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When We Were Grillo, quando eravamo tutti grillini

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Noterella a margine della notizia del giorno: il “New York Times” che accusa Grillo di aver alimentato la sfiducia nei confronti dei vaccini, agire del quale si cominciano ad avvertire i serissimi danni.

Il comico smentisce sdegnato: tutte balle.

La rete, tuttavia, non perdona e smaschera: migliaia di citazioni dal sacro blog, spezzoni video, documenti audio, proposte di legge antivax a firma M5S.

Mi capita quindi di vedere per la prima volta dai giornali online alcuni passaggi tratti dagli spettacoli di Grillo, anche apparentemente lontani nel tempo, almeno a giudicare dalla grana delle immagini. Non li ho frequentati, anche se ricordo un certo clamore da grande evento quando passavano dalle mie parti. C’erano quelli, poi, che ti dicevano “se vuoi ti passo il DVD di Grillo”, in genere una copia fresca di masterizzatore, e ti mostravano la custodia con modi da spacciatore guardingo. Era roba contro, era roba che scottava.

Nessuno che aggiungesse: è roba molto stupida.

Dov’era la nostra ragione in quegli anni?

Perché quelle parole non ci hanno fatto schifo fin da subito? Soltanto perché tra una porcheria antiscientifica e l’altra c’era una battuta di spirito?

Perché quegli spettacoli sono stati recensiti quasi sempre come gli exploit di una voce libera, di un guitto profetico?

Perché è andata così, ammettiamolo. Certo, il comico non candidava ancora nessuno alle elezioni e tutte quelle panzane sembravano morire lì dov’eran nate, nei tendoni, nei teatri.

Non sarà che in fondo è anche un po’ colpa nostra? Ci siamo fatti due risate, abbiamo detto “che matto”. Qualcuno avrà sinceramente pensato “che coraggio, che cane sciolto…”.

E quello ci stava dicendo di non vaccinare i bambini.

Lo abbiamo applaudito. Ci siamo fatti sputare addosso mentre blaterava passeggiando tra le seggiole dei teatri strapieni.

L’uomo si sarà pure montato un po’ la testa, ai tempi, si capisce, e oggi probabilmente i pochi che non lo votano gli sembreranno dei traditori.

 

 

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Forza Gabriele Del Grande, viva i suoi libri!

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C’è una cosa che possiamo fare davvero, e tutti, e subito, per Gabriele Del Grande.

Leggerlo.

Non è il momento per le polemiche, anche se fa impressione vederlo definito “documentarista” e blogger dalle testate che avrebbero dovuto contendersi il suo sguardo e la sua firma, negli anni in cui era palesemente il più attento e il più informato sul grande tema che avrebbe finito per sommergerci.

Non dev’essere un tipo che si perde d’animo, Gabriele, e nonostante le porte sbattute in faccia ha saputo tentare nuove strade e nuovi viaggi, per capire e raccontare ancora, in altre forme.

Non dev’essere nemmeno il tipo che si accanisce con i “ve l’avevo detto”, nonostante sia accaduto puntualmente tutto quello che già dieci anni fa lui andava scrivendo mentre navigava attorno ai muri della Fortress Europe, già assediata di assediati.

Ora si tratta di stargli accanto, si tratta di pronunciare e scrivere il suo nome. Vanno bene gli hashtag, gli #iostocongabriele (proprio come lui ci aveva insegnato a “stare con la Sposa”). Va bene tutto, ma va bene anche leggerlo.

I suoi libri si trovano ancora, gli scaffali online dicon “disponibilità immediata”.

Cosa aspettiamo a svuotarli?

Mamadou va a morire e Il mare di mezzo sono due fonti di inestimabile valore. Non saranno aggiornati sugli ultimissimi eventi, ma fanno luce su un fenomeno che – ahinoi – è rimasto lo stesso e scavano nei suoi tragici dettagli. Fanno di più: indagano il lessico delle migrazioni, componendone un utile glossario. Sono costruiti su testimonianze raccolte sul campo, sanno di deserto e mare, di prigione e di stiva.

Forza Gabriele Del Grande.

Ma anche: viva il suo lavoro!

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I danni che fa Report

2016-10-10aOrmai da 10 anni, in una stanza della mia scuoletta che si improvvisa ambulatorio, due volte all’anno un simpatico medico vaccina le mie alunne contro il papilloma virus. Da un po’ di tempo a questa parte si mettono in fila anche i maschietti, portatori del virus e a loro volta possibili vittime. Non sono mattine come tutte le altre. I ragazzi hanno il tesserino delle vaccinazioni ben in vista sul banco, si distraggono per ogni auto che sembra aver parcheggiato nel cortile della scuola, si allarmano per ogni sbattere di portone.

Poi, finalmente, il rito comincia. Si mettono in coda. Entrano nella stanza di cui sopra, uno alla volta. All’uscita a qualcuno scappa una lacrima, qualcuno chiede di essere esentato da ogni attività didattica per i postumi dell’iniezione.

L’ho chiamato rito.

Succede nella mia scuola, ma succede in migliaia di altre. Cambiano solo numeri e facce. Il dottore non sarà sempre simpatico, spessissimo sarà una dottoressa. Succede in Italia, ma succede anche nel Sichuan e in Alabama.
Succederà finché la scienza, e quindi la massima espressione della ragione umana, non avrà trovato una soluzione migliore. Succederà finché lo Stato laico sarà alleato della scienza e se ne servirà per il bene di tutti.

L’inchiesta di Report sui vaccini anti papilloma visus ha dato ieri sera una goffa spallata a quel rito civile.

Con le mani avanti di chi è consapevole esistano ben altre diaboliche ciarlatanerie sul tema vaccini, la trasmissione ha soltanto (!) insinuato, ha soltanto (!) alluso. Il terreno era già stato arato: si sa che le le industrie farmaceutiche sono il Male fattosi consiglio di amministrazione. Aggiungici un medico corrotto che non manca mai, una spruzzatina di tangenti e la postverità è  bella impiattata.

Grande assente: la scienza. C’è un medico specializzato su quel tema che da mesi fa parlare di sé per la sua strenua battaglia a favore delle pratiche vaccinatorie, che dite, lo sentiamo? No. Chissà perchè… Ne va bene anche un altro, uno qualsiasi, bastano tre clic per individuare una serie di nomi autorevoli. No. Vien da pensar male, ma si dia il caso che sia vietato pensar male dei professionisti del pensare male. Si passa subito per censori, per gente che dà la caccia all’Uomo Ragno mentre bande di criminali imperversano in città.

[Mi viene in mente la puntata di Report dedicata al mondo dei colossi del web, in particolare a YouTube. Una coppia di genitori lamentava l’utilizzo delle immagini del figlioletto di pochi mesi, girate e caricate sulla piattaforma al solo scopo di commuovere una nonna australiana, finite invece in un losco servizio Tv sui pedofili e ora a disposizione dei peggiori naviganti dell’intero pianeta. L’inchiesta metteva in guardia dal mostro YouTube, guidato da indicibili interessi economici manco si trattasse un’industria farmaceutica, e trascurava l’unica vera missione da servizio pubblico: indicare ai telespettatori la spunta da fare sul sito (tutt’altro che occultata) se non si vuol rendere visibile a tutti un video caricato.]

Stamani, intanto,  online c’erano già genitori che ringraziavano lo storico programma scoperchiatore di pentole. Grazie, abbiamo visto, non vaccineremo la bimba!

Bingo.

Dove andremo a finire di questo passo è difficile immaginarlo.

Tra un c’è sotto qualcosa, una puzza di bruciato e un conto che non torna, toccherà magari a Sigfrido Ranucci riportarci tutti alla ragione, nel suo discorso di capodanno a reti unificate.

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POZZANGHERA VS 600 PROFUNIVERSITARI

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Ho fatto le pulci all’appello dei 600 prof. sull’italiano a scuola.

Io sono quello colorato di blu, se non fosse chiaro.

Lo dico per i lettori più giovani, quelli deboli nella comprensione dei testi. Pronti, via.

 

Al Presidente del Consiglio

Alla Ministra dell’Istruzione

Al Parlamento

È chiaro ormai da molti anni che alla fine del percorso scolastico troppi ragazzi scrivono male in italiano (1), leggono poco (2) e faticano a esprimersi oralmente. (3) (Ma che ordine – logico? – è mai questo? Scrivere, leggere, parlare. Sembra una sciocchezza ma pensateci: in quanti avreste scritto le tre carenze in quell’ordine?). Da tempo i docenti universitari denunciano le carenze linguistiche dei loro studenti (grammatica, sintassi, lessico), con errori appena tollerabili in terza elementare (Le “Elementari” si chiamano ormai da molti anni “Scuola Primaria”. So perfettamente che diciamo ancora tutti così, ma questo è un appello indirizzato al Presidente del Consiglio, al Parlamento e alla Ministra che di scuola si occupa al livello più alto. Parliamo come mangiamo in un testo che denuncia la lingua approssimativa di molti italiani?). Nel tentativo di porvi rimedio, alcuni atenei hanno persino attivato corsi di recupero di lingua italiana.

A fronte di una situazione così preoccupante il governo del sistema scolastico non reagisce in modo appropriato,  anche perché il tema della correttezza ortografica e grammaticale è stato a lungo svalutato sul piano didattico più o meno da tutti i governi (Par di capire che esistano altri piani su cui declinare il tema dell’ortografia, e che generalmente se ne occupino i governi). Ci sono alcune importanti iniziative rivolte all’aggiornamento degli insegnanti, ma non si vede una volontà politica adeguata alla gravità del problema.

Abbiamo invece bisogno di una scuola davvero esigente nel controllo degli apprendimenti oltre che più efficace nella didattica, altrimenti né il generoso impegno di tanti validissimi insegnanti né l’acquisizione di nuove metodologie saranno sufficienti. Dobbiamo dunque porci come obiettivo urgente il raggiungimento, al termine del primo ciclo, di un sufficiente (Ops, che succede? A nessuno dei 600 è venuto in mente un aggettivo che evitasse la proliferazione dei “sufficienti”? Consoliamoci: la “i” c’è entrambe le volte. Il lessico è poverello, ma l’ortografia è salva) possesso degli strumenti linguistici  di base da parte della grande maggioranza degli studenti. 

A questo scopo, noi sottoscritti docenti universitari ci permettiamo di proporre le seguenti linee di intervento:

– una revisione delle indicazioni nazionali che dia grande rilievo all’acquisizione delle competenze di base, fondamentali per tutti gli ambiti disciplinari. Tali indicazioni dovrebbero contenere i traguardi intermedi imprescindibili da raggiungere e le più importanti tipologie di esercitazioni;

–  l’introduzione di verifiche nazionali periodiche durante gli otto anni del primo ciclo: dettato ortografico, riassunto, comprensione del testo, conoscenza del lessico, analisi grammaticale (E l’analisi logica? Soprassediamo? Ma sì, è troppo astratta, cosa si credono quelli, dei filosofi? Mica si va a scuola per discettare di cause e di fini, a scuola si va per spaccare il pronome in quattro e sondare il magico mondo dei verbi difettivi) e scrittura corsiva a mano (Meglio specificare, affinché nessuno si confonda e pensi a delle verifiche nazionali di “scrittura corsiva digitale”. Al massimo regionali, quelle.).

–  Sarebbe utile (In un elenco di sostantivi – revisione, introduzione, … – cosa ci fa un “sarebbe utile”?) la partecipazione di docenti delle medie e delle superiori rispettivamente alla verifica in uscita dalla primaria (ma allora lo sapete…) e all’esame di terza media (che non si chiama più così, ma tanto basta capirsi…), anche per stimolare su questi temi il confronto professionale tra insegnanti dei vari ordini di scuola.

(So di essere antipatico e saccente, ma se un elenco puntato si compone di n. elementi, al termine di ognuno di essi e fino al penultimo bisogna decidere se metterci il punto e virgola – sarebbe preferibile – oppure il punto o magari anche nulla. Se faccio un po’ come capita, poi corro il rischio di passare per un cialtrone sedicenne…)

Siamo convinti che l’introduzione di momenti di seria verifica durante l’iter scolastico sia una condizione indispensabile per l’acquisizione e il consolidamento delle competenze di base (Lo so che ci sono sempre quel saggetto da finire e quel pensoso editoriale da limare, ma anche rileggersi, a volte, non farebbe male. Sempre per quella faccenda del lessico e soprattutto per quella del suono. Eppure gli amati dettati dovrebbero avervi allenati all’ascolto, cari Profs. Le stonature sono dietro l’angolo e i vostri studenti fanno presto a recapitarvi un bel ciaone.) Questi momenti costituirebbero per gli allievi un incentivo a fare del proprio meglio e un’occasione per abituarsi ad affrontare delle prove, pur senza drammatizzarle, mentre gli insegnanti avrebbero finalmente dei chiari obiettivi comuni a tutte le scuole a cui finalizzare una parte significativa del loro lavoro (3 righe, 7 verbi, 5 infiniti, de gustibus…).

(Sono almeno trent’anni che Cacciari vi dice che lui gli appelli li firma anche, ma voi li dovete almeno rileggere. E voi niente, sempre la stessa storia! Sgrunt!)

P.S.:

Ovviamente, si è fatto un po’ per scherzare. Tuttavia, sotto la polvere dell’appello ammuffito – ignorante di cosa sia già accaduto e stia accadendo nelle società contemporanee, apparentemente  inconsapevole di sconvolgimenti antropologici epocali – si staglia il profilo di un’Italietta smunta, sbiadita, allergica a qualunque progresso. Che torna sempre indietro – si tratti del proporzionale o del dettato ortografico – senza nemmeno la scusa di dover prender la rincorsa. 

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L’Amaca di Michele Serra, sospesa tra il passato e il futuro

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Le mani dei soccorritori, la marcia notturna sugli sci.

Come tutti, anche Michele Serra porta addosso i segni di una storia che ci ha condotti dinanzi all’essenza di tutto: “c’è un ritorno all’osso”, scrive, “alla materia bruta di cui sono fatte vita e morte, e la tecnologia torna ad essere un accessorio”.

Eccoci, di nuovo lì, al solito posto. Dopo poche righe, nell’Amaca in prima pagina, spunta una ragazza di quell’Abruzzo innevato: si lamenta per l’assenza di campo. Il telefonino non prende. Si capisce che per Serra, il contrario di quell’eroismo d’altri tempi sono i tempi odierni fatti di connessioni e di clic, di condivisioni e cinguettii digitali.

Eppure, è sullo schermo di un cellulare che ieri pomeriggio ho visto la faccia di quel vigile incredulo davanti al bambino che stava aiutando a riemergere da quel gelido abisso; l’immagine, quel viso barbuto, più vicina alla felicità che mi sia capitato di vedere da molto tempo a questa parte.

Gli sci, le mani, le pale e le ruspe (quelle buone, mica quelle metaforiche degli sciacalli coi doposci). Ma anche gli smartphone e Facebook. Tutto sta insieme a tutto, quello che c’è sempre stato con quello che è appena arrivato e dobbiamo ancora imparare a digerire. Siamo anche lì dentro, Michele Serra, ci possiamo riconoscere anche nei gesti nuovi. Siamo nei gesti stupidi così come nei gesti eroici. Il vigile del fuoco che si cala nella pancia delle valanghe domani mattina getterà alle ortiche venti minuti solo per scegliere il filtro giusto per una foto su Instagram, e la ragazza che non trovava campo potrà andare a trovare il bambino superstite all’ospedale di Pescara.

L’Amaca online verrà letta e meditata, se ci sarà campo verrà condivisa e arriverà più lontano.

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Ciao Darko

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E così – dopo Umberto Eco e Leonard Cohen, David Bowie, Ettore Scola e Dario Fo – questo 2016 si è portato via anche Darko.

Darko era un cane, un cane gigante. Di razze non capisco un fico secco e non ho voglia di cercare su Google una precisione che ora non mi serve a nulla. Anche perché per me Darko era un orso. Casa sua distava pochi passi dalla mia piccola scuola e il luogo dove ogni giorno parcheggio la macchina era per lui un corridoio di passaggio frequente, tant’è che lo incontravo spesso, mentre rimettevo uno sopra l’altro i quaderni corretti che si erano sparpagliati nel bagagliaio a causa delle curve. Lui passava e andava di fretta, con quell’andatura ciondolante per via di certe vecchie ferite alla zampa. Aveva l’aria tipica dei cani quando sembra abbiano chiarissima in mente la meta del percorso.  Un’aria invidiabile, a pensarci bene, ché a noi tocca in sorte molte meno volte di quelle che vorremmo.

Darko era il cane (l’orso) di una mia alunna, nel frattempo licenziata, diplomata e laureata. L’ho conosciuto mentre l’accompagnava standole al fianco, mai al guinzaglio, e chissà se ne aveva mai visto uno, di guinzaglio. L’ho accarezzato mentre lei lo stropicciava di abbracci e si faceva leccare la faccia, da selvaggio a selvaggia. Qualche volta l’ho avuto ospite nella mia biblioteca di montagna, dove si accucciava fedele attendendo che della padrona finissero le scelte librarie, o più spesso le chiacchiere. Mai un lamento, mai un guaito. Mai un bau (mica fanno bau, gli orsi). Era l’animale più grande del paese e faceva meno paura del più piccolo dei gatti.

Certe mattine l’orso Darko era il primo essere vivente con cui mi relazionavo. Perché un “ciao Darko”, mentre lui passava spedito a fianco della mia Peugeot, poco dopo le sette, io lo dicevo sul serio, ad alta voce, e aveva senso come oggi scriverlo qui.

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#BastaunNo, fermiamo sul nascere un nuovo dibattito sulla Sinistra

#BastaunNo, davvero.

Siete ancora in tempo.

Stoppate il dibattito sulla sinistra, vi prego.

Poi lo sapete che non riuscite a fermarvi, che vi fate prendere la mano. Vi parte quel gran rimescolo di ricordi, rimorsi e rimpianti e va a finire che davanti agli occhi non vi resta che quella grande nebbia avvolgente.

Michele Serra con il suo articolo di oggi ha evocato il grande sabba delle spocchie e delle superiorità morali. Uno tsunami di opinioni – le stesse già espresse in altre 56 occasioni, ristampe delle ristampe delle ristampe – sta ora per abbattersi sulla nazione. Un profluvio di brillanti allusioni, di maliziose insinuazioni e di orgogliose rivendicazioni di appartenenza. Il tutto ancora una volta meravigliosamente inutile, mentre il Paese rivolge il suo sguardo sempre più spesso verso visioni del mondo inedite e – ahinoi – basiche.

Per una marea di italiani a cui prude la matita copiativa

  • siamo invasi dai migranti (va da sé: bisogna cacciare i migranti)
  • la politica è il regno dei ladri
  • l’Europa è una merda
  • e comunque decide tutto qualche banca d’affari americana

E questi che fanno?

Dibattono della Sinistra, se debba o non debba accogliere Renzi tra le sue fila. Sminuzzano il 60% del 4 dicembre chiedendosi se fosse un No alle riforme, un No al Pd, un No a Renzi, un No alla seconda repubblica nel suo complesso, un No al Sì di Pisapia. Disquisiscono fondamentalmente di ombelichi, i loro.

Serra & Co: anziani che bisticciano – cardigan di lana beige,  mani intrecciate dietro la schiena – davanti al cantiere del nostro sciagurato domani.

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Riddando come pazzi in vetta ai roccioni

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Antonia Pozzi è morta il 3 dicembre 1938, suicida, a 26 anni. Sarebbe diventata il nostro poeta più grande. Per me lo è stata comunque.

Da ragazza  ha scritto versi come questi.

 

Questa notte è passato l’autunno:

l’accompagnava un’orchestrina arguta

di pioggia e folatelle e gli gemeva

una ballata, carezzosamente.

Tutto il corteo ha danzato sopra i tegoli

e zampettato dentro la grondaia

fin dopo il tocco; poi la brigatella

si è incamminata verso la montagna,

col suo fulvo signore. E tutta notte

hanno gozzovigliato in mezzo ai boschi,

i gaietti compari. In lunghe file,

hanno scalato i dossi più audaci,

hanno riddato come pazzi in vetta

ai roccioni più aspri. Verso l’alba,

si son scagliati in basso a precipizio,

scivolando sul capo dei castani,

investendo a rovina le betulle,

lacerando tra i ciuffi di robinie

le tuniche dorate, abbandonando

i drappeggi di nebbia in mezzo ai rovi.

Stamane, di buon’ora, quando il sole

ha profilato d’oro le montagne,

si sono dileguati. Ma sul dorso

d’ogni boscaglia, son rimaste tracce

del festino notturno: guizzi gialli,

guizzi rossastri, appesi ad ogni ramo

come stelle filanti; manciatelle

di ruggine nel folto del fogliame,

come pugni sfacciati di coriandoli;

tazzettine di colchici, smarrite

dalle fate nei prati, per la fretta;

e in noi, l’eco affiochita delle nenie

frusciate dalla pioggia, nella notte;

in noi una bontà dimenticata

– tenerezza calduccia di bambino –

in noi un abbandono senza nome

– desiderio di brace e di carezze –

 

Antonia Pozzi, 30 settembre 1929

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6 ragioni abbastanza originali per votare Sì il 4 dicembre

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Domenica 4 dicembre voterò convintamente “sì”.

Nel corso di questa estenuante campagna elettorale non ho mai cambiato idea, ma ho cercato di mettere in crisi il più possibile la mia posizione. Ho letto i libri di Zagrebelsky, di Onida e di Pertici: tutti e tre paladini del No. Mentana, Gruber, Floris, Semprini, Berlinguer, Vespa: ho dato. Quando ho cominciato ad addormentarmi nonostante gli ospiti dei dibattiti stessero litigando furiosamente, ho capito che ne sapevo abbastanza.

Credo che le differenti posizioni emerse in questi mesi siano tutte più o meno rispettabili: c’è chi ritiene salvifica la riforma costituzionale e chi la reputa una sciagura; tra gli equidistanti c’è chi ritiene brutta la Carta vigente e pessima quella che potrebbe nascere, ma c’è anche chi giudica ininfluenti per i destini dell’Italia entrambe le versioni, la vecchia e la nuova, perché i problemi starebbero altrove.

Quelle che seguono sono pertanto alcune considerazioni a margine, che tentano fondamentalmente di non ripetere troppo il già detto. Si tratta di pensieri che non fanno finta si tratti soltanto di faccende costituzionali, ma hanno ben chiaro come oggetto del contendere – tutto politico – siano pure l’alba del 5 dicembre e gli anni che ci aspettano.

Pensiero numero uno: la metafora della foresta

Ogni fautore del No ha sventolato i suoi spauracchi. Onida e Zagrebelsky non temono affatto gli stessi effetti nefasti derivanti dalla nuova Costituzione. Entrambi non sembrano dare tutto questo peso all’immunità parlamentare dei Senatori additata invece dal manettaro Travaglio. Alcuni invitano a considerare i rischi del combinato disposto, altri ne fanno una questione di forma (il nuovo testo sarebbe scritto in fretta e male). C’è chi vede derive autoritarie e chi premette con forza che derive autoritarie all’orizzonte non ce ne sono.

Se mi dicono che una buia foresta nordica è pericolosa, io mi spavento e arresto i miei passi. Qualcuno mi dice che è un ambiente gelido. Qualcun altro accenna a belve feroci pronte a sbranarmi. Un terzo consigliere non sa nulla di bestie e mi mette in guardia da certe bacche velenose. Arriva un tizio che mi sconsiglia di avventurarmi perché è in arrivo una tempesta, ma in compenso non ha notizia di frutti mortiferi. Insomma, continuo a considerare quel luogo un inferno oppure provo a proseguire con le precauzioni del caso contro gelo, animali, bacche, gocce di pioggia e altre cose che capitano normalmente nelle foreste?

Pensiero numero due: Maria Elena Boschi

Ormai ne ho fatto una ragione di approfondimento quotidiano, di studio, di analisi. Una piccola ossessione. Io devo capire perché la Ministra delle Riforme sarebbe inadeguata a ricoprire quel ruolo. Inadeguata, anche se quelli più tosti preferiscono “unfit”. Da subito, hanno cominciato a dirlo. Niente a che vedere con questa legge di riforma che ha preso il nome della giovane esponente del Pd: fior di Costituzionalisti  criticano aspramente la nuova Costituzione, ma molti loro colleghi altrettanto titolati la promuovono a pieni voti. Uno dei ritornelli più cantati in questa campagna elettorale è stato l’evergreen “entrare nel merito”. E io, nel merito fino al collo, non ho trovato uno straccetto di prova per l’inadeguatezza presunta della Ministra. Uno strafalcione, un qui pro quo, un capire fischi per fiaschi: nulla, zero pezze d’appoggio per la tesi “Boschi-unfit”, ma il paese sembra unanime: quella donna siede sulla poltrona sbagliata. In un paese (anche) di femministe agguerrite, la Boschi può diventare “la fatina delle riforme” senza che si levi una voce critica. Zero, inadeguata e priva di esperienza, punto. In un paese che in quel ruolo ha visto operare un dentista che se vede un’africana pensa subito (e solo) alle banane.

Posso immaginare un coro di voci pronte a smentirmi: c’è la frase sui Partigiani (che poi basta guardare il video…), c’è la Banca Etruria… Nulla che abbia qualcosa a che vedere con le competenze in materia di riforme, quelle che fin da subito han fatto dire ad una (ahimè) maggioranza di italiani che Maria Elena Boschi non era all’altezza.

Ecco, l’improbabile vittoria del Sì avrebbe di buono la sconfitta di un pregiudizio come quello.

Pensiero numero tre: la scuola

L’anno scolastico 2006-2007 si aprì con un annuncio dell’allora Ministro Fioroni (esponente della Margherita, oggi Pd), ai tempi del secondo governo Prodi. “Sarà un ministero-ponte, e io sarò un ministro-ponte”. Come a dire: “mi han messo qui e so che sarà per poco. Sappiate che non intendo rompervi le scatole”. Non accadde nulla e durò quel battito di ciglia, e nessuno nel mondo della scuola ha un ricordo cattivo di quell’esperienza. Nessuno ha nemmeno un ricordo qualsiasi, però. In buona sostanza, fu il contrario del renzismo furibondo e sgraziato applicato alla scuola. Dal 2014 più di centomila assunzioni, una gran bella botta al precariato storico (quella auspicata da tutti), un’iniezione di denari come non accadeva da decenni. Parole d’ordine roboanti, confusione ma anche idee e non solo idee confuse. Bandi sull’innovazione e bandi sull’inclusione. Una comunicazione sbagliata, un po’ di supponenza, chi lo può negare, ma soprattutto soldi, soldi, soldi. Piovuti sopra la scuola italiana che li chiedeva senza risposte da tanto, troppo tempo.

Vincerà il no e tornerà un ministro-ponte. Sarà comunque meglio di un Ministro dell’Istruzione grillino (ve lo immaginate?), che arriverà comunque a breve. Sarà quello dopo.

Pensiero numero quattro: la laicità

Il Governo di cui ci stiamo per liberare è il più laico della storia repubblicana. Vi viene da ridere, vero? Forse è perché non ci avete mai pensato. Il merito va equamente diviso con il Papato meno ingombrante e intrusivo per la vita civile della nazione, lo so. Ma tant’è. Le unioni civili sono lì a testimoniare questa verità: il “cattolico adulto” Prodi, con i suoi governi molto rimpianti, è riuscito solamente a dare un sacco di nomi – pure brutti – ad un diritto sacrosanto. La sinistra che più sinistra non si può ha definito la Cirinnà una legge che discrimina. Ottimo, intanto mille coppie di omosessuali si sono potute unire civilmente e la lingua italiana, libera dal capestro di commi e codicilli, ha fatto il resto: viva gli sposi!

Pensiero numero cinque: i migranti

Poche le critiche all’operato dell’esecutivo in materia di accoglienza. Il problema è enorme: imprevedibili e inquietanti sono i suoi sviluppi. Le istituzioni centrali, tuttavia, hanno gestito l’emergenza e in alcuni casi si sono distinte per slanci umanitari non certo scontati (…lo stesso non si può dire di moltissimi comuni). Abbiamo soccorso i vivi e anche recuperato i cadaveri dei morti. Di tanti morti. Era scontato? No, non lo era. Vent’anni fa, in epoca pre-crisi (i recuperi in mare aperto costano), il primo governo Prodi lasciò sul fondo del Mediterraneo i fantasmi di Portopalo, nonostante l’accorato appello di tutti i nostri premi Nobel.

Immaginate, quando ai comandi ci sarà un governo leghista o quando sul recupero di una nave di disperati si pronuncerà il web.

Pensiero numero sei: la lista

Mi sono allontanato dalla carta costituzionale da modificare o non modificare. Ci torno per l’ultima considerazione. Gira in rete quel meme, quella foto che campeggia sulla bacheca di un italiano su due. Ci son due colonne, il gioco è semplice: da una parte i Costituenti del ’46, dall’altra la banda di Matteo Renzi. Calamandrei contro Boschi, Croce contro Del Rio, Di Vittorio contro Scalfarotto, La Pira contro il Ministro Martina. Sfida impari, no? Volete mettere? Qualcuno ha risposto alla provocazione invitando ad immaginare una nuova colonna inserita a sinistra, dove iscrivere i nomi di Mazzini, Garibaldi, Cavour, ecc. Ci sarà sempre qualcuno di più grande e autorevole, qualcuno che sarà per forza venuto prima. Io provo invece ad immaginare una colonna inserita a destra, con i nomi tutti nuovi da inserire a partire da lunedì 5 dicembre 2016. Sono sicuro che molti di voi la stileranno in un lampo, con ottimismo. Io c’ho provato, mi sono intristito e ho cominciato a scrivere questo post.

 

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Il mondo salvato da Bebe Vio

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Piccola noterella divergente.

Bebe Vio alla Casa Bianca, una notizia di cui si è parlato molto. Come? Così:

  • un 96% di italiani fieri e toccati, quasi commossi;
  • un 2% (fisiologico) di idioti;
  • un 2% di speculatori (“è un gesto strumentale, la campionessa vale, ma nella fattispecie serve solo a raccattare in vista del referendum”).

Poteva andare peggio.

La notizia a mio parere era un’altra. Se Renzi avesse cercato la storia di uno sportivo paralimpico emancipatosi da un passato di dolore, voltato clamorosamente in gioia di vivere come fosse un calzino, avrebbe potuto pescare nel mazzo dei tanti atleti esemplari del Team Italia reduce da Rio. Nessuno avrebbe avuto nulla in contrario se al tavolo di Obama si fosse seduto a banchettare Alex Zanardi. Quella casella – chiedo scusa per la semplificazione – sarebbe stata comunque degnamente riempita.

Bebe Vio, invece, è soprattutto una ragazza. Una ragazza che, se uno non sapesse già diplomata e sul punto di intraprendere una carriera lavorativa, male non starebbe dentro la definizione di ragazzina. Sarà l’aria sbarazzina, sarà per quel sorriso che – en garde – è come una stoccata vincente. Una giovane italiana sul punto di chiudere il cartone dell’adolescenza, prima di dimettersi da quello sporco lavoro fatto di scelte ed errori, sbalzi d’umore e sbalzi d’amore, pianti e brufoli, eroi di cartone, interrogazioni di diritto, selfie e ricerche disperate di identità smarrite. Una tipologia di persona di cui tutti conosciamo l’esistenza, ma che tutti lasciamo spesso lì parcheggiata, in attesa di compiersi, né carne né pesce.

Metti una sera a cena da Obama e invece, per una volta, no.

Premi Oscar, donne che portano sulle spalle responsabilità enormi e hanno meriti universalmente riconosciuti, leader di potenze mondiali e una ragazzina che ricorda a tutti come la vita sia sostanzialmente una figata.

Un punto di vista indispensabile, direttamente da un pianeta misconosciuto.

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Le storie di Scuolamagia, Res cogitans, Stream of consciousness

I compiti per le vacanze e il papà Ikea

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Ritorna – c’era d’aspettarselo – il dibattito sui compiti delle vacanze/compiti per casa. Sterile come pochi, questa volta finisce in prima pagina grazie alla lettera di un padre che spiega ai docenti del figlio come quest’ultimo risulterà privo di consegne domestiche svolte, alla ripresa settembrina delle lezioni. Mi sforzo di pensare che i colleghi capitati in sorte al giovane Mattia siano insegnanti della peggior specie e che i compiti in questione fossero esercitazioni sterili, noiose ripetizioni di meccanismi già rodati, applicazione di schemi acquisiti da tempo. Tuttavia, i compiti non sono sempre e soltanto quello che “la gente” pensa che siano. La parola compiti può significare tante diversissime cose: tutte faticose, siamo d’accordo, tutte implicanti un sacrificio che mai assoceremmo al concetto di vacanza. Mai mi sono illuso che possano essere divertenti, i compiti. Utili, molto spesso sì.

I compiti devono essere sfidanti. Devono stanarti, venirti a cercare nella tua quiete intellettuale per colpirti con un sasso. Un buon esempio? La scrivania che il padre finito sui giornali dice di aver costruito insieme al figlio, in sostituzione dei compiti. Esattamente così, sono i compiti.

C’era una scatola di cartone spigolosa che a fatica era entrata in macchina. Era piena di tavolette di legno e di un numero imprecisato di viti e altri pezzetti di plastica. Era accompagnata da un unico foglietto di istruzioni per niente chiaro, reticente su tanti indispensabili passaggi. Una sfida. Accettata e alla fine magari vinta, anche se a voler esser puntigliosi quel cassetto proprio dritto dritto non è. (Daddy, letterina all’Ikea?).

O popolo che numeroso ti sei schierato con il coraggioso genitore, sappi che i compiti non sono sempre una maledizione. Alcuni sono molto meglio di montare una scrivania. I migliori, per esempio, escludono addirittura la partecipazione attiva dei familiari. Proprio non la rendono possibile, sono strutturati affinché la farina provenga tutta dal sacco giusto. Li auguro a tutti i papà, regalano un sacco di tempo libero e permettono, che so…, di montare (senza i figli) una libreria in mogano.

A proposito, il buon Mattia non ha nemmeno letto un libro quest’estate? C’era sicuramente qualche indicazione in proposito, tra i suoi compiti delle vacanze. La lettera non fa cenno a buone letture, si parla di biciclette, campeggi, gestione della casa (non hanno pedalato, forse, i bimbi in regola con la compitazione? Non hanno attraversato boschi e piantato tende? Non lavano i piatti? Non stendono calzini?). Durante l’estate, sul loro blog delle vacanze, i miei alunni mi hanno giorno per giorno raccontato avventure, bagni, viaggi, escursioni, partite di questo e di quello, sogni, ambizioni… Mi hanno raccontato quella vita che stanno giorno per giorno scoprendo anche, come è giusto, da soli. Sostenuti ovviamente da mamme e papà, ma senza che di quelle giovani vite si sentano artefici soltanto perché tengono in mano le istruzioni, in svedese, della libreria da montare.

P.S.

Pochi hanno notato questo passaggio nella lettera del babbo di Mattia. “Diversi docenti, psicologi e avvocati condividono i mio pensiero…”. Avvocati??? E cosa diavolo c’entrano gli avvocati? Che ne sa un avvocato di compiti per le vacanze? Che ne sa più di un panettiere, di un architetto, di un disoccupato?

Evidentemente, si tratta di una nemmeno troppo velata minaccia.

Ebbene sì, il papà conosce un principe del foro che lo aiuta con il trapano a montare le scrivanie.

P.S. 2

La lettera che il papà ha recapitato ai docenti del figlio è scritta a mano, in bella grafia.

Lungi da me ogni tecnoestremismo, ma non sarà il caso di regalare a Mattia un pc economico con una stampante? Magari i suoi insegnanti, passate le vacanze e caduto il divieto, voglion darci dentro con classi virtuali, lezioni capovolte, episodi di apprendimento situato, raffiche di link… La vita di Mattia è proprio finita, tocca rassegnarsi.

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Res cogitans, Tutte queste cose passare

Perché fa schifo la vignetta di Mannelli

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Diciamolo, caro Mannelli: una vignetta che interpreta alla perfezione il pensiero del direttore che te l’ha commissionata non parte benissimo, se parliamo di satira.

Una vignetta con le cos(c)e afflitte dalla cellulite di una Ministra non brilla per potenza a un paio di centimetri da dove quotidiani editoriali invitano quella stessa donna a pensare alla sua pelle bucherellata piuttosto che alle riforme.

Paradossalmente, diventa la pallida didascalia – e la serva – di quegli articoli.

Sarò troppo romantico io che ho sempre immaginato il vignettista come un isolato, un genio solitario pronto a farsi cogliere dal fulmine dell’ispirazione. Mi risulta che Altan – uno tra i tanti anche se uno come nessuno – sia persona molto introversa e riservata. Nel caso della tua Boschi cicciottella, caro Mannelli, si sente forte la puzza di un dannato gioco di squadra: il giornale più esposto sul fronte del NO al referendum e su quello (apparentemente altrettanto vitale) della magrezza di chi ci governa; il giornale di Travaglio che mette in scena a teatro la Ministra in questione impersonata da un’attrice che ovviamente incespica, si confonde e balbetta (e sarebbe curioso vederlo alla prova in un confronto vero con la Boschi, Travaglio, lasciato libero di scrivere soltanto la propria parte…); il giornale de “La Fatina delle Riforme”; il giornale di Scanzi…

Non me la vedo proprio ElleKappa rispondere a Ezio Mauro (o Calabresi, o…): “sì, direttore, agli ordini… una bella sberla al Salvini sul tema migranti per condire il pezzo di Serra… perfetto, gliela mando per le 18.30, saluti la Sua Signora…”. No, non può funzionare in questo modo. Dove finisce così la libertà, di cui la satira è soltanto un effetto collaterale?

Credo infine che Maria Elena Boschi si sappia difendere molto bene anche da sola. Si tratta, invece, di proteggere la satira. Non dalla censura, ma dai suoi autori.

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Whish you were here a Kabul

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Quando si trovarono uno davanti all’altro, Don Lorenzo Milani e Alexander Langer discussero animatamente di molte cose. Tra le tante, del raggio d’azione che può avere la propensione umana verso il bene altrui. Per Milani esistevano precisi limiti: si può volere il bene di 300-400 persone al massimo, non di più. Langer non era d’accordo, per lui quell’orizzonte non doveva porsi limiti, l’umanità è una sola e va amata al gran completo.

Ripenso a quella discussione mentre leggo la storia e guardo le foto di Lanny Cordola, chitarrista californiano che ha lasciato una carriera di successo per trasferirsi in Afghanistan e insegnare la pratica del suo strumento ai ragazzini e – soprattutto – alle ragazzine di quello sfortunato paese.

Colpiscono le dimensioni del progetto. Piccolo, limitato: coinvolge un numero quasi ridicolo di ragazzini e porta loro una competenza minima. Nonostante i chitarristi in erba dicano di sognare ambiziose carriere, difficilmente da quelle parti le sei corde potranno sciogliere da sole i nodi delle loro esistenze.

Ma Lanny questo sa fare. Ti fa sedere per terra, ti accorda lo strumento, ti dice dove mettere le dita della mano sinistra che all’inizio sono blocchi di cemento, ti fa sentire un ritmo e comincia a battere, a levare. Come si fa negli oratori, nei campeggi o nelle ore di musica a scuola. Soltanto che lui prima batteva e levava a Los Angeles e in tutti gli Stati Uniti, batteva e levava nei dischi (batte e leva ancora su Spotify, se qualcuno ha voglia di ascoltare…). Lanny non è volato in Asia per cambiare le sorti dell’Afghanistan, a lui stava a cuore la sorte di Mursal, sopravvissuta all’esplosione che ha condannato a morte le due sorelle maggiori, le cui fotografie giganti ora addobbano la scuola per chitarristi di Kabul. Dopo Mursal sono arrivati altri studenti, non più di 50. Un po’ alla volta, come con gli accordi che si imparano. Si comincia con un MI-, ché bastan due dita più o meno nello stesso angolino di chitarra. Le canzoni spesso sono musiche popolari afghane, ma Lanny non disdegna i grandi classici di ogni strimpellatore occidentale.

In questo video, Lanny & Mursal eseguono Wish you were here. Pazienza se Mustafà, il bimbo nel mezzo, più piccolino, non va oltre il MI- di cui sopra. Imparerà.

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Res cogitans, Tutte queste cose passare

Aylan che non si chiamava Aylan

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L’avevo letto in un articolo di Adriano Sofri. Quel bambino si chiamava Alan, non Aylan. 24 ore e lo riscrivono correttamente, avevo pensato. Che ci vuole? Son cose che succedono, la concitazione, i fischi che fan presto a diventare fiaschi.

Sono passati i giorni. Sono passati tanti giorni. Alan è rimasto Aylan. Ci è entrato in testa. È entrato nei nostri discorsi, è stato disegnato dai bambini nelle scuole, è stato proiettato durante i comizi e durante i talkshow. Con il nostro nome, però. Perché non ci siamo corretti? Perché i media non hanno detto scusate, abbiamo controllato meglio, sembrava si chiamasse così, e invece si chiamava cosà?

Il sospetto è che suonasse meglio Aylan. Pronunciato Aylàn: vuoi mettere l’esotismo? Alan prima di tutto non sembra il nome di un bambino, e poi di Alan ce ne sono un sacco anche dalle nostre parti. Aylan era perfetto. Semplice, diretto, efficace. E in fondo noi quella storia dovevamo venderla.

Oggi, dopo sei mesi, un padre chiede che suo figlio che non c’è più venga ricordato con il suo vero nome. Prova a ridircelo, di stare più attenti.

Certo, poi il problema è che di corpicini affogati continua ad essere pieno il Mediterraneo, si chiamino come vogliono.

Però non è difficile, e forse siamo ancora in tempo: tasto destro, un clic su rinomina, invio.

 

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Camminando Gemona, quarant’anni dopo

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Ho infilato Niccolò Fabi nelle orecchie per camminare la notte gemonese. Un paio di chilometri sono stati sufficienti per raggiungere il luogo dove mi trovavo esattamente quarant’anni fa, davanti alle macerie della mia casa. Avevo un anno e pochi mesi, in quello spiazzo di disperati. Doveva essermi sembrato una specie di festa, quello che mi accadeva attorno – il correre e il gridare, il soccorrere e il disperarsi – perché ebbene sì… ridevo. Rideva tutta la mia faccia paciocca. Ho sempre provato una strana vergogna, nell’ascoltare, all’interno dell’aneddotica su quel 6 maggio, la storia del mio riso inconsapevole. Nella notte più lunga ho presto voltato quell’allegria in un pianto disperato (ho vergogna pure di quello, c’era attorno a me chi distrutto tentava inutilmente di lasciarsi soffocare dal sonno), per la tragedia piccola di un ciuccio smarrito.

Sono tornato lì, come per un appuntamento. Ho spento la musica, il tempo di sentire rumore di stoviglie, telegiornali, chiacchiere. C’era un bassotto che gironzolava libero e inquieto. C’erano quarant’anni sul selciato, come i capelli dal barbiere, canterebbe un altro maestro di quelli che si infilano nelle orecchie.

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I nostri giornali che ci lasciano nel fango

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Ho fatto un rapido giro dei giornali on line norvegesi e ho guardato le figure. Mi è sembrato – anche se non posso esserne sicuro, ovviamente – che alcuni  nemmeno riportassero la notizia di Breivik risarcito dallo Stato per aver subito un trattamento inumano. Forse da quelle parti è già vecchia e c’hanno incartato gli stoccafissi, forse non scrivono quel triste cognome nelle titolazioni.

Fatto sta che nessuna delle testate che invece riferiscono di quella sentenza sceglie di accompagnare la notizia con la fotografia del saluto nazista compiuto da quel folle giovane durante un’udienza. I nostri giornali: tutti. Compresi i più autorevoli. Niente di nuovo, nessuno stupore. Però qualche somma dovremmo iniziare a trarla, davanti ad un fatto di tragica normalità.

La legge norvegese dice che in carcere si dev’esser trattati in un certo modo. Che la vittima sia una come nel caso le vittime siano 77. C’è una soglia, in Norvegia, e sotto non si scende. Adesso si aprirà un dibattito: ci saranno gli indignati, quelli che non potranno non pensare – loro, eh – a quelle povere madri e a quei poveri padri, quelli che ci voleva la pena di morte, quelli che riporteranno le battute che farà Travaglio, quelli che eccetera eccetera. Nel frattempo, i nostri giornali ci ricordano puntuali che quel personaggio è pure uno sporco nazista. Ci danno la loro spintina, insomma, come se servisse.

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Piccola posta, Res cogitans, Stream of consciousness

Nessuno tocchi Caino, e neanche Doina…

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Prendo un pugnetto di righe di Adriano Sofri a cui sono  molto affezionato, scritte pensando a Erich Priebke. Mi permetto di sostituire alcune parole, e al posto del vecchio nazista ci metto la trentenne Doina Matei. Il discorso fila lo stesso, limpido, con il surplus di pietà che una ex prostituta di trent’anni, madre a 14, carcerata da 9, merita rispetto a un vecchio camerata coerente fino all’ultimo con il suo passato di carnefice.

«Un minuto dopo la sentenza, sarei stato sollevato se Doina Matei fosse stata rimandata a casa sua. Non ha alcuna importanza, ai miei occhi, che donna sia oggi, quali pensieri esprima o taccia sul suo passato, quali selfie posti o non posti su Facebook, di quali sorrisi si renda protagonista.  Riguardano lei. Forse riguardano i parenti della vittime, ammesso che diano peso a ciò che lei dice o tace, o fotografi: non so. Per me non ha alcuna importanza. Non importa niente che donna sia, ma che sia una donna.»

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Soletta, Stream of consciousness, Tutte queste cose passare

Un bicchiere di vino frizzante per Gianmaria Testa

Dentro la tasca di un qualunque mattino è stata la mia prima canzone sua. Un pezzo sorprendente, semplice e originalissimo. Ore a chiedersi chi fosse quel genio in ritardo, mostrosacro senza apparente passato. Ore spese a cercare la nota nascosta dalle parti di quel SOL maggiore, minuscola ma indispensabile. Per poi cantare, cantare, cantare ancora.

Mi piace ricordare un grande cantautore ricercando per i fatti miei quella nota maledetta – si è nascosta di nuovo, ma la scovo, sì che la scovo – e postando questo video.

Gianmaria sta sul trespolo, l’arpeggio già si muove come onda, la canzone è salpata. Arriva una ragazza, commessa di libreria. Gli versa in un calice un vinello frizzante, sussurra qualcosa di inutile, che niente a che fare con quella magia in corso. Il cantautore sorride gentile, fa sì con la testa, la bocca ancora al riparo sotto la coperta dei baffi. Dolce. Inizia a cantare. Dentro la tasca di un qualunque mattino, dentro la tasca ti porterei.

 

 

 

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La donna con il foulard giallo

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Vagavo smarrito nell’ala semideserta di centro commerciale semivuoto.

Attendevo il mio turno al bancone dei cellulari. La mia transazione sarebbe stata rapida, immediata, ma prima di me una signora logorroica chiedeva lumi su un nuovo modello di smartphone. Così, mi aggiravo tra gli scaffali consapevole che nessuno, almeno a quell’ora del pomeriggio, mi avrebbe scalzato nell’ordine gerarchico dei clienti.

All’improvviso mi sono ritrovato nell’angolo dedicato alle Tv, nonostante non mi servisse nessuna Tv. 50, 60 schermi accesi, grandi e piccoli, più o meno luminosi, più o meno costosi, più o meno in offerta, alcuni addirittura curvi, devono essere l’ultimo ritrovato di quel settore. Mi sono sempre chiesto cosa orienti la scelta dei titolari o dei commessi, in luoghi come quello. Ho spesso notato come oltre allo scontato calcio, vadano forte le partite di tennis proiettate in simultanea. I campi sono coloratissimi ed essenziali, geometrici; tennisti e tenniste capita siano ragazzi e ragazze avvenenti. Notevoli anche gli effetti di una moltiplicazione di surf a sfidare altissime onde, dei sorpassi al ralenty tra due moto, di una cucciolata di tigrotti.

Oggi pomeriggio, niente di tutto ciò

Mi ha sorpreso prima di tutto un colore. Quel giallo caldissimo moltiplicato su decine di schermi. Giallo Samsung, giallo Sony, giallo Philips, giallo… Era il colore di un velo, un foulard avvolto attorno al collo di una donna matura. Le Tv tacevano il suo nome, il destino l’ha proprio cancellato, il suo nome, sostituito a forza con quello di suo figlio. Ti chiami Paola ma non importa più a nessuno. Ora tutti ti chiamano mamma, la mamma, e il tuo cognome è diventato un nome proprio di ragazzo. Lo urlano, i sottopancia delle Tv, in quel grande negozio e in tutte le case, sugli schermi dei computer connessi.

Non ti ho potuta ascoltare, però, Mamma di G., eri ovunque, stavi parlando ma in sottofondo la tua voce non c’era. In quegli istanti mandavano una Rihanna di qualche anno fa. La tua faccia bianca era segnata, stanca. Parlavi lentamente, facevi delle pause. Finalmente davanti ai telefonini è toccato a me. Voglio quello, grazie. Pago laggiù? No, non mi serve niente, più o meno so come si fa, davvero, grazie. Bancomat. No, tengo in mano. La garanzia, certo. Grazie.

Poi è stata una corsa, forsennata, verso la macchina. Le scale di casa da salire volando, come da ragazzo quand’ero in ritardo. Accendere la Tv, ‘stavolta la mia, cercare la rete allnews, vedere quella donna alzarsi, salutare, ringraziare, c’è un volo da prendere, scusarsi.

Ho quindi raggiunto il computer, atteso che i siti mettessero ordine alle homepage. Ascoltato, chiuso il cerchio.

#VeritaPerGiulioRegeni

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C’era uno al mio paese. Era Cruyff.

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C’era uno, al paese della mia infanzia.

Lo chiamavano Cruyff.

All’epoca ero un ragazzino delle elementari, molto per bene e pure un po’ secchioncello.

Tuttavia, pensavo sempre e soltanto al calcio. Oltre a quello che praticavo con scarsi risultati al campetto, c’erano quello da tifare in tv, quello da leggere (meglio, studiare) sul “Guerin Sportivo”, quello da contemplare in chiave ironica (ma sognante) nei cartoni di Holly e Benji, quello da disegnare su certi quadernini che ancora conservo, quello da giocare con qualsiasi giocattolo, da Big Jim calciatore (creato all’uopo) fino agli animali della savana orrendamente piegati a calciare biglie di vetro. Giraffa compresa, eccellente nel gioco aereo.

E ogni, tanto, per la strada, mi capitava di incontrare Cruyff.

Sì, perché nonostante fosse ovvia la ragione di quel nomignolo, io a quell’uomo che avrà avuto meno di trent’anni non ho mai visto segnare una rete, nemmeno fare un tiro o calzare un paio di pantaloncini da calciatore. Niente di tutto ciò, lo ricordo in jeans e maglietta, al negozio di alimentari, davanti al bar per un bicchiere con gli amici.

Però era Cruyff, qualcuno l’aveva chiamato così e tutti si erano adeguati. Non poteva essere soltanto per via di quel suo essere un lungagnone dinoccolato, con viso magro e appuntito, seppur coperto da una folta barba chiara.

Va detto anche che al mio paese, piccolissimo comune di montagna, tutti eravamo piuttosto fieri della locale squadra di calcio, infarcita di talentuosi giocatori invidiati da tutti i tifosi delle vallate limitrofe. Senza che Cruyff ne indossasse la maglia, però, a causa di un lavoro che lo teneva per lunghi periodi troppo lontano da allenamenti e partite. Mi sembravano dei mostri, e non avevo ancora visto niente. Non avevo visto Cruyff.

Un’altra cosa va aggiunta. A quei tempi, parlo della metà degli anni ’80, un ragazzino come me non aveva mai visto nemmeno Cruyff quello vero. Il Profeta del gol si è infatti ritirato nel 1984 e allora mica esistevano le compilation su YouTube e i Vine da pescare su Twitter. Insomma: guardavo con infinita ammirazione “uno” che somigliava a “uno” che non avevo mai visto, se non in qualche foto. Un doppio atto di fede carpiato. Di quelli che riescono bene ai bambini, probabilmente grazie alla magia di certi racconti ammalianti fatti dagli adulti.

Avevo una decina d’anni, camminavo per strada nel paesino dove tutti si conoscono e dicevo con gentilezza “ciao”. A tutti.

A volte mi rispondeva Cruyff.

P.S.: Per la cronaca, il Cruyff del mio paese non l’ho mai visto giocare, per quell’altro poi fortunatamente sono arrivate le compilation su YouTube e, per la cronaca, il goal più bello è questo qua.

 

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