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Allora come spieghi questa maledetta nostalgia

 

 

C’era una volta una giovane donna che ritagliava sagome umane dalle foglie. Era un’artista, quella donna, e perseguiva il vecchio grande sogno di fare della propria vita un’opera d’arte. Compiendo gesti come mettersi in cammino e raggiungere Gerusalemme in autostop, vestita da sposa. Milano, Venezia, Gorizia, Lubiana, Banja Luka, Sarajevo, Belgrado, Sofia e avanti, mettendo in campo la sua fiducia negli umani come fanno ogni giorno gli autostoppisti e quelli che li raccolgono.

C’era una volta questa giovane donna che fu vittima della sua opera d’arte, di quel gioco di fiducia e speranza infrantosi sullo scoglio di un maschio feroce, violentatore e assassino, in terra turca. Ho un vago ricordo di quelle cronache e di quegli imbarazzi. Certo che… una donna… da sola e vestita da sposa… In quelle lande, poi… Voce del verbo “andarsela a cercare”, coniugato fino quasi a convincermi. D’altra parte non conoscevamo ancora la parola “femminicidio”, non avevamo ancora ascoltato le omelie dei parroci fustigatori di minigonne, e le donne non ballavano tutte assieme la danza che Pippa Bacca eseguiva già benissimo da sola, e correva l’anno 2008.

Il nuovo video di Malika Ayane, reduce da Sanremo, sembra celebrare in maniera discreta, davvero sottovoce, l’ultimo progetto di quella donna che ritagliava uomini dalle foglie e si fidava ciecamente del suo prossimo.

 

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Se ne fa un altro

 

Ci voleva proprio un grande teologo, su quel soglio. Era ora!

 

Don Ciotti, Don Gallo: due fuoriclasse! Ma come in ogni grande squadra, il merito è tutto di chi li allena e coordina così bene.

 

Basta con la lingua italiana, ha ragione lui: torniamo alla messa in latino. Lo abbiamo studiato tutti, un po’ di latino, no?

 

Mi ha stregato il suo ultimo libro, soprattutto quando spiega che nella natività quella vera non c’erano né il bue, né l’asinello. Mi è sembrato un ottimo modo per avvicinare simpaticamente a quell’evento i più piccoli.

 

Ha proprio ragione: gli omosessuali non vanno lasciati soli ma sostenuti mentre affrontano la loro malattia.

 

Sono fermamente d’accordo con la sua dura condanna dell’aborto, definito una ferita inferta alla pace tra gli uomini.

 

Ho apprezzato la sua proposta di eliminare l’esenzione dall’Imu di tutti gli edifici non adibiti al culto.

 

Mi fanno impazzire i suoi Tweet, che hanno davvero dato nuova linfa a quel social network.

 

 

Anch’io non le ho mai sentite pronunciare da nessuno quelle frasi, tranquilli.

E quasi mi spiace scrivere una cosa polemica nel giorno in cui è palese l’umanità di quel gesto: non farcela più e dire basta. Non ce l’ho con lui, oggi. È tutto questo parlarne, è tutta questa sorpresa (davanti all’addio di chi non sorprendeva mai). Sono quelli che si dicono folgorati. Non c’è quell’uomo vecchio, al centro di tutto. C’è quel suo potere. Un po’ svuotato, certo. Privo di un grande avvenire davanti, possibile. Ma trattasi comunque di uno dei più riconoscibili ruoli – nella forma, se non sempre nella sostanza – in cui si incarna il potere degli uomini sugli uomini.

Quello ci tocca, ci colpisce, ci folgora. Quel vecchio è solo un vecchio come ce ne sono tanti.

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Una domenica da leoni

I giornali, questa mattina, pullulavano di leoni.

C’erano vecchi leoni spelacchiati che credevo quasi estinti. Invece ruggivano piangendo un compagno morto. Ripensavano alle battaglie vinte e perse con gli altri animali della savana, gridavano che la guerra non è finita, perché la guerra non può finire. Erano ciechi, quei vecchi leoni, in fondo lo sono sempre stati. Erano tre, erano quattro, erano più di 24, purtroppo.

Scrocchiano un paio di pagine e riecco altri leoni. Fuor di metafora: leoni d’Africa più veri del vero. Erano 100.000, 50 anni fa. Sono rimasti in 15.000, nelle stime dei pessimisti, oggi. Quindicimila, un po’ meno dei miei concittadini in questa piccola landa friulana. Chissà cos’avrei risposto, m’avessero chiesto “quanti sono in tutto i leoni?”. Pur privo di qualsivoglia strumento, avrei risposto 900.000, massimo 1.200.000. Mi sarei sentito realista, e senza l’aria di chi spara a caso.

Corro a preparare la lezione, domani in classe si parla di leoni.

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Non possiamo non dirci gay

Ancora su @Pontifex, mica sana sta cosa.

Sembra abbia detto:

 

“I tentativi di rendere il matrimonio fra un uomo e una donna giuridicamente equivalenti a forme radicalmente diverse di unione sono un’offesa contro la verità della persona umana e una ferita grave inflitta alla giustizia e alla pace”.

 

No, spetta, rileggo:

 

“I tentativi di rendere il matrimonio fra un uomo e una donna giuridicamente equivalenti a forme radicalmente diverse di unione sono un’offesa contro la verità della persona umana e una ferita grave inflitta alla giustizia e alla pace”.

 

No spetta, ingrandisco:

 

“I tentativi di rendere il matrimonio fra un uomo e una donna giuridicamente equivalenti a forme radicalmente diverse di unione sono un’offesa contro la verità della persona umana e una ferita grave inflitta alla giustizia e alla pace”.

 

Provo col grassetto.

 

“I tentativi di rendere il matrimonio fra un uomo e una donna giuridicamente equivalenti a forme radicalmente diverse di unione sono un’offesa contro la verità della persona umana e una ferita grave inflitta alla giustizia e alla pace”.

 

Forse con un po’ di colore.

 

“I tentativi di rendere il matrimonio fra un uomo e una donna giuridicamente equivalenti a forme radicalmente diverse di unione sono un’offesa contro la verità della persona umana e una ferita grave inflitta alla giustizia e alla pace”.

 

Poco? Vediamo così.

 

“I tentativi di rendere il matrimonio fra un uomo e una donna giuridicamente equivalenti a forme radicalmente diverse di unione sono un’offesa contro la verità della persona umana e una ferita grave inflitta alla giustizia e alla pace”.

 

Chiedo a Google di mostrarmi la frase in un’altra lingua, più elastica, più moderna. Non sia mai ch’io mi sia sprovincializzato troppo.

 

“Attempts to make marriage between a man and a woman legally equivalent to radically different forms of union are an offense against the truth of the human person and a grave wound inflicted onto justice and peace”.

 

Mescolo un po’ le parole…

 

“I tentativi equivalenti di rendere il matrimonio radicalmente fra un uomo e una unione giuridicamente a forme diverse di donna sono un’offesa contro la ferita della persona umana e una verità grave inflitta alla giustizia e alla pace”.

 

Lo stampatello maiuscolo non tradisce mai.

  

“I TENTATIVI DI RENDERE IL MATRIMONIO FRA UN UOMO E UNA DONNA GIURIDICAMENTE EQUIVALENTI A FORME RADICALMENTE DIVERSE DI UNIONE SONO UN’OFFESA CONTRO LA VERITA’ DELLA PERSONA UMANA E UNA FERITA GRAVE INFLITTA ALLA GIUSTIZIA E ALLA PACE”.

 

Cambiamo il punto di vista.

 

˙”ǝɔɐd ɐllɐ ǝ ɐızıʇsnıƃ ɐllɐ ɐʇʇılɟuı ǝʌɐɹƃ ɐʇıɹǝɟ ɐun ǝ ɐuɐɯn ɐuosɹǝd ɐllǝp àʇıɹǝʌ ɐl oɹʇuoɔ ɐsǝɟɟo,un ouos ǝuoıun ıp ǝsɹǝʌıp ǝʇuǝɯlɐɔıpɐɹ ǝɯɹoɟ ɐ ıʇuǝlɐʌınbǝ ǝʇuǝɯɐɔıpıɹnıƃ ɐuuop ɐun ǝ oɯon un ɐɹɟ oıuoɯıɹʇɐɯ lı ǝɹǝpuǝɹ ıp ıʌıʇɐʇuǝʇ ı”

 

Niente da fare. Mi sento in colpa, mi sogno migliore di così, mica mi basta essere migliore di @Pontifex…

Ma il mio cervello è inchiodato lì. Si è come inceppato. Non ragiona e continua a proiettare soltanto una vignetta di Andrea Pazienza. Schiaccio CTRL ALT CANC e non si sblocca. Non riesco a riavviarlo. AIUTO.

Mi arrendo: ragioneremo la prossima volta.

  

(Dove dovevano andare i Papi secondo Paz)

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Costruire ponti che non toccano l’altra sponda

Forse li sorprendeva il fatto che @Pontifex fosse arrivato su Twitter, nuovomondo, prima di loro. Fatto sta che dopo avermi sentito declamare il primo tweet papale, mentre diligentemente ricopiavano il compito d’italiano oggi alla quinta ora, mi sono sembrati un po’ delusi. Tutto qui? Certo, erano abituati ai cinguettii di @BarackObama e di @MichelleObama, i miei ragazzi, e forse con un principiante bisognerebbe essere più indulgenti.

Rincasando, qualche ora dopo, rimuginavo su quella schermata giallina, su quell’utente così “autorevole”, sulle ambizioni di quel progetto comunicativo, cercando di mettere a fuoco il conto che non tornava. Che è in fondo sempre lo stesso. Centinaia di migliaia di persone che ti seguono (followers, per gli iniziati…), e presto saranno milioni, nessuna da seguire. Anzi, 7: se stesso twittante in altri 6 idiomi del globo terracqueo. Il trionfo dell’autoreferenzialtà, e l’assurdo di un account ex cathedra, col dogma dell’infallibilità. Forse è solo questione di tempo e di acclimatamento, ma perché non seguire… che so… @CardRavasi, @fam_cristiana, @AndreaDisint@DalaiLama (uno che a dirla tutta non segue neanche se stesso nelle altre lingue…), solo per citarne 4?

Come diceva Alex Langer, autentico “costruttore di ponti”, è bello e importante amare le bandiere, ma a patto di cominciare da quelle degli altri. Sono convinto possa valere anche per i tweet, che provano ad essere dei cip cip. Potenzialmente qualcosa di molto più ambizioso dei soliti beeh beeh.

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Quando gli omofobi fanno oh…

Al netto della retorica.

Metti di possedere una cosa, grande ed appariscente. Cammini per strada ed incroci un gruppo di persone che scandiscono slogan in cui si sostiene che quella cosa, la tua cosa, non possa esistere, non faccia parte della natura, sia fuori dal mondo. A quel punto, se quella cosa guarda caso ce l’hai appresso, lì con te… A quel punto, con fare quasi didascalico, didattico, oserei dire scientifico… A quel punto, ecco, quella cosa la tiri fuori e gliela mostri.

Soprattutto se quella cosa è l’amore, soprattutto.

  

!!! Aggiornamento: bello scoprire, dopo aver scritto e postato, come non fosse poi l’amore, la cosa da mostrare… Era qualcosa di più: l’amore degli altri, dei miei fratelli con meno voce e meno diritti. Ancora meglio, via…

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Kant e la verginella

«Ti sto osservando, stai studiando Kant». Mi ronza in testa da ieri, il messaggino spedito alla diciassettenne palermitana dal suo ex furibondo, che forse stava premeditando un futuro da assassino. Probabilmente il nome del filosofo era scritto sulla lavagna, un docente spiegava e l’sms è arrivato facendo piano. Le classi, si sa, non sono impermeabili ai messaggini. Mi ronza in testa perché stride con le parole che coll’immaginazione avrei fatto digitare su un display ad un tale mostro, e forse perché ho un ricordo indelebile di quando, a quell’età, di notte, sui tavolini all’aperto di una pasticceria, semiclandestinamente, studiavo la Critica della ragion pura con i compagni di liceo, in quelli che chiamavamo “simposi”, il giorno prima dell’interrogazione.

 

«Probabilmente alle primarie voterò Bersani ma, per favore, da navigato ambasciatore della sinistra nel rapporto con i poteri forti, davvero, non faccia la verginella». C’è posto per un altro ronzio, nella mia testa. A scrivere questa volta è Gad Lerner, uno di quelli che mi hanno insegnato un sacco di cose, uno che, con Alex Langer, ha contribuito a seminare in me le idee di cui vado più orgoglioso, uno la cui trasmissione in tv, a volte, mi ricorda un simposio a parlare di Kant ai tavolini di una pasticceria. Non è certo colpa del grande giornalista se la lingua italiana è incrostata di maschilismo, così tanto che l’errore di un maturo politico maschio viene sanzionato attraverso il paragone con una giovane donna dai costumi facili e ipocritamente celati.

 

Il centesimo assassino di una donna in questo 2012 forse pensava alla “sua” donna come ad una “verginella”, che, mentre teneva a distanza lui, ricuciva rapporti con fidanzati precedenti, coltivando il vizio censurabile della libertà.

 

C’è materia per infinite passeggiate kantiane: il cielo stellato sopra di noi, la legge morale questa sconosciuta. 

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Con una finestra aperta sulla morte

Le immagini di Francesco Mastrogiovanni mentre muore legato ad un letto d’ospedale non sono inedite. In passato le tv le hanno già mostrate e discusse. La novità di questa iniziativa dell’Espresso e dell’associazione “A buon diritto” (guidata da Luigi Manconi) sta nel proporle integralmente. Quattro giorni di streaming sul sito del settimanale, con un orologio gigante a scandire il tempo infinito di quell’orrore. Una scelta forte, un pugno nello stomaco, a suo modo un esperimento che ho prima di tutto testato su me stesso. Ieri ho lasciato quella pagina aperta, mentre scrivevo e lavoravo al pc. Ogni tanto buttavo un occhio, il tempo per rabbrividire di vergogna. Quello che ho pensato, al momento di spegnere tutto e andare a dormire, è che non dovrebbero servire le immagini. Una storia così dovrebbe pugnalarci anche se raccontata da un trafiletto minimo, anche se letta da un mezzobusto in un Tg della notte. Invece, e forse non basta ancora, abbiamo bisogno di quella dose da cavalli, e di entrare in un meccanismo mediatico che sembra un gioco. Seppur terribile, un gioco.

Piccola chiosa moralista, destinatari quelli dell’Espresso.

I dubbi sull’operazione mediatica li avete avuti pure voi, immagino. Sapevate che era un azzardo. Se servirà a qualcosa bisognerà dirvi grazie. Su quella pagina web, però, almeno su quella, per il tempo di quelle 82 ore, la finestra pop up che si apre sovrapponendosi a quel corpo nudo e abbandonato per pubblicizzare la nuova Audi A3, ecco, quella no.

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Il bacio di Klimt e il bacio di Tlili

Non ho passato al setaccio il web, lo ammetto, quindi magari qualcuno l’ha già notato e fatto notare, e meglio di me.

Gli atleti paralimpici non piangono. Quando salgono sul podio sono soltanto felici, raggianti, fieri, travolti dalla soddisfazione. Ma lacrime quasi zero, al massimo qualche naso che si arriccia ma è poca cosa. Anche se è la prima volta, anche se è la diciottesima in diciotto gare. Anche se è l’ultima di una lunga carriera, anche se un anno fa erano praticamente morti o immobilizzati su un letto. Al contrario, i loro colleghi olimpionici allagavano i podi, facevano sbavare i trucchi, inzuppavano le tute. Anche se la vittoria era scontata, anche quelli che nella vita son rudi poliziotti.

Indimenticabile la premiazione della tunisina Raoua Tlili, oro nel lancio del peso, categoria F40. 22 anni, affetta da nanismo, la bella Raoua ha lasciato che l’anziano e austero signore cha la stava premiando si chinasse su di lei, anche se i suoi piedi poggiavano “sul gradino più alto”, per far scorrere il nastrino della medaglia tra i suoi capelli meshati, si è lasciata stringere la mano e – chissenefrega del protocollo – gli ha stampato un bacione sulla fronte.

Una medaglia in cambio di una medaglia.

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Town of runners

A Bekoji gli abitanti aspettano che i cinesi portino a termine i lavori di costruzione della strada. Nel frattempo, si accontentano di quella che in sostanza è una pista di terra – rossa e infuocata sotto il sole cocente, marrone di fango nei giorni della pioggia. Le vie della città vedono sprofondare nelle pozzanghere i carretti trainati dagli asini, oppure scappare le galline inseguite dalla polvere nei giorni secchi del vento. Nel piccolo bazar un ragazzino orfano vende sigarette sfuse e caramelle. Davanti ai suoi occhi ad ogni ora del giorno mulinano decine di gambe svelte, passa il treno di quelli che corrono, scorre il futuro della Town of runners.

Bekoji, Etiopia. Città senza strada, raggiunta a fatica da una piccola corriera stipata di corpi e bagagli e colori. Bekoji, fucina di medaglie olimpiche: 8 ori in una quindicina d’anni. È come se a Wimbledon avessero vinto per 8 volte e in poco tempo tennisti di Bergamo. Di una Bergamo minuscola e senza vie di comunicazione, però. Un assurdo statistico.

Nella Town of runners non esiste una pista di atletica. C’è solo un circuito scavato in una collina, che ogni anno ragazzi e ragazze risistemano sradicando zolle d’erba a mani nude. Arrivassero i cinesi con la strada d’asfalto, pensano, almeno potremmo chiedere loro in prestito gli attrezzi giusti, ed evitarci la faticaccia di inizio stagione. Però intanto ridono, nelle loro coloratissime tute da ginnastica con le ginocchia bucate. Alcuni indossano scarpe, altri corrono scalzi. I 1500 metri in cui competono sono misurati a spanne, sulla pista le corsie vengono tracciate con il gesso, soltanto la campana dell’ultimo giro non ha nulla da invidiare a quella delle Olimpiadi.

Tra i giovani che si allenano, dopo aver aiutato le famiglie nei campi, agli ordini di un maestro e allenatore dai modi bruschi ma paterni, spiccano Hawii e Alemii, due ragazzine molto promettenti. Allegre e spiritose, sulla linea di partenza si trasformano, fanno la faccia seria e il segno della croce, poi il vuoto.

I genitori di Alemii non hanno mai visto correre la figlia. La loro vita finisce a sera davanti al piatto di grano abbrustolito e diviso meticolosamente tra la numerosa prole. Non sanno cosa racchiudano i quaderni che la giovane runner sfoglia quando non si allena e non lavora, importanti per prepararsi ad un futuro di viaggi, per cavarsela anche fuori dall’ovale dell’atletica leggera. L’allenatore spiega alla madre, giovanissima vecchia, che Alemii potrà rendere onore alla città e all’intera patria, proprio come ha fatto Tirunesh, nata a Bekoji nel 1985. “Ah, la figlia dei Dibaba”. È estraneo a quella donna lo splendore delle medaglie d’oro, ma brilla il ricordo di un’altra madre, una persona per bene, di grande onestà.

Hawii e Alemii lasceranno Bekoji. Le vere società sportive hanno sede in città più grandi, consegnano ai loro membri tute di un unico colore e se va bene un pasto al giorno. Spesso i soldi scarseggiano, lo stato punta sui giovani runners ma la corruzione dilaga e la disorganizzazione la fa da padrona. Poche e pochi ce la faranno davvero, avranno testa oltre che gambe, solcheranno con le loro falcate la gomma e le resine poliuretaniche, negli stadi delle grandi capitali dell’atletica.

Era una storia che mi mancava, questa, e mi ero ripromesso di scovarla. Non è stato facile. Ho dovuto farmi spedire un dvd da oltremanica, sull’onda dei Giochi appena conclusi. Il documentario finisce con l’arrivo dei cinesi. Con loro il nero dell’asfalto, nuovi negozi e un’antenna per i cellulari, oggetti che ancora nessuno a Bekoji possiede.

Possiedono solo sogni, a Bekoji, e questa storia.

 

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Le ragazze di pagina 16 e 17

La ragazza di pagina 16 cammina sicura. La mano in tasca è innaturale e forse serve soltanto a far capire che c’è, una tasca. Ha possenti bracciali e stivali fiammanti: accessori da supereroi.

La ragazza di pagina 17 è ferma sulla soglia della casa d’appuntamenti in cui lavora. È truccata e sfoggia orecchini appariscenti.

La ragazza di pagina 16 ha lo sguardo da dura, proporzionato al suo incedere determinato.

La ragazza di pagina 17 accenna un sorriso e sembra quieta, in pace.

La ragazza di pagina 16 ha i capelli nel vento.

La ragazza di pagina 17 ha la testa coperta da un velo, ma davanti scappano rigogliose manzoniane “ciocchettine di neri capelli”.

La ragazza di pagina 16 fa la modella. Nella fattispecie sta posando per la griffe LALTRAMODA (www.laltramoda.it).

La ragazza di pagina 17 è la protagonista di un reportage dal Bangladesh di Ettore Mo (non leggo abitualmente il “Corriere”, ma mai trovato un suo pezzo che finisca lì, che non abbia la dicitura “continua…”), e fa la sex worker, la prostituta.

La ragazza di pagina 16 con tutta probabilità sta attenta alla linea e ha una gran paura di ingrassare.

La ragazza di pagina 17 prende abitualmente l’Oradexon, una cow pill, una pastiglia per le vacche. Dona in poco tempo rotondità inaspettate, quelle che piacciono ai clienti di quella parte del mondo. Si dà ai bovini perché ingrassino in fretta. Agli umani provoca diabete, sfoghi cutanei e atroci mal di testa.

La ragazza di pagina 16 e la ragazza di pagina 17.

Il caso ha voluto che si guardassero stamattina sulle pagine dello stesso quotidiano. Impossibile non notarlo. È proprio così: si scrutano, da pagina 16 a pagina 17 e viceversa. Si può tirare una linea con la squadretta, da occhi ad occhi.

Nessuna morale, nessuna considerazione sulla “globalizzazione dei diritti” questa sconosciuta.

Solo un quadretto, una piccola illuminazione. Prima di continuare con pagina 18.

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Solo FORZA PURA, nessuna FORZATURA

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Il giornale su cui scrive Aldo Cazzullo è lo stesso su cui scriveva Pier Paolo Pasolini. Uno che amava le posizioni scomode, uno che capovolgeva i punti di vista. Facile dire oggi quanto vedesse lontano, quanto le sue parole fossero profetiche. A quelli che c’erano già, probabilmente gli editoriali del poeta facevano venire la gastrite, o dei gran giramenti di balle.

Aldo Cazzullo, turbato forse dagli eccessi retorici di qualche collega, ha detto la sua sulla partecipazione di Oscar Pistorius alle Olimpiadi londinesi provando a pasolineggiare. Risultando decisamente più cinico che profetico.

Già dall’incipit è evidentemente “in posa”.

«Vi è parso che la presenza di Pistorius alle Olimpiadi fosse una bella storia innestata su una forzatura? Non siete gli unici. Sono d’accordo con voi».

Sa di mentire, il giornalista. Sa che l’opinione pubblica – più o meno a conoscenza della vicenda sportiva dell’atleta sudafricano – non ha affatto maldigerito quella presenza sulla pista, sa che certi dubbi da tempo non li solleva più nessuno e che forse può convenire a lui, risollevarli, sul giornale della domenica.

Fin qui tutto lecito, è compito della stampa pungolare i lettori e non grattar loro sempre e puntualmente il pancino. Sono le argomentazioni messe in campo nelle righe successive, a rendere pessimo il pezzo di Cazzullo.

Sulle questioni “tecniche”, sulle presunte distorisioni ai regolamenti di gara che la partecipazione di Pistorius provocherebbe, ha fatto per l’ennesima volta chiarezza Claudio Arrigoni

Ma c’è dell’altro: l’inviato del “Corriere” sente puzza di marketing. Pistorius ha degli sponsor che in questi giorni più del solito lucrano sulla vicenda umana del quattrocentista. Buongiorno Cazzullo! Benvenuto sul pianeta terra. Il giornalista pochi giorni fa ha elogiato con enfasi (e a ragione!) le gesta di Velentina Vezzali; se tuttavia applicasse lo stesso arido cinismo al caso della schermitrice jesina, giungerebbe alla conclusione che la nascita del celebrerrimo piccolo Pietro, 7 anni fa, fosse finalizzata alla creazione del mito dell’atleta-mamma, funzionale all’immagine della barretta ai cereali, leggera e nutriente, del marchio Kinder. A noi piccoli pasolini non la si fa. Sia dunque vietato agli atleti disabili di firmare contratti di sponsorizzazione (vade retro, Satana!) con chicchesia, e già che ci siamo alle madri spadaccine di figliare.

Sfugge inoltre a Cazzullo, il messaggio che Pistorius lancia quotidianamente al mondo dei disabili (sommati “la terza nazione del mondo”, per citare la suggestiva metafora di un bel libro), e invita tutti a guardare piuttosto all’esempio del ministro tedesco Schaeuble. Il giorno che un ministro dell’economia disabile si affaccerà sulla scena politica italiana, tuttavia, Cazzullo-Pasolini ci dirà che stiamo cedendo a qualche misteriosa forzatura.

Il perché secondo me Oscar Pistorius avesse diritto di partecipare alle Olimpiadi l’ho scritto 4 anni fa, alla vigilia di Pechino 2008. Non ho cambiato idea.

Come segnala Arrigoni, sulle pagine dei social network con cui l’atleta sudafricano comunica con i suoi tanti fan e follower non campeggiano soltanto i baffetti dello sponsor e nemmeno i suoi slogan ammiccanti. (Altra furbata di Cazzullo: “nothing is impossible”, usato nel suo articolo, non appartiene alla Nike di Pistorius, bensì, come sanno i ragazzini, all’Adidas. Ma all’autore serviva la parola “impossible”, e quindi l’unica soluzione era imbrogliare, operare – lui sì – una piccola forzatura: Just do it).

C’è una foto. Che la dice lunga. Lunghissima.

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Once upon a time, Tirunesh Dibaba

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Tirunesh Dibaba sta sul palmo di una mano.

Il problema, dopo averla raccolta, sulla linea del traguardo, è che ricomincerebbe a correre, risalendo l’avanbraccio e il braccio come fossero altipiani.

Tirunesh Dibaba quello fa, corre. Anche dopo aver trionfato, abbraccia qualche collega – senza trasporto,  di corsa – riceve una bandiera dell’Etiopia e ricomincia a mulinare le gambe. Il volto è impassibile, sta volando sulla prima corsia, ma l’espressione è quella di una bambola antica appoggiata sopra un letto.

Tirunesh ieri sera ha fatto qualcosa di straordinario, ma non se l’è filata nessuno. Solo qualche lancio d’agenzia. Nessuno che raccolga la sua storia. La poesia l’ho vista solo io e confesso di sentirmi solo.

Tirunesh Dibaba forse non esiste, forse è una fata che compare solo a me, come in un sogno, tra uno scampanìo da ultimo giro di pista e un “c’era una volta” con la voce di Franco Bragagna. 

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Gore Vidal l’americarnico

Nel paesino dove insegno abitano un bel po’ di persone che di cognome fanno Vidale. “Vidale” è anche il nome dell’unico panificio rimasto, appoggiato alla curva da cui chi proviene dal Friuli può scorgere per la prima volta, da lontano, Scuolamagia.

Ricordavo di aver letto da qualche parte, on line, la storia di Gore Vidal che raggiunge Forni Avoltri sulle tracce dei suoi antenati italiani, e proprio in quel panificio sosta brevemente per incontrare coloro che probabilmente conservano con lui un seppur sbiadito legame di sangue.

È il 1977.

Lo zio, Michele Vidale e GoreIl divo della letteratura (e del cinema, e della saggistica, e…) indossa una giacca scura. Ha già fatto la guerra, è stato candidato al Congresso, ha sceneggiato Ben Hur, ha recitato in un film di Fellini (nel ruolo di sè medesimo), ha scritto il suo capolavoro.

È il 1977.

Quell’uomo si sveglierà ancora per molti anni con davanti un panorama mozzafiato, si divertirà a fare a fettine il suo paese, solleverà dubbi sulle dinamiche dell’11 settembre, reciterà – per interposto pupazzo giallo – in alcuni episodi dei Simpson.

Digitando il nome dello scrittore su Google, dopo aver cliccato sulla barra spaziatrice, si può usufruire dei suggerimenti del motore di ricerca, immagino basati sul calcolo statistico delle chiavi inserite con maggiore frequenza dagli utenti. “Gore Vidal Gay” viene prima di “Gore Vidal Libri”. Ci sta: fu anche una testimonianza di profonda libertà individuale, la vita di questo americano. 

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Wallenberg medaglia d’oro

Ci sono medaglie che arrivano subito, il tempo di indossare una tuta, detergere il sudore, darsi una sistemata ai capelli e approssimarsi al podio. Così presto che spesso gli atleti dichiarano: “sono andato a dormire con la medaglia, e solo il giorno dopo mi sono reso conto di avere vinto”.

Ci sono medaglie che arrivano con quasi 70 anni di ritardo. Così tardi che i premiati non possono più chinare il collo, stringere i fiori nel pugno, storcere il naso per le lacrime che spingono come piene di fiume.

Ci sono le medaglie olimpiche e in uno strano cortocircuito lessical-metaforico, nel luglio di London 2012, ci sono le medaglie al valore e alla memotia come quella che gli Usa, dopo la firma apposta da Obama, hanno deciso di dedicare a Raoul Wallenberg nel centenario della nascita.

Wallenberg, svedese, campione mondiale di filantropia, salvò dallo sterminio 100.000 ebrei ungheresi. Le enciclopedie arrotondano, va da sé, e “centomila” è il risultato di un arrotondamento che quasi banalizza il significato di un record difficilmente eguagliabile.

Si perderà in questi giorni la notizia, tra i tanti titoli dei giornali piovuti direttamente dalle piste, dai campi, dalle pedane, dai tatami. “Oro per Wallenberg” e chi lo conosce? Sarà un arciere svedese, al massimo un pesista danese, peccato per gli italiani…

Strano, ripeto, il cortocircuito. Tuttavia, portandolo alle estreme conseguenze, si può forse immaginare “quell’uomo dall’aspetto serio e ordinato, la riga di lato e un po’ di riporto: una fisionomia difficile da trasferire nel bronzo delle statue”* salire il gradino più alto di un podio speciale.

La tuta gialla e blu della Svezia e gli occhi ad ammirare i bei colori delle bandiere degli avversari, ché i filantropi son fatti inguaribilmente così.

 

*: qui da noi un ricco racconto dell’avventurosa vita di Wallenberg l’ha fatto pochi mesi fa Adriano Sofri, nell’inserto domenicale di “Repubblica”. 

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Dott.ssa Cicciuzza

Finché un giorno, vai tu a ricordare il perché, ho cominciato a chiamarla Cicciuzza.

Correvano gli anni scolastici 2000-2001 e 2001-2002 ed ero il suo insegnante – precario – di lettere, in seconda e in terza media. Anni mica da ridere: sono entrato in classe e dopo pochi giorni stavamo discutendo tra i banchi, anche con Cicciuzza, di cosa diavolo fossero Erica&Omar; sono rientrato in classe dopo l’estate e sul registro avrei potuto scrivere: “Undicisettembre: e adesso chi glielo spiega?”.

Devo a Cicciuzza, la Cizziuzza dell’epoca, preziosi insegnamenti. Una mattina, ad esempio, mi sente rimproverare una compagna che per la terza volta in un’ora mi ha chiesto di andare al bagno, mi sente dirle che “non è possibile che una persona debba andare alla toilette ogni venti minuti, ecchediamine…”, mi sente, si avvicina e mi spiega pacatamente ma con fermezza che a una donna – sono persone, le donne, no? – IN DETERMINATI GIORNI capita eccome di dover ricorrere così frequentemente ai servizi igienici. Sulla fiducia, Prof., davvero: capita. Da quel giorno nelle mie ore le ragazze escono dall’aula senza chiedere il permesso, suppergiù.

Devo a Cicciuzza e alla sua classe, inoltre, la sorpresa di un ragionamento diventato col tempo concreta realtà: NON AVREMMO DOVUTO PERDERCI DI VISTA, una volta percorso quel fugace ciclo scolastico. Ci eravamo incontrati e quell’incontro non doveva fermarsi davanti ad un tabellone con un foglio e la scritta “licenziato-licenziata”. Non ci credevo, ma avevano ragione.

Crescendo, Cicciuzza è diventata una liceale, ma soprattutto una meteorologa. La mia meteorologa. Dopo la sveglia per andare a scuola, alle 6.00 di mattina, controllava quale fosse il clima nel suo incantevole paese di montagna, per avvertirmi puntualmente in caso di nevicate. A volte bastava uno squillo, a volte un messaggino segnalava: “15 cm”, “35 cm”. Io, già alla guida, mi comportavo di conseguenza, rallentando o eventualmente ripiegando su un più sicuro mezzo pubblico. È capitato che fosse così solerte da allertarmi anche il giorno precedente, se la nevicata aveva avuto inizio col buio. Da qui il proverbio “Cicciuzza di sera…, prendo la corriera”.

Il suo trasferimento in città per proseguire gli studi dopo il liceo è stato per me un vero dramma. Tanti carissimi alunni hanno provato a sostituirla nel gravoso compito; di nessuno mi sono mai fidato completamente come di lei.

Oggi Cicciuzza è diventata la dottoressa Cicciuzza. Si è laureata, ha disquisito di “intelligenza dei sussidi didattici” davanti ad un agguerrito plotone di docenti universitari e mi ha fatto commuovere come non credevo. È stata la prima, tra i miei ex alunni. Meritava una menzione sulla Pozzanghera, concorderanno i 25 lettori.

Cicciuzza che da quel giorno, vai tu a ricordare il perché, ha cominciato a chiamarmi Cicciuzzo.

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Cineserie, Res cogitans, Soletta, Stream of consciousness, Tutte queste cose passare

La mia Cina (RISTAMPA)

Esattamente cinque anni fa scrivevo questo testo, nel primo anniversario di un viaggio importante. Composto quasi di getto, con urgenza. Paga lo scotto di una certa ingenuità, ma condanna senza appello un (cosiddetto) blogger che oggi, talvolta, fatica a radunare i caratteri che servono per un tweet.  

Partire sì, ma da dove? Dal mio volo a planare, il primo di tutta una vita. Sotto di me: metropoli a perdita d’occhio. Quartieri a prima vista ordinati: il gruppo dei palazzoni gialli, le mille casettine grigie come un alveare, un fiume, una ragnatela di strade. Ma anche campi e un verde cupo. Mentre le mie ali si stanno immergendo in una foschia densissima, gusto la sorpresa di non temere il volo, né gli atterraggi né i decolli. Sarà merito dei piloti austriaci, maschere di flemma ed efficienza, sarà che i timori sono altri, in primo luogo la burocrazia dell’arrivo. I passaggi da compiere nella città-aeroporto, la rincorsa degli sconosciuti compagni di viaggio che incedono con sicurezza, poi immancabilmente persi uno ad uno. Dov’è finita la rossa con la valigia rossa? E quello col pancione? Merda, tocca affidarsi ai cartelli. Non mi stupisce – seconda sorpresa – la marea di occhi a mandorla posti sopra bocche da cui escono parole come musiche, mi sconvolge invece la scoperta dell’esistenza di scale mobili orizzontali che non salgono e non scendono, vanno e trasportano carichi umani lungo corridoi infiniti. Ma i miei piedi sono più veloci e ansiosi, stare fermo davvero non so. Recuperata la valigia e mostrato il passaporto a un buon numero di doganieri accigliati (e sudati), esco dalla città aeroportuale, varco la soglia dell’aria condizionata e mi immergo in…, nel…, nella… Insomma, mi dico, taci e nuota.

 

Quello che vedo non appena il taxi lascia la banchina davanti al Beijing International Airport non ha nessuna forma. È pura vita che scorre, un fiume di corpi, una giostra impazzita di mezzi meccanici, un flusso atomico costante senza speranza di clinamen. Vabbé, c’è un grande e incasinatissimo traffico. Diventerà un rumore di fondo, un ambiente abitudine, diventerà mio.

Quello dell’umano formicaio è il più classico dei luoghi comuni sulla Cina. Sento di fare mie e di riferire a Pechino, invece, le parole che Lisa Ginzburg, nel suo saggio sulla malìa brasiliana (Malìa Bahia, La Terza) che mi accompagna mentre scrivo, riserva e regala al paesaggio di Salvador de Bahia: “nonostante i molti luoghi affollatissimi, si ha sempre la percezione di avere intorno molto spazio. Spazio per la mente, per il corpo; per il cuore, per la maturazione delle cose. Spazio per il tempo”.

 

Da dove cominciare la mia esplorazione metropolitana? La guida in inglese che sfoglio è fin troppo generosa nel regalare luoghi e dettagli. Palese è l’imbarazzo di una scelta che non so fare, ne esco con una decisione che spiazza prima di tutto me stesso: lo zoo. Lo zoo di Pechino. Pronuncio, e mi vergogno all’istante, l’osceno calambour: Noi, i ragazzi dello zoo di Pechino.

Una costante di questo mio viaggio è l’assenza nel mio bagaglio di esperienze precedenti analoghe, utili a stabilire confronti e relazioni e misurazioni. Quello di Pechino, insomma, è il mio primo zoo e ci entro come un bambino goloso di esotiche stranezze. Osservo compiaciute evoluzioni scimmiesche, balneazioni ippopotamesche, l’agonia di animali malcustoditi (ma possono esserlo, in uno zoo, bencustoditi?). Leggo negli occhi tristi di un orso in un fossato, vedo la rabbia ruggente di un leone. La gigantesca tigre ruota su se stessa in una stanza minuscola, il folle e inarrestabile girare non ha sfondo se non nel cemento grondante di piscio. Le star della struttura, inevitabilmente, sono i panda. Per l’animale orgoglio della nazione c’è uno zoo dentro lo zoo, la Casa dei Panda, con apposito ulteriore biglietto d’ingresso e tonnellate di merchandising. Per somigliare ai dolci protagonisti del logo del WWF i panda pechinesi andrebbero lavati (sbiancati) e stirati. E dovrebbero smettere di leccarsi il culo.

Un’immagine su tutte, tra un facocero e una scolopendra: l’immagine di un umano. Una bimba adagiata su una panchina, immersa in un sonno profondissimo, immobile simbolo di una flemma che noterò spesso nei giorni successivi, quella sinica capacità di adattarsi – al momento di scivolare tra le braccia di Morfeo – a qualsiasi suolo e a qualsiasi suono. Chi accudiva il “cadaverino”, intanto, mangiava e chiacchierava nemmeno troppo vicino. Chissà quali sogni, probabilmente quelli di tutti i bimbi del mondo al cospetto del mondo animale: cavalcate di leone o bagnetti sotto la proboscide dell’elefante.

 

Spostarsi, muoversi, attraversare. Il mezzo preferito è il taxi. A Pechino un’auto su dieci è una Hyundai Elantra. Una berlinetta di poche pretese, ma piuttosto silenziosa e di norma dotata di aria condizionata. I taxisti hanno facce stanche e camicie sudate, decisamente seriosi ti guardano anche dal tesserino appeso al vetro, che li abilita al faticosissimo servizio. Fa caldo e molti hanno stipato da qualche parte il termos con il te. Le Elantra sono gialle e marrone, gialle e verde, gialle e blu. Basta alzare un dito e loro arrivano.

Della metropolitana ricordo le scalinate e le persone sedute su pavimenti indecenti. Ricordo il mocio più grande del mondo, consunto e inutile alla sua causa, una specie di piovra gigante. (Ogni luogo ha il suo mocio, in Cina: mocio da ufficio, mocio sull’autobus… Utilizzarli, poi, quello è un altro discorso…) Ricordo la ressa all’arrivo dei vagoni, il poliziotto chiamato a regolare bruscamente le salite e le discese. Ricordo le gigantografie sulle pareti, immagini d’occidente per chi sogna Beckham o stravede per Cristiano Ronaldo. Ricordo l’uomo che sale sul treno per esibire la mostruosità del suo corpo mutilato, bruciato in chissà quale tragedia industriale, sciolto da chissà quale acido. Non chiede nulla e canta (sì, canta) con un piccolo microfono la sua sete di giustizia. Ricordo la netta percezione di una società più giovane rispetto a quella dalla quale provengo. Mi rendo conto che i ritmi dell’underground probabilmente non si sposano con la terza età, ma davvero pochi passeggeri sono più vecchi di me.

Salire su un autobus (che spesso – contrariamente al taxi – è guidato da una donna) è come salire su un vascello pirata. Ti accoglie l’urlo dei bigliettai: “uomini della filibusta!!!”. Molti mezzi pubblici sono decisamente moderni e funzionali, la conservazione di 2 “vedette” abbarbicate ai sostegni metallici, con borsa a tracolla piena di spiccioli, corrisponde a politiche occupazionali che nella mia ottica di europeo paiono assurde. Avessimo mantenuto anche noi, il bigliettaio-controllore! Ci saremmo risparmiati il verbo “obliterare”.

Le grandi arterie cittadine scorrono sotto numerosi ponti pedonali. Il traffico è un fiume che non si può fermare. Come faccia un cinese in carrozzina a passare dall’altra parte me lo chiedo soltanto adesso, un anno dopo. Decisamente fuori tempo massimo. Gli attraversamenti pedonali sono tutti uguali: sali le scale, cammini sopra le macchine, scendi le scale, sei dall’altra parte. Uno di questi ponti, però, è speciale. Apparentemente è soltanto architettonicamente un po’ meno spigoloso, ma sostare un attimo sul suo camminamento orizzontale è come toccare il cuore della metropoli, sentirlo battere.

Sostiene Renata Pisu che Pechino sia la vittima di un urbicidio, ma che goda nel contempo del fascino di Maurilia, città invisibile di Italo Calvino, dove il viaggiatore “è invitato a visitare la città e nello stesso tempo a osservare certe vecchie cartoline illustrate che la rappresentano com’era prima…”. Un luogo dove il caotico e disordinato presente risulta indispensabile perchè si staglino netti i fasti del passato, perchè trovino senso. Beijing, capitale del nord, capitale della nostalgia.

 

Prosegue il viaggio, prosegue dentro una parentesi di magia. È così che sento di dover classificare la visita al Palazzo d’Estate, antica residenza imperiale: una sorta di luogo incantesimo. A discapito del nome, l’unico rammarico è quello di non esserci potuto andare d’inverno, con il lago ghiacciato, l’affluenza ridotta dei turisti chiassosi, lo skyline della città frenetica sullo sfondo silenzioso, le foglie e il vento. Le foglie e il vento, soprattutto. Salire le scale del palazzo è un privilegio non concesso a tutti, come nel caso dei Panda allo Zoo si tratta infatti di pagare un ingresso supplementare. Ridicolo pedaggio che evidentemente per i cinesi presenti in massa risulta ancora proibitivo. Sul legno laccato di fresco godo di un insperato silenzio e leggo qualche pagina dell’autobiografia di Filippo Timi, Tuttalpiú muoio. Non è il libro più adatto, mi rendo conto, ma sento forte in bocca il sapore romantico di un gesto che mi toglie d’un tratto la ripudiata patente di turista e mi regala quella della persona che voglio essere e così raramente mi accade di essere. Al mio fianco altri occhi leggono e consumano Caos calmo, che sarebbe un bel titolo anche per questo pezzo di storia.

 

Piazza Tien an men la ricordo infuocata. Il sole a Pechino non si vede mai ma c’è eccome. E fa chinare la testa, e fa agognare l’ombra. Appunto, dove la trovi un’ombra a Piazza Tien an men? Ci sono le ombre del passato, quelle sì, le immagini che hai visto ma che non ti hanno fatto mai capire davvero quello che era successo. C’è l’ombra del carrarmato e del fragile ostacolo umano capace di arrestarne l’incedere, la foto che ho fotocopiato alla classe dicendo appiccicatela sul quaderno, è un’immagine importante, è più di un’immagine, è un simbolo. Ora sono lì, e vedo i militari di guardia, immobili ed eleganti più che altrove, vedo un paio di aquiloni, vedo i raccoglitori di bottigliette vuote con il loro sacchi ingombranti, vedo i turisti americani con le magliette dai colori osceni. Fischietto o canticchio la canzone di Claudio Lolli: “…e queste rose volano, non sanno nulla della rivolta in cui si sono aperte, del sangue invaso di bandiere…”. Riconosco me stesso anche in un pensiero banale: me l’immaginavo più grande, la piazza più grande. Me l’immaginavo infinita, invece finisce…

 

Il Grande Timoniere, intanto, dall’ingresso della Città Proibita guarda e non è granché guardato. Forse gli spetta il destino di tutti gli dei in questo tempo confuso. Meglio così, e beato quel popolo che non ha bisogno di eroi.

All’interno della Città Proibita mi sento più che mai attore nella commedia del turismo. Un copione che decisamente non apprezzo. Proprio oggi leggo della chiusura del caffè Starbucks, pezzo si Stati Uniti nel cuore della vecchia dimora imperiale. È la globalizzazione, baby, vuoi mettere le catene al vento, vuoi raccogliere l’acqua con lo scolapaste? In realtà, credo sia un’altra la Cina da proteggere, da incellophanare e custodire. E poi – consapevole di rischiare l’impopolarità – difendo la torta al formaggio di Starbucks, più buona dal vivo che nei telefilm made in Usa.

 

La giovane donna possiede un’automobile di cui sembra fiera, è climatizzata e più pulita di un taxi. Tiene anche una famiglia, mentre guida risponde al telefono e impartisce indicazioni domestiche ad un figlio. Una madre, insomma, che con quella macchina di solito accompagna il bimbo a scuola, va a fare la spesa e scarrozza abusivamente viaggiatori stranieri nel loro lieto peregrinare. Un modo come un altro per arrotondare lo stipendio del marito, è sufficiente trovarsi nell’angolino giusto della città e capirsi al volo – occhi a mandorla negli occhi non a mandorla – pattuire un compenso, stabilire un orario e un luogo. Nella mia fattispecie, il luogo si chiama Grande Muraglia. Baricco è venuto a scriverci il finale del suo saggio a puntate sui “nuovi barbari”, per dire come il mondo sia cambiato e non ci sia barriera che tenga, di mattoni o di idee. Io mi accontento di vedere quello che mai avrei pensato di vedere e di trascorrere una giornata all’aperto sotto un cielo bello e blu. Forse andrebbe davvero guardato dallo spazio, il monumento serpentone, simbolo dell’identità di un popolo, per percepirne la grandezza e la follia. Probabilmente estrapolare il senso di quella lunghezza impensabile non è impresa per noi umani con i piedi per terra. Insomma, sai che dietro la montagna, dove si sfoca e si perde, la muraglia continuerà, e poi ancora, e poi ancora… Sai, d’accordo, ma non vedi, e allora sei di nuovo davanti ad un’astrazione, ad una linea che diventa tratteggiata quando il foglio sta per finire e bisogna far capire che però continua. Mi sento come Borges che voleva vedere TUTTE le formiche del mondo, e tutte in una volta. L’orizzonte è limpido, tutt’attorno alberi, colline e montagne. In certi punti le scale salgono ripide, scendendole le gambe tremano, la schiena sudata soffre le sferzate del vento che mi piace pensare venga dalla Mongolia. Sì, non può venire che da lì, da laggiù, da quel lontano che spio come Giovanni Drogo, ma senza ansia e dentro tanta pace.

Raggiunto il parcheggio sono assalito dalla “piccola violenza” inflitta alla mamma taxista. Il compenso è stabilito alla partenza, è ovviamente bassissimo e non comporta limitazioni orarie. Se le mie pippe sul tempo e le distanze, la geografia e la geometria fossero durate altre tre ore, la signora avrebbe atteso paziente messaggiando un po’ e maledicendomi forte. Lavo la mia coscienza di schiavista con una lauta mancia, secondo me Baricco non ha fatto altrettanto.

 

La Cina è un grande mercato. No, nessuna analisi macroeconomica. Puro esercizio di osservazione spicciola attraversando le brulicanti strade di Pechino. All’angolo la signora con le mani sporche di lavoro e la faccia più pulita del mondo ti offre le sue pesche esposte sul piccolo carretto. Un pezzo di Cina rurale trapiantato a forza tra i palazzoni e gli ingorghi del traffico. Da tempo, infatti, i vecchi mercati all’aperto hanno traslocato in enormi e più confortevoli strutture coperte, senza perdere la loro vitalità e il loro disordine. Inutile cercare un tentativo di coordinamento, i piccoli esercenti crescono uno sull’altro, espongono spesso gli stessi prodotti, ammiccano al cliente con le stesse esche. Un tripudio di merci, colori, odori, rumori e strilli. Qualcuno tratta sul prezzo, qualcun altro vuol provare dei jeans ed ecco la commessa improvvisare una “cabina” con uno spago e un telo, qualcuno mangia, qualcun altro dorme (dorme?). Ragazzi e ragazze assalgono le merci esposte come formiche affamate, l’acquistare è un acquistare allegro, i sorrisi non si contano. Assisto all’ebbrezza del capitalismo e alla morte del copyright. Sono testimone, però, anche della libertà di indossare una canottiera fosforescente e una minigonna ascellare. Ragazzine, ragazze e donne fanno la fila per farsi dipingere le unghie, ragazzini, ragazzi e uomini le osservano sgranocchiando una pannocchia. Il panorama iconografico sulle magliette in esposizione va da Mao a Ronaldiño, da Avril Lavigne all’immancabile Panda, dal mio Astroboy e Emily the Strange. In un cantuccio in disparte un ragazzo espone magliette con un’enorme svastica. Interpellato sul senso di quella scelta commerciale risponde che sa cosa rappresenti quell’articolo in vendita e con la faccia un po’ ebete ha l’aria di dire ‘mbeh?…    

 

Facile raccontare un monumento, un grattacielo, un fiume. Ma come si raccontano le persone? Se mancano gli strumenti – e le certezze – per scomodare categorie sociologiche, per abbozzare riflessioni antropologiche. Se troppo poco è stato il tempo che vola e ti sguscia dalle mani. Al massimo si può rivolgere lo sguardo a qualche immagine rimasta impressa nella memoria, materiale grezzo che andrebbe filtrato e setacciato con gli strumenti della Cultura. Ma questo passa il convento: soltanto le mie impressioni. Rivedo la mia Prof. del Liceo che ammonisce me e i miei compagni, in partenza per Praga, gita scolastica: “…dovete parlare con le persone del luogo, con i praghesi, altrimenti viaggiare non ha nessun senso…”. Ma Prof, e i monumenti, e le piazze, e i ponti, non basta guardare quelli? No, no, no, non bastava. Così, anche se non parlo, guardo, guardo forte, voyeuristicamente osservo tutto e registro e confronto.

Vedo ragazzi, leggeri e colorati come aquiloni, incontrarsi la sera e ridere in allegri capannelli, scherzare seduti per terra attorno a uno spiedino di carne cotta sul posto. Vedo ragazze con la gonna a fiori appese alle biciclette di giovani morosi spericolati. Vedo bambini con i culi per terra – i culi nudi – giocare a rincorrersi, giocare a spararsi. Vedo ammiratissime bambine vestite di piume. Vedo un’infanzia accudita, vedo, e anche se ho letto mille volte della tragedia dei bambini operai, bambini oggetto, mi compiaccio egoisticamente per quello che è stato risparmiato ai miei occhi.

Vedo vecchiette salutare il Sole alle 5 di mattina, vedo ginnastiche collettive intense come preghiere, seguo i passi di un distinto signore con l’hobby di tagliare il vento con la spada, tra una panchina e l’altra del parco, custode di movenze millenarie. Vedo l’anziana signora con la faccia che sembra uscita da un fumetto. Il suo viso è identico a quello di Mr. Magoo e per me diventerà la Signora Magoo. È facile incontrarla, a sera, mentre passeggia nelle vie del quartiere. È una persona minuscola, ma sembra circondata dal rispetto riservato alle autorità. Ed è in effetti una piccola autorità in quello spicchio di città: molte persone si intrattengono con lei palesando grande soggezione. Ecco, quale storia custodisce la Signora Magoo? Mi piacerebbe conoscerla, ed è bello pensare che la metropoli senza anima una Storia così non la riesce a schiacciare.

Vedo gli occhi che non mi vedono di un bambino cieco. Siede a gambe incrociate sul marciapiede davanti al supermercato. Avvolto in una giacca da guardia rossa si muove facendo ondeggiare la testa, mentre il sole affonda nelle sue orbite svuotate di luce. Ascolta il suono delle monete che ogni tanto tintinnano sul fondo del suo barattolo di caffè.

 


L’area dove si svolgeranno i momenti clou della prossima Olimpiade è situata a nord-ovest della città-cantiere. Perplesso davanti alle testimonianze architettoniche dell’antichità (si può considerare “storica” una colonna del 1300 dipinta di fresco con tanto di adesivo della ditta restauratrice?), sbalordisco davanti all’apoteosi della (post)modernità. Mi spaventa un po’, questo invaghirmi di grattacieli di cristallo e spirali di cemento, ma questo accade: percepisco la vertigine dell’uomo piccolo che crea le cose maestose. Per questo non dimenticherò mai le scintille che operai formica spruzzano aggrappati all’acciaio del Nido, l’intreccio metallico che avvolge lo Stadio Olimpico. Un disegno geometrico tanto maestoso quanto apparentemente irrazionale: nessuna simmetria, nessun centro e l’idea impossibile del movimento e della leggerezza. Una cornice perfetta in cui iscrivere l’uomo, magari l’africano che nell’estate del 2008 taglierà a braccia alzate il traguardo dei 5000 metri dentro gli occhi di tutto il mondo. La storia del Nido, fin dal suo concepimento, la racconta benissimo Fabio Cavalera, inviato del “Corriere”, nel suo Il manager dei bagni pubblici.

Pechino non sembra perseguire l’estasi di uno sviluppo verticale. I suoi palazzi non grattano il cielo, non salgono fino alle stelle. La capitale sembra si sia chiamata fuori dalla sfida alla costruzione più alta, nuova febbre asiatica da Kuala Lumpur a Honk Kong, da Tokyo a Shanghai. La capitale ha puntato sulla quantità, concedendosi magari il lusso di qualche mirabilia architettonica nella variatio del tema classico: il parallelepipedo di cemento. Il fotografo Michael Wolf – verificate su Google, mannaggia! – ha avuto la mia stessa idea e probabilmente, gironzolando per Honk Kong, ne sta spremendo quattrini.  Si tratta di mettersi davanti al megacondominio, lavorare di zoom e, soprattutto, escludere dal campo visivo tutto ciò che lo inserisce nel paesaggio: la strada, il terreno, il palazzo vicino, il cielo. Soprattutto il cielo. Per ottenere la casa alveare, la scacchiera di finestre, il labirinto verticale dove tutto sembra uguale e moltiplicato all’infinito. Il trionfo del dato antropico sul dato fisico.

Ovunque in città sorgono, al posto degli antichi hutong, immensi cantieri recintati, attivi anche di notte. Dai cancelli entrano ed escono camion scoperti colmi di operai come merci. Nel baccano infernale di saldatrici e martelli pneumatici, attorno alle cattedrali che stanno sorgendo manovalanze stremate dormono adagiate su qualche muretto aspettando il suono di una nuova sirena. Uomini – spesso poco più che ragazzi – con le facce del contadino inurbato. Assurdo pensare che quella vita senza diritti sia “qualcosa di meglio” rispetto ad un prima.

Se fossi un pittore futurista, pensando a Pechino disegnerei un paesaggio dominato dalle gru, linee rette verticali e orizzontali come luminosi tagli di spada. Se fossi Spielberg scriverei un film sulla rivolta delle gru, coi bracci meccanici impazziti a rifilare mazzate a mulinello sugli umani indifesi. Per fortuna non sono Spielberg. 

 

Il lavoro nel paese del comunismo realizzato. Realizzato e ammorbidito. E diluito. E contraddetto. E stravolto. E…

Il lavoro è ovunque, pullulano le mani occupate. Le mansioni sono parcellizzate all’inverosimile, tutti sono occupati, tutti saranno inevitabilmente lavoratori alienati. L’effetto è parossistico nei grandi supermarket: un cliente a caccia di un rasoio elettrico viene circondato da cinque solerti commessi in divisa arancione. Nel reparto alimentari l’addetta sorridente non conosce la locazione dei detersivi, l’addetta ai detersivi, d’altronde, ignora se nel grande emporio si vendano anche bilance. Nel reparto ferramenta la commessa indica gentile la scatola coi lucchetti e le rispettive chiavi. Al cliente ne servono 4 ed eccola afferrare il pallottoliere per la moltiplicazione. C’è posto anche per lei che non sa contare, nel grande mercato, e questo mi piace. Le metropoli, si sa, risolvono (?) il problema dei rifiuti riducendo alcuni cittadini allo stato di rifiuti. Quello che a San Paolo spesso è deputato ai meniños de rua, a Pechino tocca in sorte a uomini di mezza età che sembrano già vecchi. A bordo di biciclette con le ruote sgonfie e le catene afflosciate percorrono e attraversano le strade trascinando carretti stipati di cartoni, oggetti di plastica, barattolame, pezzi di legno. Alle 8 di mattina come alle 8 di sera. Ogni tanto qualcuno riposa adagiato sul suo mezzo sgangherato, sotto un albero o un’ombra qualsiasi. Attorno ai cassonetti della spazzatura stazionano a turno uomini avvoltoi pronti a raspare nei rifiuti. Il giorno della mia partenza – appena chiusa la valigia – sto gettando un vecchio pigiama dalla lunga carriera, gesto utile a limare qualche grammo al pesante bagaglio che deve andare incontro alla severa pesa aeroportuale. La mano ha già sollevato il coperchio quando due occhi circondati da una faccia senza età si frappongono tra me ed il mio gesto. Con l’aria di chi si scusa consegno direttamente il consunto capo d’abbigliamento nelle mani di quella faccia. Insieme a quel brandello di cotone è stato come se mi sbarazzassi di tutte le notti dormite tra le sue pieghe in un letto caldo e sicuro. 

 

Va scomparendo, mi auguro senza il peso di alcun rimpianto, il mestiere del guidatore di risciò. Qualche bicicletta umana, ruolo ormai relegato al folklore dei luoghi da cartolina, ha cercato nei miei occhi il consenso all’offerta di alleviare la fatica di camminare sotto il sole. Consenso rifiutato, ovviamente, ché non sarei stato più capace di guardarmi allo specchio.

In ogni ambiente lavorativo vigono le regole di un caporalato tanto spietato quanto apparentemente accettato e condiviso. Commesse e camerieri sono sottoposti ad apprendistati militareschi, vengono messi in riga davanti alla clientela (qualora occidentale: attonita) e costretti a ripetere ad alta voce gli ordini impartiti dal principale che sembra il tenente cattivo di un film sul Vietnam. Poi, finita la messinscena tradizionale e confuciana (comunque umiliante), liberi tutti e la cameriera, tra una marea di clienti, potrà tranquillamente mettere le dita nel naso.  

Altro simpatico professionista – indispensabile ingranaggio urbano – è il portatore d’acqua. Con quella del rubinetto a Pechino non è proprio il caso di dissetarsi, ogni abitazione è pertanto fornita di un apposito frigorifero con una grande boccia di liquida salvezza. Rimasti a secco basta comporre un numero e un ragazzino muscoloso (va da sé…) inforcherà il suo carretto, salirà le scale – che siano 15, che siano 1000 – e recapiterà un nuovo pesantissimo dissetante contenitore.

 

Il mio viaggio è stato anche un viaggio nei suoni e nei rumori di una città. Il rumore pesante del traffico.

 

Il rumore dei condizionatori: pressoché ogni costruzione – pubblica e privata, meraviglia architettonica o catapecchia – è provvista di impianto di climatizzazione. Quando i profeti di sventura, d’innanzi ai rischi di black out energetici nelle nostre calure estive, ammoniscono che “verrà il giorno in cui anche i cinesi vorranno il condizionatore…”, ignorano che i cinesi – come dargli torto – hanno già voluto da un pezzo.

La musica della lingua, frontiera invarcabile, aspra nella bocca degli operai che faticano al sole, dolce misteriosa nel canto che sento arrivare da lontano in un pomeriggio d’ozio. Parole come gocce di resina, parole come gocce d’acqua. Io imparo a dire “grazie”, “buongiorno”, “il conto” e “questo…” con il dito sulla figura stampata sul menù. Imparo a dire ma non vale, perché quei suoni si tratta di cantarli nella giusta tonalità.

Il suono affascinante e un po’ inquietante delle cicale (almeno credo) tra i rami degli alberi, a sera, come un sottofondo costante dei ritorni a casa.

Un mondo sonoro è fatto anche si silenzi e di rumori assenti, sottratti. Il suono delle campane, ad esempio. O quello delle ambulanze. In quasi un mese di permanenza mai una sirena e nessuna emergenza. Com’è possibile, in quel mare di macchine, in quell’oceano di gente?  

Il rumore che fanno le pagine di un giornale sfogliato. Le edicole non mancano ed espongono riviste patinate. Pochi davvero, però, i quotidiani sotto il braccio dei cinesi. Più facile incontrarne uno avvolto attorno ad un melone.

 

“Il cielo è azzurro sopra Berlino”. Ha provato a fare il colto e l’originale (forse potrei risparmiarmi certi sarcasmi, io che rimango un ragazzo dello Zoo di Pechino…), il telecronista Marco Civoli la sera del 9 luglio 2006. Nel mio accogliente salotto cinese, quella notte, io non l’ho proprio sentito, invece, il triplice fischio dell’arbitro Luis Medina Cantalejo. L’incomprensibile telecronaca di CCTV, television network of People’s Republic of China, riposava infatti nell’ovatta dell’audio abbassato. Non mi ha mai mosso alcun afflato patriottico, tantomeno calcistico, quindi quella notte la ricordo bella ma bella come le altre, e il rigore di Grosso avrebbe potuto stamparsi sul palo o sulla faccia del portiere senza creare in me alcuno scompenso. Le prime prove degli azzurri le avevo osservate con gli occhi distratti di chi, alla vigilia di una partenza con 400 “p” maiuscole, ha altro a cui pensare. La nazionale di Lippi l’ho trovata oltremodo brutta e sterile e mi è dispiaciuto un po’ che proprio mentre stavo volando sopra l’Asia la Germania abbia eliminato l’Argentina di quel genio di Riquelme, il mio calciatore preferito.

Come fossi anch’io un artefice del trionfo azzurro, ricevo nei giorni successivi congratulazioni e complimenti da cinesi di tutte le estrazioni. Dietro i sorrisi spalancati sembrano dirmi: bravi, avete conquistato la Coppa del Mondo, noi presto conquisteremo il Mondo.

Davvero esilarante il programma calcistico della Tv cinese dedicato ai mondiali tedeschi. La trasmissione probabilmente più vista del pianeta si svolgeva in uno scenario imbarazzante. Uno studio mastodontico e deserto gestito da un trio di “esperti” commentatori. Davanti al tavolone dal quale il terzetto disquisiva di fuorigioco e regola del vantaggio, il corpo senza vita della mascotte del torneo. Giuro, sembrava davvero appoggiato lì senza cura, il leone col capo ciondolante, 20 secondi prima del via della diretta.

(Scorrendo le programmazioni di altri canali pubblici, cioè di tutti i canali, impressiona la potenza di fuoco degli spot pubblicitari – automobili, tantissime automobili – e l’anacronismo di alcune parti del palinsesto. Il canale deputato alla musica, una sorta di Mtv cinese, trasmette musica aggiornata all’anno del mio esame di maturità: 1994. Censura? Sul costume più che sulle idee, si direbbe, se è vero che ho rivisto un antico Paul McCartney cantare in un video sbiadito l’allegra Hope of deliverance. Un limpido inno alla libertà che probabilmente infastidisce il regime meno dell’ombelico di Shakira o del fondoschiena di Beyoncé. Il baronetto inglese, infatti, veste una giacca impeccabile.)

 

Rileggo queste righe e l’effetto è quello di una macedonia appassita. Con pensieri banali come banane annerite, riflessioni scontate come pere marce. Scriverle, però, è stato quasi una necessità, un argine contro la nostalgia e il riaffiorare dei ricordi. Mi conosco, tra qualche anno ritornerò su queste parole e non avrò bisogno di loro perché ricorderò tutto, forse addirittura ricorderò qualcosa in più.  

Nella valigia chiusa del ritorno ho stipato una miriade di domande tutte aperte.

Cos’ho visto davvero?

A cosa condurrà quello che ho visto?

Si conserverà qualcosa di quello che ho visto?

Sono capace di rispettare quello che ho visto?

(Cosa sognano tutti quegli occhi neri?)

Come raccontare quello che ho visto?

Rivedrò di nuovo?

 

Un’ultima frase, indispensabile, prima dell’ultimo punto.

La meta del mio viaggio non era la Cina.

La Cina è stata il più luminoso degli sfondi possibili dietro lo scorrere dei miei giorni migliori.

Eccolo, l’ultimo punto.  

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