Le storie di Scuolamagia

Quella frase sul muro

Uno poi si rilegge e si scopre così antico, così dalibrocuore, così poco postmoderno. E più indulgente di Baricco verso i critici, of course. Tra qualche giorno on line anche i racconti dei miei alunni.

 

 

Ero poco più che un bambino, il giorno che incontrai Irina. Tornato da scuola ero corso come sempre a salutare la nonna, prima di raggiungere i miei fratelli maggiori nella sala da pranzo della grande casa sul lago. L’insopportabile assenza dei miei genitori – impegnati in quel lavoro che mi permetteva lussi non comuni e che mi avrebbe garantito un futuro senza troppi punti di domanda – mi feriva  a morte e la nonna paterna rappresentava per me l’unico rifugio possibile, una tana adulta dove farmi amorevolmente medicare i mille graffi di cucciolo. “Luigi, vieni, ti devo presentare una persona…”. (continua nei commenti…)

 

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2 thoughts on “Quella frase sul muro

  1. Ero poco più che un bambino, il giorno che incontrai Irina. Tornato da scuola ero corso come sempre a salutare la nonna, prima di raggiungere i miei fratelli maggiori nella sala da pranzo della grande casa sul lago. L’insopportabile assenza dei miei genitori – impegnati in quel lavoro che mi permetteva lussi non comuni e che mi avrebbe garantito un futuro senza troppi punti di domanda – mi feriva a morte e la nonna paterna rappresentava per me l’unico rifugio possibile, una tana adulta dove farmi amorevolmente medicare i mille graffi di cucciolo. “Luigi, vieni, ti devo presentare una persona…”. Altissima, i capelli corti e biondi attorno a un viso senza sorrisi. “Si chiama Irina, è la mia nuova badante. Pensa, ha lasciato la sua casa lontana e due bambine piccole per occuparsi di me, una povera vecchietta a cui la vita ha già dato fin troppo. Io l’ho detto a tuo padre che non c’era bisogno, ma lui…”. Mi strinse energicamente la mano, Irina, e quasi la spezzò. Indossava vestiti come quelli che avevo visto buttare a mia madre qualche anno prima, come fossero reperti archeologici di un’epoca lontanissima. E non sorrideva mai. Chissà perché ricordo ancora quella stretta di mano? Forse perché le mani erano a quel tempo l’unica parte del mio corpo che tolleravo e non consideravo inadeguata. Con le mani imparavo a suonare la chitarra e il fatto che suonassi la chitarra mi permetteva, a scuola così come in famiglia, di uscire dal grigio anonimato in cui sarei inevitabilmente sprofondato. La chitarra, una chitarra classica costruita in Spagna da un famoso liutaio, mi era stata regalata da mio padre, per farsi perdonare la partenza per un viaggio d’affari imprevisto capitato proprio durante le vacanze di Natale.

    Irina cominciò a badare alla nonna, ma poi – gravitando io spesso e volentieri nelle stanze della donna che sebbene anziana mi aveva cresciuto come un figlio – inevitabilmente finiva per badare anche a me.

    Fu in un pomeriggio qualsiasi, uno di quelli in cui la serenità sta tutta nel non avere niente da fare, che – tornato in camera per recuperare non so quale giocattolo – la vidi seduta sul bordo del mio letto con le mani sulla mia chitarra. In realtà, mentre percorrevo il corridoio, avevo già sentito giungere al mio orecchio quelle note tristissime e perfette, limpide come le gocce di una pioggia sottile e imprevista. Grande fu il suo imbarazzo, si scusò, ripose lo strumento. Disse che stava pulendo la mia stanza e che non sarebbe mai più successo.

    Presto fui io a chiederle di suonare ancora, mentre la nonna stava riposando e non aveva bisogno delle sue puntualissime cure. Vederla suonare era un miracolo. Niente a che vedere col mio maestro giù in città. Per lui suonare era tutto un fatto di regole e tempi da rispettare, di posizioni rigide, di attenta riproduzione della musica altrui, ché le note erano sette e dopo i Grandi della Musica nulla di nuovo si sarebbe mai potuto inventare. Ogni creatività era bandita e punita con automatiche bacchettate sulle mani.

    Con Irina era diverso. Con lei mi sentivo sciolto, a mio agio. In ogni pezzo che suonava, che suonavamo, non faceva che farmi notare sfumature diverse. Per lei sfumatura era tutto quello che un esecutore poteva regalare di suo ad un brano. Rabbia se era arrabbiato, dolcezza se era quello il colore che desiderava in quell’istante. Mi parlava della scuola per musicisti di Mosca dove aveva studiato prima di rimanere incinta della sua prima figlia, prima di dover riporre la chitarra e diventare una mamma. Non si arrabbiava mai, Irina. Il suo sguardo era sempre severo ma anche paziente. Ogni volta che davanti a lei completavo l’esecuzione di un brano – generalmente mi invitava a stravolgere i canoni che mi erano stati imposti dal mio maestro “ufficiale” – mi ringraziava con un piccolo inchino e passava la sua mano sui capelli che mi coprivano la fronte. Era prima di toccare le corde che scoccava sempre il suo avvertimento solenne, pronunciato nella mia lingua che non era la sua: “Guarda di non sbagliare…”.

    Furono due anni piuttosto sereni, nonostante l’assenza dei miei impegnatissimi genitori. Sembrò tutto precipitare di colpo quando, a pochi giorni dal saggio finale che avrebbe potuto legare per sempre la mia vita alla musica e al mio strumento preferito, mia nonna se ne andò nel sonno, vittima di una stanchezza invincibile accanitasi sul suo fragile cuore. Furono giorni terribili, anche perché al dolore di quella perdita – alla quale mi ero comunque inesorabilmente preparato negli anni precedenti osservando il respiro affaticato della nonna – si aggiunse la consapevolezza del fatto che Irina, venuta meno la ragione del suo lavoro, avrebbe dovuto abbandonare la nostra casa.

    La notizia che la nonna avesse destinato in eredità proprio ad Irina parte dei suoi averi, quasi a ringraziarla per le cure amorevoli, fece imbestialire mio padre e l’addio dalla mia preziosa maestra non poté nemmeno essere celebrato degnamente. Non mi fu possibile abbracciarla, e nemmeno sapere verso quale altra vita si sarebbe diretta.

    Il giorno del saggio, convinto quasi a forza dai miei fratelli, uscii di casa con la testa abbassata, in mano la pesante custodia del mio strumento. Non so raccontarlo, il brivido che mi percorse appena vidi quelle semplici parole tracciate sul muretto della mia via. Scritte con un gesso rosso, miracolosamente sopravvissute alla pioggia caduta durante tutta la notte e ben testimoniata dalle pozzanghere da schivare sull’asfalto.

    “LUIGI, GUARDA DI NON SBAGLIARE. I.”

    Non sbagliai.

    “Irina” s’intitola il settimo brano del mio primo CD da solista, una ballata per chitarra acustica con poche note, tristi e perfette.

  2. utente anonimo says:

    MEGLIO I BAMBINI

    DEGLI ADULTI E …

    DEI CAIMANI!

    Almeno a loro

    non è concesso

    di sbagliare

    quando gli altri

    vanno a votare.

    Imparano a suonare

    con sentimento

    “note tristissime

    e perfette, limpide

    come le gocce

    di una pioggia sottile

    e imprevista”

    su una chitarra.

    E, il giorno

    del saggio musicale,

    leggono con attenzione

    “quelle semplici parole,

    scritte con un gesso rosso,

    sul muretto della loro vita”:

    “GUARDA DI NON SBAGLIARE”.

    Ed è sufficiente

    perché terminino

    il loro saggio

    eseguendo con perfezione e

    con “dolcezza …

    (quello era il colore

    che desiderava in quell’istante)

    … una ballata

    per chitarra acustica

    con poche note, tristi e perfette”.

    E talmente perfetta

    fu la sua esecuzione

    da poter dire: NON SBAGLIAI!



    Quanti potranno

    dire altrettanto

    il 10 aprile?

    Ahimé! Temo

    che troppi adulti

    siano privi

    di una badante

    come IRINA

    che scriva loro

    con un gesso rosso:

    “QUANDO VOTI,

    GUARDA DI NON SBAGLIARE”.

    (Ennelù)

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