

Moltiplichiamo quel niente per… che so… 4 milioni. 56 milioni di euro che potrebbero diventare soccorso più pronto e accoglienza più calda, letti più comodi e mediatori culturali.

Alcuni di quei bambini soli, arrivati rocambolescamente in Italia e spariti nel nulla, potrebbero essere tolti dalla strada su cui ogni giorno mendicano una moneta.

Una al massimo.

Si è mai visto qualcuno che ne depositi 14 in un piccolo palmo?

Una, una, ché son pur sempre 2000 lire…

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Quando eravamo giovinetti

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Prima di tuffarci nei meandri del fiume della Storia, spesso a inizio anno a Scuolamagia ci dedichiamo alla storia minuscola delle pareti e dei pavimenti che ci ospitano. Come piccoli Champollion decifriamo incisioni sul legno di certe finestre, datiamo antichissimi “W Inter”, ci chiediamo il perché di misteriose scritte avvitate alle porte: “App. tecniche maschili”, saranno mica parenti delle app sul display dei nostri cell.? Complici vicende davvero notevoli legate alla nascita dell’edificio oggetto di studio, l’attività capita che appassioni un bel po’, specie nelle sue fasi dinamiche di “caccia all’indizio” storico, su e giù per le scale, chi qua e chi là e che vinca il migliore.

Le ricerche odierne hanno portato al rinvenimento di alcuni interessanti documenti cartacei. Un foglietto volante arancione, perso dentro un vecchio registro, non era altro che il decreto di un’espulsione. Il 29 gennaio 1969 la Prof. Taldeitali presenta a carico del giovinetto (avete letto bene: GIOVINETTO) Tizio Caio il seguente rapporto disciplinare: scarsa applicazione (ancora queste app… n.d.r.) e contegno scorretto. Va da sé: c’era stato il ’68 anche nelle scuolette di montagna. Quella specie di multa, in copia, doveva essere esposta all’albo ed inserita nella cartella personale dell’alunno, che avrebbe avuto la fedina penale sporca alla faccia del garante della privacy.

Altro documento ingiallito, sfogliato in una nuvola di polvere: una raccolta di temi risalenti all’anno scolastico ‘73-’74. Tracce brevi, piuttosto sul vago. Una mi colpisce. Parla di cosa trovi profondamente ingiusto. Da quella e da altre tracce sparse tra i fogli di protocollo deduco un profilo di insegnante sinistrorso, illuminato e forte dei suoi valori. Di altra estrazione l’autore del tema, a occhio. Il suo pensiero, esposto con elementare efficacia, in soldoni: chi ammazza una persona dev’essere condannato all’ergastolo; chi ne ammazza due merita la pena di morte. In proporzione diretta al numero delle vittime, la pena capitale vedrà incrementare l’atrocità della sua esecuzione. Immagino l’inchiostro rosso del collega bollire nella plastica della Bic. Proseguendo, altra grave ingiustizia: la fame nel mondo. E come dare torto al giovinetto? Che continua: mi chiedo perché si siano spesi tutti quei soldi per il referendum; uno solo di quei miliardi sarebbe bastato per aiutare tutti gli uomini affamati ed assetati del pianeta. Spietato, come si evince dall’immagine, il commento dell’insegnante.

Una chiosa in rosso appare anche a margine della chiusa. “I politici inoltre sanno soltanto parlare, ma non agire”. Il Prof., in corsivo nervoso: “da approfondire…”.

Si può star sicuri che hanno approfondito, i politici.

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1, 10, 100 COSTECONCORDIE

Alang

Pronti? Allora: si va su Google, come immagino facciate altre 57 volte, chi nel corso dell’intera giornata, chi tra le 8.00 e le 8.30 del mattino. Infilate nel motore di ricerca queste cinque letterine: alang. Fatto? Cliccate ora su Maps. Alang è infatti un luogo. Finirete in India, nella regione del Gujarat, e quello che vedrete – sotto una nebbiolina che sembra messa lì apposta da un genio del male, o da me che vi sto guidando – vi farà rimanere di stucco. Altro che Costa Concordia. Altro che PARBUCKLING, benvenuti nel mondo dello SHIP BREAKING.

Niente martinetti, niente cassoni che si riempiono d’acqua. Solo fiamme ossidriche e martelli, tenaglie e forbicione. Niente commissari e superingegneri. Soltanto ragazzini seminudi con la pelle scura. Piccole termiti a scavare il ferro di navi provenienti da tutto il mondo, Europa compresa. Operazioni di dismissione clandestina vietatissime, ma realizzabili con la semplice manomissione di qualche documento, e un furbo cambio di bandiera all’imbarcazione da rottamare.

Me l’ha ricordato Adriano Sofri su Repubblica di oggi, che dopo gli umani stupori nella notte del Giglio era il caso di fare una capatina ad Alang, come abbiamo fatto spesso a scuola negli ultimi anni, per recuperare il senso delle (s)proporzioni.

Io metto la foto, ma voi andateci. Volare così non costa niente. Scendete col tastino + . Aspettate che l’immagine si metta a fuoco.

Oltre la spiaggia, oltre la nebbia, il mare è di un bell’azzurro anche lì. 

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“Per capirmi è necessaria la curiosità di Ulisse”

Aveva ragione Samuele Bersani, nella canzone che ha dedicato a Enzo Baldoni. Una cosa che penso ogni anno, ad ogni scoccare di anniversario, riascoltandola nei giorni d’agosto in cui molti ricordano questa particolarissima figura di italiano: uno dei nostri, ma anche uno anni luce più avanti. Uno che aveva capito prima un sacco di cose, ma che sicuramente si sarebbe fermato in fondo alla strada per aspettarci e raccontarci tutto.

Aveva ragione a scegliere una sineddoche, Bersani. Una parte per dire il tutto. Gli occhiali al posto del loro proprietario. Due lenti e una montatura al posto di un omone e del suo nomeecognome.

Come quell’oggetto di uso così comune, anche Enzo Baldoni era estremamente delicato, fragile, sempre a rischio di smarrimento o rottura. Ma come gli occhiali vedeva, metteva a fuoco, scrutava dentro e guardava oltre.

Celebri aihimè sono soprattutto i suoi reportage dai luoghi di guerra, la cui fama – doppio ahimè – è stata purtroppo un frutto postumo.

Baldoni, però, vedeva lungo in un sacco di altre direzioni.

Oggi ho riletto questo pezzo sulla pedofilia. Una testimonianza diretta, intima e vera, senza reticenze, lucida. Niente di specialistico – Baldoni ne sapeva quanto ciascuno di noi che poco abbia studiato e approfondito – piuttosto un mattone concreto messo lì per tutti, generosamente, gratuitamente, perché era giusto e naturale fare così, perché non si sa mai possa servire, nella costruzione di una società migliore.

 

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