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A Gigi Meroni, estri bizzarri e libertà sociali in un paese di quasi tutti conformisti sornioni

Ho giocato a pallone per mille pomeriggi coi calzoncini macchiati d’erba e non sapevo chi fosse Gigi Meroni. Che era già morto da vent’anni e adesso è già morto da 40.

Io Gigi Meroni l’ho scoperto grazie a Cesare Fiumi, il giornalista del “Corriere” che ha segnato la mia scrittura per un quinquennio, diciamo tra i 22 e i 27. Ho letteralmente adattato la tesi di laurea al ritmo di certi suoi periodi, di certi suoi giochi di parole. Ne ricordo uno, a proposito di un antico portiere quando era giovane e acerbo: “troppo lungo per fare il portiere, ma già troppo portiere per non esserlo a lungo”. Oppure, mi viene in mente l’incipit di un altro pezzo dolcissimo e folgorante: “ci sono storie a cui si resta come impigliati…”. Indovinate come inizia la mia tesi su Giuseppe Baretti, critico letterario e viaggiatore? Che vergogna…

Ma torniamo a Gigi Meroni. Devo parlarne all’alunno talentuoso, pazzo dribblomane. C’è sempre stato un alunno così, dentro ogni classe e ogni anno scolastico. Uno che guarda diffidente le fotocopie con la storia del numero 7 granata, ma poi dopo qualche giorno mi fa capire che c’è entrato, dentro quella favola. E magari mentre corre sul campetto e pensa al guizzo e alla veronica dice dentro di sé una telecronaca d’annata: Meroni, Meroni, Meroni. E il bello è che poi se è goal o non è goal non ha nessuna importanza. Il gioco è sempre fine a sé stesso, nei panni di Meroni.

 

«Gigi Meroni piace pensarlo gran provocatore per sempre, senza cambiare il bisogno di cambiare. Piace pensarlo in quella foto quotidiana, saltata fuori da un mazzo di istantanee, come una carta buona del suo poker, buona per andare a vedere quanto fosse coerente, normale, naturale, la vita di un eccentrico calciatore alla fine degli anni sessanta, quanto fosse una vita di quegli anni. Una vita qualsiasi e una morte qualsiasi, come una parabola che si spegne sullo sfondo di un paese in fermento».

 

C. Fiumi, Storie esemplari di piccoli eroi

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Cineserie

Aghi

«Luo Cuifen è una giovane donna di ventinove anni nata a Kunming, nel sud della Cina. Un giorno, stanca di dirsi passerà, domani vedrai che passa, è andata dal medico: c’era sempre sangue nella pipì del mattino, e, a parte il dolore, la sottile preoccupazione crescente non aiuta ad affrontare i giorni svegliandosi e per prima cosa vedere il tuo sangue: sangue sempre, sangue ogni giorno. Il medico le ha detto: sarà una disfunzione renale, faccia una radiografia. Ecco, la radiografia del torace di Luo Cuifen è una di quelle foto che dice qualcosa di assoluto sul tempo in cui viviamo. L’hanno pubblicata molti giornali. Merita di essere ritagliata e di stare attaccata coi magneti al frigorifero. Nel torace di Luo ci sino 23 aghi: alcuni sono lunghi anche due centimetri e mezzo. Nella radiografia sono cosparsi sullo scheletro come bacchette di Shanghai, il gioco dei bimbi.

Sembra un fotomontaggio e invece no. Aghi nei polmoni, nei reni, uno rotto in tre parti proprio sotto il cervello, aghi dappertutto. Luo non era mai stata operata in vita sua, non poteva trattarsi certo di un errore di un chirurgo, né d’altra parte neppure il più distratto dei medici può scordare decine di aghi lungo un metro di corpo. E dunque? Dunque sono stati ventitré tentativi di ucciderla. Luo era stata affidata ai nonni, appena nata. La madre lavorava, i nonni non volevano bambine in casa: le femmine sono solo un costo nella Cina rurale, le devi crescere e mantenere per vent’anni, poi passano alla famiglia del marito, non portano indietro niente. Così hanno pensato di ucciderla con gli aghi. Forse non avevano cuore di soffocarla né di abbandonarla in un campo, forse pensavano che un killer invisibile li avrebbe sollevati almeno dal peso di essere presenti al momento della morte: sarebbe morta nel sonno, poi l’avrebbero sepolta. Ma Luo era una bambina robusta e il suo corpo con gli aghi ha trovato un accordo: ha resistitito. Certo, da adolescente, e poi da ragazza, non ha avuto vita facile. Soffriva di ansia e di depressione, di insonnia, hanno raccontato poi i medici che da tutto il mondo sono accorsi a operarla. Tanti, però, tante giovani donne soffrono di ansia e insonnia, non è necessario che gli aghi si vedano nelle radiografie, ci sono aghi invisibili che bucano il respiro, e quel che bisogna fare è resistere.

A operare Luo sono arrivati ventitré medici diversi, uno per ago. Il neurologo dagli Stati Uniti, il cardiologo dal Canada. I nonni sono morti, non possono più dire com’è andata, ammesso che avessero avuto da vivi cuore e coraggio per farlo. Magari si sono rallegrati, nel tempo, dell’incredibile tempra di Luo. Magari la nonna, è bello immaginarlo, l’ha festeggiata a ogni compleanno, ringraziando il cielo per non averla ascoltata. Magari no, invece. La ragazza dice che non ha ricordi dei momenti in cui le infilavano gli aghi. Dice che solo una volta ha origliato una conversazione che le era risultata incomprensibile, si diceva sottovoce di qualcosa avvenuto quando aveva tre giorni di vita. Dev’essere successo, quindi, in un solo giorno, in un momento, in culla, come fosse una bambola di quelle che si bucano nei riti del malocchio. Mio padre ha trovato la foto del torace di Luo e l’articolo che ne parla in un giornale straniero, durante un viaggio, lo ha tenuto stropicciato nel portafogli e lo ha tirato fuori ripiegato in quattro. Tieni, mi ha detto, guarda fin dove si può vincere.

Vincere il destino, vincere l’ignoranza e la violenza, vincere un corpo nemico, vincere gli aghi che bucano anche quando non sai cos’è che ti fa sanguinare. Combattere, spingere la sorte più in là. Finché si può, credo che intendesse dire con quel foglio conservato come un amuleto, finché si può resistere, si deve».

 

CDG, “La Repubblica delle donne”

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