Cineserie, Res cogitans

Lamento per i bambini senza cielo

Sembra facciano finta di niente ma si vede benissimo che soffrono come cani. Continuano a pestare i pedali del triciclo, tormentano la gonna della mamma. Forse ci pensano anche mentre un genitore li assiste nel fare pipì o popò dai pantaloni col buco, sul ciglio della strada. durante quel momento d’imbarazzo, quello che anche se non vuoi ti vien da guardare in su. Sopportano perché sono stoici, figli di un popolo stoico alla vigilia dell’ora X cui si è giunti dopo anni di stoicismo. Alle bambine è forse destinato un quid di dolore in più, ché le bambine non si accontentano di giochi terra terra col culo per terra, le bambine alzano prima gli occhi e vogliono far danzare i gonnellini bianchi a fiori che le nostre non indosserebbero neanche a carnevale. Sembra facciano finta di niente ma si vede benissimo che soffrono da morire. Come fossero in gabbia, una gabbia grande ma pur sempre una gabbia. Dall’otto agosto saranno sotto i riflettori, davanti agli sguardi dei coetanei di tutto il mondo. Sto qui a fantasticare una rivoluzione prepuberale, programma massimalista, uno spettro azzurro che si aggiri su Pechino olimpica. Sia ridato il cielo a quei bambini, senza se e senza ma, qui ed ora.

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Soletta, Stream of consciousness

Le parole che mentono

Il primo libro messo in valigia:

 

«Il male sta nelle parole che la tradizione ha voluto assolute, nei significati snaturati che le parole continuano a rivestire. Mentiva la parola amore, esattamente come la parola morte. Mentivano molte parole, mentivano quasi tutte. Ecco che cosa dovevo fare: studiare le parole esattamente come si studiano le piante, gli animali… E poi, ripulirle dalla muffa, liberarle dalle incrostazioni di secoli di tradizione, inventarne delle nuove, e soprattutto scartare per non servirsi più di quelle che l’uso quotidiano adopera con maggiore frequenza, le più marce, come: sublime, dovere, tradizione, abnegazione, umiltà, anima, pudore, cuore, eroismo, sentimento, pietà, sacrificio, rassegnazione.»

 

Goliarda Sapienza, L’arte della gioia

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Cineserie, Res cogitans

Il sabato del villaggio olimpico

Nido

Mi sono affacciato sul quartiere e sul villaggio olimpico. Ho gironzolato attorno al Nido, che due anni fa mi aveva letteralmente travolto con la sua carica futurista. Era ancora in costruzione, vibrava di scintille. Oggi è un pacco regalo pronto da scartare. Attorno turisti cinesi sono ansiosi di vedere cosa contenga. Intanto, nel suo parcheggio almeno un centinaio di camion militari stanno scaricando una marea di soldatini imberbi: imparano a presidiare e a difendere. Un altro esercito, i volontari. L’Adidas li ha forniti di maglietta coloratissima, pantaloncini e scarpe da ginnastica. Sono giovanissimi e si muovono a piccoli gruppi. Una ragazza accompagna l’amica in lacrime lontano dal plotoncino, immagino sia stata cazziata da un “colonnello”. Gli alberi attorno allo stadio hanno qualcosa di posticcio, sono stati piantati da pochi giorni e sono retti ancora da trespoli di legno. Non hanno radici, non faranno in tempo. Ecco la chiave. Tutto mi sembra mancare di radici, nulla penetra nel terreno. Le Olimpiadi sono in fondo un grande carrozzone, una grande giostra che arriva, si accende di luci e di fuochi e… riparte. Il Nido, lui sì, le radici le ha, ma sono nel futuro.

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Il fattore K

Intanto diciamolo: dietro c’è tutta un’ideologia, tutto un apparato. Basi filosofiche forti e pure una visione del mondo. Poi pazienza se quando sbarca da noi il tutto può somigliare alla morte dell’Occidente. Quello che davvero conta è che non sia la morte dell’Oriente, e che ne rappresenti in qualche modo la vita, e ne simboleggi il riscatto degli individui.

Sono reduce da una seduta di karaoke, 3 ore in una saletta climatizzata, divano in pelle, luci soffuse, controllo diretto su un cospicuo repertorio di basi musicali, camerieri servizievoli pronti ad accorrere. E soprattutto tre ore con il microfono in pugno, vero scettro del potere. Dovrebbe essere riconosciuto nelle giurisdizioni internazionali il diritto umano di cantare a squarciagola. Perché fa bene, perché scioglie i grumi nel cuore, perché fa entrare nei panni di un “noi” migliore, più libero e più puro. Ci riconcilia con la bellezza, anche con la nostra. E poi affratella, e le voci si cercano e si trovano, si rincorrono, si sovrappongono e s’intrecciano.

Modesta proposta: un’ora di karaoke a settimana in tutte le scuole, di ogni ordine e grado.

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Cineserie, Res cogitans

Yes, They can

I libri cinesi hanno copertine colorate ma sobrie. Raramente ci sono figure, quasi che i caratteri del titolo – figure essi stessi – ne fossero gelosi. Li guardo e mi sembrano inoffensivi, non c’è il libretto rosso e anzi, il rosso sembra il colore meno frequente. Sono pochi, questo sì, e pochi e sperduti mi sembrano i luoghi dove si possono acquistare. Altri generi di consumo li sopravanzano nel paniere dei cinesi. In un piccolo mercato di tuttounpo’, tuttavia, mi colpisce un’edizione in bella mostra di sé. Elegante. In tante copie una sopra l’altra, apparentemente molto venduta. Ha pure una figura sulla copertina, un sorriso elegante tra due orecchie a sventola. Ma guarda un po’, i cinesi leggono i discorsi di Obama.

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Cineserie, Stream of consciousness

L’Ego in un pagliaio

Due anni fa, sempre a Pechino. Lontano più lontano degli occhi del tramonto mi domandavo come mai non c’erano i bambini. Non c’erano gelaterie di lampone a fumare lente, come nella canzone di De Gregori, e i bambini non erano tutti a volare. Più probabilmente erano tutti a scuola, ché allora era l’inizio di luglio e non la fine, oppure – più semplicemente – il quartiere dove vivevo allora era abitato in prevalenza da studenti universitari.

Stavolta ci sono eccome. Gli hutong brulicano di pargoletti trotterellanti, bimbe col monopattino, neonati felicemente appoggiati un po’ dove capita. Su un marciapiede consumato da miliardi di quotidiani passi è ritagliato lo spazio quadrato (40 cm il lato) per un alberello di 30 cm. All’interno due pugnetti di sabbia che un fanciullo calvo bagna dall’alto con una pistola ad acqua gialla. La sorellina ha il culo nudo per terra, le manine marroni a impastare la poltiglia. Il gioco più semplice del mondo e fa niente che non ci sia il mare. Loro fanno come se ci fosse. È il loro gioco, il loro ago nel pagliaio, che non c’è sabbia e non ci sono alberelli per chilometri.

E io che non riesco a scattare la foto, proprio non ce la faccio, non riesco a violare quell’intimità. La vedo, ne vedo 300, di fotografie. Ma poi non premo il tasto, così torno a casa e premo sul computer per riporre l’immagine nella pozzanghera. Al sicuro.

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Lezione su Antonia

Ormai da quasi un anno mi tengono compagnia le poesie di Antonia. Provo a spiegarmi il perché di questo mio amore travolgente. Sarà che nessuno la conosce, sarà che all’università – Lettere moderne! – nessuno l’ha mai nominata e a me sembra che la Storia della Letteratura debba essere riscritta alla luce delle sue poesie. M’immagino già le indiscrezioni: “Sai, dicono che quest’anno alla maturità il Ministro proporrà una traccia su Antonia Pozzi…”. “Ma no, la Pozzi è già uscita due anni fa!”.

Perché mi fa impazzire Antonia? Per anticonformismo, certo: è la poetessa che so solo io. C’è dell’altro sicuramente. Mi tocca la sua morte, il suo suicidio, certo. La sua morte prematura, inspiegabile, bianca. Mi tocca, lo confesso, come fa a non toccare la morte di una ventiseienne piena di talento? Lo psichiatra Eugenio Borgna ha provato a spiegare il tragico gesto partendo dall’indicibile malinconia e dall’assenza di speranza, dalle attese tradite e dall’assenza di attese. Parole, solo vaghe astratte parole, il grande medico non mi ha convinto e il mistero rimane fitto.

Mi ricordo a volte di aver studiato da filologo, carriera presto tradita inseguendo magie di ragazzini. Allora prendo una poesia, e mi sbarazzo del contesto storico: Antonia potrebbe essere morta ieri, i suoi versi si potrebbero collocare in qualsiasi tempo. Il titolo, comincio dal titolo: Fuochi di S. Antonio. Partiamo male, nessun appeal, sapore di sagra paesana. Portate pazienza e ascoltate.

 

Fiamme nella sera del mio nome

 

La sera del mio nome. Bisogna essere capaci, il 30 novembre – S. Andrea – di dire “è la sera del mio nome”. Io non ci riuscirei.

 

Sento ardere in riva

a un mare oscuro –  

e lungo i porti divampare roghi

di vecchie cose,

d’alghe e di barche

naufragate.

 

C’è il fuoco, benché non nominato. Ma c’è anche molta acqua. La cosa più concreta, in fondo, sono le vaghe vecchie cose. Ognuno ci metta le sue, non ha importanza delineare i contorni di un oggetto.

 

E in me nulla che possa

esser arso,

ma ogni ora di mia vita

ancora – con il suo peso indistruttibile

presente –

nel cuore spento della notte

mi segue.*

 

Ecco la stoccata, il tocco della fuoriclasse, il numero d’alta scuola. Eravamo rimasti lì, colle nostre vecchie cose che bruciavano. Beati noi, Antonia non ha nulla da consacrare a quelle fiamme. Quel fuoco che ci aveva inquietati adesso ci tranquillizza. Possiamo smaltire i nostri scarti, possiamo di tanto in tanto liberarci di un po’ di zavorra, di qualche peso. Lei no, la opprimono tonnellate di ore dolorose. Si sente inseguita, braccata, Antonia vorrebbe bruciare qualcosa di sé ma non ci riesce, la notte ha un cuore e quel cuore è spento.

Spesso il male di vivere ha incontrato, mai è riuscita a divincolarsi dalla sua presa.

Fine della lezione, per casa pensate a quali ore della vostra vita vorreste bruciare. La prossima volta interrogo.

*: Antonia Pozzi, Fuochi di S.Antonio, 17 gennaio 1935

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Soletta, Stream of consciousness

Falling slowly

La prof.ssa Capecchi l’ha fatta risuonare nelle sue Stanze accompagnandola con una dicitura carinissima: canzone per aspirapolvere e pianoforti. Che c’azzeccano le aspirapolvere con i pianoforti? Eh, questo andate a scoprirlo al cinema, dentro un bel film girato con 2 lire e tanta delicatezza.

Take this sinking boat and point it home
We’ve still got time
Raise your hopeful voice you have a choice
You’ve made it now

Falling slowly, eyes that know me
And I can’t go back
Moods that take me and erase me
And I’m painted black
You have suffered enough
And warred with yourself
It’s time that you won



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Res cogitans, Tutte queste cose passare

L’Italia che vorrei…

Nell’Italia che vorrei il Signor Beppino arriverebbe da solo nel luogo deputato, sarebbe accolto dalle persone preposte, farebbe quello che deve (e a mio parere è giusto) fare, aspetterebbe in silenzio, la faccia tra le mani. Se ne andrebbe senza incontrare flash, telecamere, taccuini e domande, camminando piano, gli occhi lucidi a seguire le punte delle scarpe. Tutti i pensieri già pensati, in questi anni infiniti, la scorza più dura dei giudizi e delle condanne. Le sue foto rimarrebbero lì dove sono sempre state, nelle loro cornici. A guardarle, finalmente, solo i suoi occhi.

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Lettere a sara, Res cogitans, Stream of consciousness, Tutte queste cose passare

Sara e Emanuela

Cara Sara,

periodicamente mi rivolgo a te: sarà che è bello scrivere le lettere, sarà che ti vedo sempre più come un paradigma. Perdersi, scappare, scomparire. Oggi parliamo di scomparire. Da vent’anni in Italia nessun caso acclarato di bambini rapiti da rom (donne rom, per la precisione, il luogo comune vuole che trafugare infanti sia opra femminile…). Gli italiani sì, loro li rapiscono eccome. A volte spediscono ai familiari una frazione di orecchio, se sono inesperti li zittiscono con un colpo di badile. Tanto, si sa: “saranno stati gli zingari”.

sara

Ma non è questo, Sara, oggi voglio parlarti dei bambini, non degli adulti, e di quel bambino che ero io. Ieri sera ho avuto un flashback. La trasmissione “Chi l’ha visto?” – avrai sicuramente esperienza delle sue varianti ispaniche o canarine – ricostruiva nei dettagli la vicenda di Emanuela Orlandi, correva l’anno 1983. Era nata un giorno dopo di me, 7 anni prima. Una quindicenne quando io ero un quieto patato di 8 anni. Hanno mostrato il manifesto che ne denunciava la sparizione, quella foto impressa nella memoria di tutti gli italiani. Il viso dolce, così simile al tuo, la fascetta sulla fronte, il numero di telefono. Quasi un’icona, come il Che Guevara di Korda o Marilyn Monroe che strizza gli occhi e offre le labbra. Ecco, Sara, mi sono ricordato della paura. Seduto sul pavimento, i giocattoli nelle mani ma le orecchie puntate verso il televisore, il bimbo che ero aveva una paura fottuta. Di essere portato via, di scomparire, di essere cercato invano. Rimossa, questa paura? Occultata fino ad un giorno di luglio? Beh, se ti sento così vicina e ti scrivo le lettere ci sarà un motivo…

Si parla tanto di paura e di paure, concrete e percepite, vere e false, reali o indotte, alimentate ad arte. Sono sempre le paure dei grandi, però. Dei congegni elementari, dal funzionamento banalissimo, se confrontate con quelle dei piccoli. Piccoli che crescono tra le pugnalate di Erika e le badilate su Tommy, piccoli che diventano grandi in un mondo di ragazze scomparse. Ragazze sorridenti che diventano una maglietta ritrovata sulla spiaggia, come dalle cronache di ieri.

Un adulto può sempre comprare un antifurto e una pistola, votare per la Lega, fare una ronda notturna, guardare Studio Aperto. La paura in qualche modo la manda via. Ma i bimbi? Chi li scaccia i lupi cattivi dai loro sogni?    

Sara, mia cara, perdona ancora una volta questo mio scomodarti, tirarti in ballo. Abbi come sempre cura di te e sorridi. Sì, ce la puoi fare, nonostante tutto.

 

Clio

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Le parole che contano

Con l’aria da adulto spocchioso ho detto a Scarpette Gialle che mi sarebbe spiaciuto abbandonasse il suo blog, nato quando era una mia alunna, per convertirsi a uno di quei social network che imperversano tra i suoi coetanei, pagine di pura e semplice autopromozione, ammiccamenti e idee zero. Gliel’ho detto, con l’evidente intento di provocare la sua mente vivacissima. Ma ho sbagliato, ho sbagliato forte. Ho sbagliato tutto. Sì, perché Scarpette Gialle era entrata a Bibliotecamagia proprio con lo scopo di scrivere una pagina sul suo vecchio e caro blog, perdurando in casa sua vecchi problemi di connessione alla rete. Voleva ricordare un ragazzo morto due giorni fa dalle sue parti, un aspirante dj travolto dal folle gioco della velocità a bordo di un auto dalla grandezza spropositata. Era triste, la quattordicenne. Ed erano tristi i suoi amici e le sue amiche che sono entrati per restituire un libro, o a portarmi un saluto. Erano colpiti e sperduti, come davanti alle cose che nessuno ti può spiegare, nemmeno i grandi, i grandi meno di chiunque altro. Adesso non resterebbe che indirizzarvi con un link allo struggente scritto della ragazza, se soltanto il computer della biblioteca non l’avesse ingurgitato spegnendosi all’improvviso e inspiegabilmente. Crudelmente. Quelle parole c’erano, però, io le ho viste, e questo è quello che conta.

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Tutte queste cose passare

Con le mani in mani

È stato ancora più bello scoprirlo in ritardo e per caso. Capire che le cose meravigliose accadono anche mentre ti stai specchiando nell’acqua di un lago perduto, anche se passi la giornata canticchiando canzoni stupidine. Poi, fare il punto con internet, qualche immagine, qualche video, ché da capire non c’è moltissimo. C’è solo una donna che avanza sorretta da mani che sembra non avere mai più intenzione di mollare.

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