Le storie di Scuolamagia, Res cogitans, Stream of consciousness, Tutte queste cose passare

Nei panni, almeno un po’…

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Siamo in sei. La 3ª C e il sottoscritto. L’incontro con l’esperto è finito e ci sono due ore da far passare prima che il pullman di linea ci riporti nel paese di Scuolamagia. Decido di condurre la mia truppetta lungo un percorso naturalistico arricchito da alcune istallazioni artistiche. Sono belle, anche se un po’ acciaccate dopo gli schiaffoni dell’inverno. Dal bosco ci accorgiamo che mancano un paio di chilometri al paese successivo, anch’esso sede di un analogo posto di fermata per la corriera delle 12.03. Non ha più senso tornare indietro, e continuando magari ci scappa pure un bignè offerto dal prof. nella pasticceria dovelifanbuoni.
Siamo costretti a ritrovare l’asfalto, e una carreggiata che si restringe. Zero marciapiedi e vetture che sfrecciano. Nasce naturale una fila indiana, che si allunga presto complice il sole che picchia durissimo. Ciondoliamo svogliati. I sorrisi scalano un paio di marce. Poi Cami ci gela tutti e ce ne restiamo zitti, fino alla pasta con le mandorle. (Ché i bignè eran finiti.)

«Siamo come quelli di Lampedusa…»

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Avvelenata lampedusana

Qualcuno gli dice “vai” e Giacomo entra nel video. Si siede su una sedia da giardino, sopra una terra brulla e ventosa. Terra d’isola e vento di mare. Poi Giacomo imbraccia la chitarra e canta la sua rabbia. Un’avvelenata lampedusana. Che dice tutto quello che c’è da dire. In Tv l’altra sera Vittorio Feltri li ha chiamati per 3 volte LAMPEDUSIANI. Magari aveva ragione lui e si può dire anche così, non ho voglia di perdermi tra le accezioni dei dizionari. Preferisco leggere quel suono come il nome di un popolo alieno. Un popolo che assieme a suo fratello, il popolo tunisino, sta vedendo su quell’isola cose che noi umani…

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Il venerdì delle ragazze

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Venerdì la mia biblioteca di montagna ha festeggiato 8 anni di vita, ma era il 25 marzo e l’anniversario che avevo in testa, nonostante il brindisi col the alla pesca e la fetta di torta al limone, era un altro. È bello sempre, il clima nella mia biblioteca di montagna. Venerdì lo era quasi troppo, quasi da vergognarsene. C’erano ragazze che pensavano a che regalo fare per il compleanno di altre ragazze, c’erano ragazze su Facebook, c’eran ragazze che dovevano andare via prima della chiusura, rammaricandosene, salvo ricomparire, dopo pochi minuti, sulla chat di Facebook. C’erano ragazze un po’ più grandi con il cagnolino appresso, c’erano ragazze che ridevano su YouTube insieme a Paola Cortellesi che registra lo spot di Magica Trippi. C’erano ragazze dappertutto, e chissà dov’erano i maschi, venerdì 25 marzo. Forse al campetto, ora che la neve pare essersi sciolta anche lì. Ce n’era una, di ragazza, che esigeva non uno ma 7 pennarelli per disegnare un arcobaleno. Forse era destino che fossero tutte così ragazze. Un anno fa è morta Marta Lunghi, ventiduenne bibliotecaria volontaria. Per le ragazze ed i ragazzi del suo paese. Perché potessero leggere, ma anche perché potessero disegnare arcobaleni e ridere di gusto. Fu atroce, quella morte italiana. Inscatolando uova, il suo lavoro precario, in nero, per 5 euro all’ora. Se ne ricordò il Presidente Napolitano, di Marta. Lo fece il Primo Maggio del 2010 e io la conobbi così, dalle parole del massimo rappresentante delle Istituzioni. Dovrebbe essere anche questo, la politica, e per favore smettetela di ridere…  

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La repubblica di un solo giorno

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Lucio, che ci lascia le penne. Aurelio e Ranieri, che vengono dal nord. Maddalena, soprattutto Maddalena. Ragazzi dell’800. Ragazzi del Risorgimento. I ragazzi del nuovo romanzo di Ugo Riccarelli, scrittore come ce ne son sempre meno. Un libro per festeggiare i 150 anni, diverso da tutti quelli che popolano in questi giorni gli scaffali, dagli instant-book alle facili raccolte di date, luoghi e presunti tasselli d’identità italiana. Diverso e migliore perché conduce proprio lì in quel crogiolo, e fa bere il succo di quelle speranze, di quel (dis)incanto.

Però Maddalena non può aspettare. Lo prende per le spalle, lo volta verso di sé, lo fissa negli occhi. Vorrebbe raccontargli di Lucio, del suo sangue che ancora ha sul vestito, del dolore di sua madre, e di Costantini che è ancora vivo, e forte, e arrogante, di quello che lei vorrebbe non finisse come invece sta finendo la repubblica di Roma. Vorrebbe sapere se ci sarà un posto per loro due da qualche parte, un posto dove star tranquilli e abbracciati, in quest’Italia che ancora non c’è e che lei non riesce nemmeno a immaginarsi. Vorrebbe soltanto che lui allungasse una mano, facesse un gesto, qualcosa per sciogliere l’angoscia che adesso l’attanaglia.
Lo tiene fermo per le spalle e tenta di parlargli, ma dalla sua bocca esce solo un: “Ranié…”.
Lui la guarda fisso, deciso, come sempre.
«Ho saputo, Maddalena, e la sua morte mi peserà sempre nel cuore come una pietra» le dice.
Lei ha un tremito, una scossa con la quale il suo corpo tenta di allontanare l’immagine terribile della morte.
«Combatteremo anche per lui, fino all’ultimo sangue anche per Lucio, te lo giuro.» Mentre parla Ranieri le stringe le mani come per convincerla, le spiega ancora della bellezza per cui son morti in tanti, della repubblica, della democrazia.
Maddalena ha un gemito.
«No, Ranié» riesce appena a sussurrare, perché adesso non vuole nessuna repubblica, nessuna democrazia, ma soltanto un abbraccio che la rassicuri nell’amore in cui ha creduto nei giorni appena trascorsi. Sta annegando, Maddalena sta annegando sul sentiero dei bastioni, ora maledice l’incapacità di trovare le parole giuste per spiegargli quello che sente. Prova, biascica qualcosa.
«Ranié, sei tutto quello che ciò.»
Lui sorride. Allunga una mano in una carezza, ma è distratta, ché gli occhi suoi vanno oltre quelli di Maddalena, cercano qualcuno, qualcosa, mentre l’altra mano serra saldamente il moschetto.
Allora lei lo vede, vede il proprio amore come un bambino preso sotto le ascelle da Ranieri e appoggiato al muretto, che stia buono ad aspettare, perché prima di lui, prima degli abbracci e delle promesse, dei sogni fatti insieme e dei baci, prima di ogni futuro c’è la repubblica da difendere adesso, e la guerra da fare contro i francesi.
Maddalena sta annegando.
«Nun te ne anna’» riesce a dire con la gola piena di lacrime.
Ma Ranieri ha già le mani nella cassa delle munizioni.
«Dobbiamo combattere fino in fondo, amore mio, perché tutto quello che abbiamo fatto non sia stato inutile» le dice.
Si avvicina, l’abbraccia, le posa un bacio leggero sulle labbra e poi raggiunge di corsa gli altri che stanno salendo verso i bastioni.
Le parole sono uscite dalle bocche, si sono intrecciate davanti a loro come in un ballo. Quelle di Maddalena portavano il peso delle risate di Costantini, tremavano di paura e desiderio, desiderio di fuggire dall’angoscia per farsi abbracciare, farsi coprire dall’amore come da un mantello.
Le parole.
Le parole belle di Ranieri, parole che lei, prima, non aveva mai sentito. Le mani, piuttosto. Di mani ne ha conosciute tante. Mani che frugano e stringono. E bocche. Bocche che annaspano e cercano, braccia che imprigionano. E zoccola e puttana, i suoi nomi.
Le parole di Ranieri sono state per lei come le sue carezze: leggere e dolci, fresche e brucianti insieme. I suoi occhi parlano, ha pensato più volte mentre lo abbracciava nell’amore. Le sue parole sono occhi.
Ma oggi, sulla salita che porta ai bastioni, le parole che sono uscite dalle bocche e si sono intrecciate davanti a loro in un ballo hanno creato una danza falsa, storta, mal riuscita. Di fronte all’angoscia sua, che non era un minuetto ma un passo pesante, uno zompo, le parole di Ranieri non hanno avuto occhi. Pulite, cortesi e appassionate come sempre hanno spiegato tutte le ragioni e l’urgenza della politica. La repubblica e l’ideale hanno condito il loro amore assieme ai baci e alle carezze, e lei ha sempre accolto e ammirato ogni cosa con tenerezza e tremore.
Ma oggi è stata Maddalena a voler parlare, portare a Ranieri il cesto pieno di ansia che l’affogava, così che lui l’aiutasse a separare l’erba cattiva, i funghi avvelenati, le ciliegie marce e l’ortica pungente. E invece, mentre cercava di vuotare di fronte al suo amato il peso di quel cesto, ha capito che le parole di Ranieri andavano da un’altra parte, uscivano da lui distratte e non l’abbracciavano né la carezzavano, non erano aperte ma chiuse, andavano di fretta, rivolte alle mura e a quello che occorreva per difenderle.
Così dal cestino è salito l’odore marcio del dubbio, e quello acre della gelosia, per una guerra più importante di un bacio, di una voce, di un respiro affannato, per una politica grande come tutta Roma e più forte di qualsiasi abbraccio di una donna innamorata. E mentre lo ha stretto, Maddalena già sapeva che non stava abbracciando più nulla, che tutto era già salito verso i bastioni e così ha avuto un altro dubbio, che quell’amore forse non sia mai neppure esistito. Che lei si sia soltanto ubriacata dello spirito di parole che le hanno regalato bei giorni, pieni di una speranza vana, e guardando Ranieri che scappa verso la guerra ha capito di essere sempre e ancora Maddalena la puttana.

Ugo Riccarelli, La repubblica di un solo giorno
 

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La fine del mondo a pag. 12

A quelli di Terza piace fare la rassegna stampa. Proprio come in Tv: evidenziatore in resta e frusciare di pagine. Cami ha chiesto “La Repubblica” e si è immersa nel racconto – quasi epico, quasi macabro – dell’inviato Visetti. Giorgio ha voluto “L’Unità”, piccolo formato ma grandi dilemmi nucleari. Debora, sul “Messaggero Veneto”, ha seguito le tracce di una presunta donna friulana sperduta sul suolo nipponico. Ili non è andata oltre la prima pagina, leggendo e sottolineando, ma, si sa, il “Corrierone” è denso e corposo. E Anna? Anna, non senza qualche imbarazzo, mi ha fatto notare che il suo, di giornale, quello tra i tanti capitato tra le sue mani, dei fatti giapponesi proprio non dava conto. In prima pagina c’era un signore dai tratti non certo orientali (Santoro!), continuando a sfogliare ci si imbatteva nella Gelmini, che loro, i miei alunni, chiamano “Germini”, fin dai tempi di un lapsus freudiano di Cami, in altri signori (Fini, Bocchino), in un ciccione (Ferrara) e ovviamente nell’incerottatissimo Premier.

Poi no, eccolo, in effetti, il Giappone. Trattasi di “esteri”, la pagina giusta è la 12. E poi ecco anche la 13, si vede che il direttore aveva deciso di strafare.
Il titolo del primo pezzo – ripeto: pag. 12 – un altro capolavoro: LA FINE DEL MONDO…
E io che davanti all’edicolante mi ero imposto una sorta di par condicio da bravo insegnante pressappoco super partes
Merda.
Giornale di…
Direttore di…
Mondo di…
Fate voi.    

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Lettera a un killer

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Gentile Makkox,

la sua matita elettronica è straordinaria. Le sue vignette sono epifanie. Fanno svoltare una giornata, le danno senso e ritmo. Raccontarle agli altri è la sfida più bella, soprattutto quando non c’è il computer a portata di mano e si sta magari passeggiando all’aria aperta. E quando le vedono senza vederle, gli altri, ridono di gusto… C’è Fini impettito di profilo, immaginati Berlu di spalle, gambette tarchiate aperte, c’è Bersani ingobbito, maniche tirate su, c’è un Padano svampito, c’è Ruby, c’è questo e c’è quell’altro.

Inizialmente a colpirmi era il tratto. Mi ero convinto che a Montepulciano avessero celebrato anche il funerale delle vignette, insieme a quello di Andrea Pazienza. Mi sbagliavo.
All’inizio è stato il tratto, dicevo. Poi ho capito che il segreto sta nella lingua. Una lingua meravigliosa. Una lingua così piena, densa, grassa, colorata, esplosiva.

Ma mi appropinquo al sodo.
Le scrivo come si scrive ad un killer.
C’è un politico padano delle mie parti, il capogruppo regionale della Lega Nord del Friuli Venezia Giulia, che oggi ha dichiarato quanto segue:

«La Prefettura di Pordenone sta cercando spazi per ospitare immigrati libici sul territorio in strutture private, ma noi non vogliamo questa gente: si costruiscano dei campi lavoro in Aspromonte, da noi i libici non devono arrivare»

Le chiedo semplicemente di uccidere quest’uomo con la satira. Come sa fare lei. Di scorticarlo come si fa coi conigli. Di scherzarlo brutalmente. Di irriderlo. Di giustiziarlo, di fare giustizia.
Sono davvero disposto a pagarLa, mi dica lei quanto. La cifra non è un problema. Faccia presto, però. Ho letto alcuni interventi pubblici della vittima e mi creda, ha già fatto molto male alla civiltà.

Grazie per tutto il lavoro sporco che ci pulisce.

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150 anni e una domanda

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Il mio paese ha 150 anni – auguri! – e mi pare che oggi, 26 febbraio 2011, stia tutto dentro una semplice domanda. Non resta nulla attorno, terra bruciata, è davvero tutto concentrato lì. Passato presente futuro. Destra e sinistra. Berlusconi e avversari di Berlusconi. Berlusconi in sé e Berlusconi in me. Una domanda che è come una somma, mettiamo ad esempio 150, centocinquanta. Un totale che una volta raggiunto non ha più senso chiedersi se derivi da un 80+70, da un 100+50, da un 1+1+1+1+1… portato alle estreme conseguenze di quei tre numerini tondi e definitivi. Basta, non serve altro. E poi ci sono le risposte. Inevitabilmente due. La domanda è una di quelle allergiche ai distingui e distinguini, ai realismi politici e ai politicamente corretti.

La scrivo in grande e la posto, con la “o”. L’ha posta, con la “a”, Adriano Sofri.

Quando il telegiornale dice:

“Il maltempo frena gli sbarchi”,

vi dispiace

o siete contenti?

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Scrivi Vecchioni, scrivi canzoni

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La prima volta che l’ho visto avevo 14 anni. È salito sul palco ed è cominciata malissimo: Agordo (in provincia di Belluno) si pronuncia Àgordo e non Agòrdo ma il cantautore evidentemente non lo sapeva. Niente paura, davanti alle sonore rimostranze del pubblico locale, quell’ometto è tornato sui suoi passi, rifacendo tutto da capo. Nuovo ingresso e…: “buonasera Àgordo!”. Bisogna sempre mettere i puntini sulle “i”, e pure gli accenti sulle “à”, un professore come lui queste cose le sa.
Poi per me si è trattato come di una sorta di rito di iniziazione. Di concerti non ne avevo visti altri, quello era il primo, quindi non che ci volesse molto ad impressionarmi. Però a colpirmi furono più le parole dette che quelle cantate. La trama tessuta tra una canzone e l’altra, il repertorio di piccoli aneddoti, didascalie, contrappunti e chiose. Una tra tutte: “bisogna amare le persone PER QUELLO CHE SONO, non PER QUELLO CHE SONO PER NOI”. Io lì, folgorato. Come avessi ricevuto le tavole di una legge divina. E quante volte l’ho ridetto e scritto, quel pensiero, a volte citando la fonte, a volte vabbeh…
Riascolto oggi parole della stessa grana, ruffiane, spudorate. Belle, ancora. Le vedo arrivare all’improvviso ad una marea di orecchi nuovi e spero facciano lo stesso effetto che hanno fatto a me. I miei bimbi a scuola, loro forse non sono ancora pronti, mi parlano di “quel vecchietto”, ma si vede che sono rimasti impressionati da quanto ci credesse…, e da tutta quella grinta…

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L’orgoglio di vivere in un paese dove non è proibito chiamare Silvio il proprio maiale

2011-01-14

Ogni tanto il ritmo vorticoso (!) e vorticante (!) delle lezioni va proprio spezzato. Succede in quei giorni – in genere a febbraio – in cui un terzo degli alunni di una scuola di montagna è impegnato in estenuanti competizioni di sci nordico che si svolgono in remote località alpine, un altro terzo se la spassa da qualche giorno sul divano alle prese con l’influenza e un’ultima porzione di studenti gira per le aule semideserte chiedendosi perché non ha abbracciato la passione per gli sci stretti o perché almeno non ha abbracciato quel cugino che starnutiva.
Ieri questo simpatico sito mi ha aiutato a spezzare. Promette candidamente di insegnarti una cosa al giorno. Una cosetta da niente, spesso decisamente una stronzata, a volte una curiosità illuminante. Mai una teoria complessa o un dato poderoso, questo è chiaro da subito. A me piace perché livella. Davanti a quelle diapositive colorate gli alunni sono davvero tutti uguali, e se alla fine ci si sfida a “chi ne ricorda di più”, di stronzatine, la gara è davvero apertissima. Non c’è secchione che tenga: armi pari.
E poi, e poi c’è quel messaggio che sembra davvero la pubblicità della Scuola, di ogni scuola. L’idea che davvero si proceda per piccoli piccolissimi passi, oggi una nozione, domani una relazione causa effetto, dopodomani un confronto, poi una data, una parola nuova, un suono, un luogo. E il nome di un vento, una formula, come si ottiene un colore, il colore di una bandiera.
Così, a beneficio di chi sguazza nella pozzanghera… sappiate che…
I Beatles non sapevano leggere la musica.
La Statua della Libertà calza un sandalo numero 876.
Ogni umano trascorre in media 2 settimane della sua vita… intento a baciare.
Le zanzare sono attratte di più da chi ha appena mangiato una banana.
Dal Titanic furono tratti in salvo anche 5 cani e un maiale.
La nostra bocca produce un litro di saliva al giorno.
Nel film “Quei bravi ragazzi” viene impiegato il termine FUCK. Sì, 300 volte.
È illegale in Francia battezzare Napoleone il proprio maiale.

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FarfalLiNa

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a quando il tennis se n’è andato per sempre dalla Tv generalista, a noi orfani non restano che gli spezzoni su YouTube e gli articoli di Gianni Clerici.

In quello di oggi, su “Repubblica”, lo scrittore racconta di sé vestito di rosso, alla garibaldina, per battere le mani alla cinese Li Na, finalista dello Slam australiano.

«…la stabilità del match veniva meno quando Li Na affrontava micidiali diritti, facendo perno su gambette infisse nel cemento. Nel mezzo di tutto ciò, quella delizia trovava anche il modo di occuparsi di una farfallina, consegnandola ad un incaricato, invece di schiacciarla con una racchettata…»

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Non possiamo non dirci IL CULO

I quotidiani viaggi verso Scuolamagia mi rubano all’incirca 2 ore. Uno lo sa in partenza e si attrezza. Quindi pensa, parecchio, quindi canta, quindi ascolta musiche varie e la radiofonia che le vallate di montagna permettono di intercettare. Questa mattina – il tempo di un’andata e di un ritorno – dai microfoni della radio pubblica ho ascoltato ben 2 voci femminili, voci di giornaliste navigate, avanzare un pericolosissimo punto di vista capace di fare imbestialire il mio femminismo a oltranza. Che pena queste giovani donne così volgari, capaci di macchiarsi di parole tanto spietate nei confronti di una persona anziana. “Vecchio”, “Cadente”, “Grasso”, “Fa schifo”. Ma è quello il modo di riferirsi ad un Premier attempato? E poi, quella Ruby: ma è proprio il caso di continuare a porre l’accento sulla parola “minorenne”? Ma non sembra anche a voi un po’ troppo scaltra, disinvolta, furbetta per finire nel mucchio degli infanti insieme alla vostra nipotina di 7 anni? Ecco, parole così.
Da qui l’idea del post che sguazza oggi nella Pozzanghera. Per prender parte, per stare dalla parte giusta. Fondere e intrecciare un celebre pensiero del laico Benedetto Croce (“Non possiamo non dirci Cristiani”) con l’intercettazione telefonica più eloquente della storia, un’agile sineddoche attribuita alla giovane Ruby (“…io sono il culo”).

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Che domanda siamo?

Le librerie sono piene di titoli che celebrano – in un modo o nell’altro – i 150 anni del nostro paese. Più o meno sinceri, più o meno instant book, molti non resteranno e faranno soltanto cassa. Ho come l’impressione che il libro che ci racconta meglio, noi italiani, possa essere in realtà l’ultimo romanzo di Marco Lodoli, dove un bel po’ della nostra storia, e quindi di quello che siamo, la sostanza di cui siamo fatti, è racchiusa nelle vicende di un’unica famiglia e della sua domestica – di nome Italia, manco farlo apposta.

Marianna era pronta da tempo, ma non si decideva a uscire da casa, dopotutto Sant’Agnese sta a poche centinaia di metri da via del Giuba, come uno scoglio davanti alla spiaggia. Continuava a guardarsi nello specchio, a controllare ogni dettaglio, a ritardare e ritardare. Le ho sistemato ancora una volta il velo, e lei mi ha stretto il gomito, e ora eravamo insieme nello specchio, lei vaporosa e bianca, io con un tailleur grigio e duro che mi aveva prestato la signora, lei alta sui tacchi, io un poco più bassa, lei con gli occhi agitati come due pesciolini e io immobile come un’ombra, per sostenerla. Italia, non so se sono felice di sposarmi, mi ha detto piano nell’orecchio, con la voce che scricchiolava. E allora? Allora adesso vado, lui mi aspetta, mi desidera bella e non mi importa se qualche volta si buca. Devo andare, non voglio ma devo, forse ho bisogno di sbagliare ancora tanto altrimenti non capirò mai niente. Ho bisogno di farmi del male, perdonami Italia, tu lo sai come sono, tu mi guardi da quando ero alta così e sai quanto mi manca tutto, è come se fossi solo il vestito e dentro ancora niente, neanche un inizio. Perché sono fatta così, Italia, perché? In questo mondo, io che domanda sono? 

Marco Lodoli, Italia

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Il naso e i ciclamini

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Trascorrere una serata davanti alla Tv è sempre più una mission impossible. Come immagino facciano sempre più italiani, ieri ho ripiegato su un’accurata cernita di immagini “sviste” nel corso delle ultime settimane e ripescate su YouTube. Tra queste, l’intervista barbarica a Emma Bonino, che tra tante cose interessanti ne ha detta anche una bellissima.

La trascrivo.

«Ma la donna dell’anno, invece, chi è secondo lei?»

«Mah… per me… per come l’ho vissuta io, per come l’ho amata, per come l’ho conosciuta… per me è Aung San Suu Kyi. Una che resiste in modo non violento agli arresti domiciliari per 17 anni, una che ha vinto le elezioni… – io sono andata a trovarla nel 1997 e spero di riuscire presto ad andare – che esce e la prima cosa che dice è “voglio dialogare con la giunta… questo paese deve progredire verso la democrazia…” …‘nsomma… ed è minutissima, piccolina, ricordo quando mi sono chinata per abbracciarla e il mio naso lunghissimo è finito nei suoi ciclamini che ha dietro i capelli e quel profumo non lo scorderò mai più…».

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Il bambino e il bambone

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Nata come nascono certe espressioni in classe – per puro caso – ormai è un piccolo cult a Scuolamagia. Un giorno uno si alza e non avrebbe dovuto alzarsi, ché già è piuttosto raro che io lo faccia stare seduto per più di dieci minuti.

«Vai al posto o ti abbatto come un camoscio», ho detto.

Sarà che i cuccioli certe cose le sanno immaginare e sembrano quasi vederle davvero. Sarà che non sanno che per me un capriolo un daino un camoscio un cerbiatto uno stambecco e un cervo sono in linea di massima lo stesso animale. Sarà quel che sarà, il camoscio è tornato al suo posto e la lezione è continuata tranquillamente senza intoppi, senza polemiche e gesti di insubordinazione.
Da quel giorno, constatato che funziona, ho abbattuto molti camosci.
Io non sono capace, ché per me uno schioppo un archibugio una carabina una pistola un mitragliatore un bazooka un kalashnikov sono la stessa arma, ma alcuni ragazzi al momento giusto mimano la fucilata nell’aria. Puntuale, Anna sbotta indignata: «Ma povero camoscio!!!».
E si ricomincia. Altro che pausa-caffè. Pausa-camoscio.
Due ore fa passeggiavo in un bosco, piccolo ma piuttosto selvaggio, quando da certi cespugli è sbucato un quadrupede maestoso, un camoscio un capriolo… non so… da piccolo avrei detto “un bambi”, ma grande, “un bambinone”, un “bambone”. Inseguito da un cane (oggi mi risulta che la caccia sia chiusa, forse si trattava dell’animale di un bracconiere, o – visto l’imbarazzante esito dell’inseguimento – di un braccobaldoniere), letteralmente volava. Ma niente era magico, non c’era leggerezza, era un volo rumoroso, era materia che rimbalza sulla materia, erano rumori di sassi smossi, foglie secche, rami e rametti spezzati. Era un fiato, un fiatone, erano sbuffi di locomotiva, era un vento. Erano traiettorie perfette e due occhi perfetti a guidarle. Era scintillante bellezza, pazienza se non c’era fantasia e c’era soltanto istinto. Puro, libero.
Son rimasto lì 2 o 3 minuti come un bambino, vittima di un incantesimo, quasi abbattuto da un camoscio.

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Come una specie di sorriso

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C’è sul “Venerdì di Repubblica”, da quando si è rinnovato, una rubrica che si chiama BARWEB, a cura di Marco Filoni. Ecco il trafiletto di questa settimana.

Di integrazione – o della sua mancanza – si parla sempre. Anche nel web. L’antropologo Piero Vereni, nel suo blog, racconta la storia che gli ha riferito una maestra sua amica. Lei insegna in una di quelle scuole dove ben più della maggioranza degli alunni sono figli di immigrati.
In una quarta elementare la maestra propone un gioco: ogni bambino si avvicina alla cattedra, e uno alla volta i suoi compagni devono descriverlo. Tocca a Stephan, figlio di filippini: «Ha i capelli neri e lisci»; «Ha la pelle olivastra»; «È magro e ha i denti bianchissimi». Una bambina italiana, Greta, aggiunge: «Ha gli occhi a mandorla».
La maestra vuol cogliere l’occasione per parlare di diversità, e chiede: «Perché ha gli occhi a mandorla?». E Greta risponde: «Perché sorride sempre».

    

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Vieni via con Saviano?

Il primo messaggio arriva alle 21.05, mentre sto ancora trafficando con fogli stampati e fogli da stampare.
Dice: “COMINCIA”.
L’asciuttezza degli sms della mia alunna Ili è inversamente proporzionale ai fiumi di parole che impiega per raccontarti a voce anche un fatto minuscolo e insignificante.

Lo so che comincia, ed è proprio per la fretta di raggiungere il divano che mi sono imbottigliato in un pasticcio di stampe sbagliate.
Tutto è iniziato a scuola, una decina di ore prima. Ho beccato Debby in corridoio e ho tracciato una piccola “P” con la penna blu sul palmo della sua mano. “Ricordami che dopo, all’ultima ora, devo fare una pubblicità”. Me ne sono ricordato da solo, poi, nonostante la mano di Debby sia sventolata puntuale al mio ingresso nell’aula. “Se vi va, se non guardate il Grande Fratello (piacevoli smentite cariche di disgusto), stasera alle nove provate a sintonizzarvi su Rai 3”.
“Ah, c’è quello del libro e della scorta, no?”
“Sì, proprio lui, e ci sono altre cose di cui abbiamo parlato a scuola”.
“Mhh, vediamo”.
“Mhh, vedete”.
Il secondo messaggio dice: “CHI È QUESTO TIZIO?”
“Si chiama Silvio Orlando, è un grande attore. Ti ho fatto vedere un suo film, quando eri in prima media, ma lui era un po’ più giovane e non aveva la barba”.
Il terzo messaggio dice: “HA NOMINATO QUELLO DI GOMORRA… C’È ANCHE LUCIANINA?”.
Dico che non so, che non credo, e intanto penso che in classe, per quell’attitudine ad arrampicarsi su banchi e cattedre mentre leggo racconti e storie, miracolosamente senza distrarsi, “Lucianina” è il soprannome che ho dato proprio a Ili.
Il quarto messaggio dice “E QUELLO CHE SUONA?”.
Spiego di Cristiano De Andrè… Sì, proprio il figlio di quello lì, quello di cui Giua esegue benissimo le canzoni: presente quella in genovese? E IANDA E IANDA… Presente?
Il quinto messaggio dice “ECCOLO”.
Saviano. Comincia il suo monologo e ad ogni parola un po’ più complessa delle altre – lo scrittore dice “antonomasia”, dice “emblema” – temo che si possa sgretolare l’attenzione della giovane spettatrice, e che possa pensare “c’ho provato, ma non fa per me”.
È dura, è durissima. Si nominano mandamenti, ndrine e mammasantissime, e io in certi dettagli a scuola non sono mai sceso. Quando all’improvviso, un piccolo miracolo, sancito dal sesto messaggio: “ECCOLOOO!!!”.
È Antonio Albanese, anche se lei avrà pensato “Epifanio”. (Un buongiorno a voi, un buon giorno a me, t’e capì? Forse ma forse…)
Legge cose drammatiche e serissime, l’attore, ma la faccia è la sua, e giova, sicuramente giova.
Sul mio telefono arrivano altri messaggi, su quel palco arrivano altri ospiti.
Poi, a una certa ora, è normale che una ragazza di tredici anni vada a nanna.
La speranza è che non visitino il suo sonno picciotti e padrini, gente che spara e cattura. Ma non credo, forse è una sera in cui sentirsi più grande e più sicura.
Poi arrivano Bersani e Fini.
Leggono elenchi di valori.
Io rileggo un elenco di messaggi.
Valgono anche quelli.  

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