Le storie di Scuolamagia, Soletta, Stream of consciousness

La fuga di Guia

 

Qualcosa mi dice che nessun brano di Guia Soncini sia stato ancora “antologizzato” nei ponderosi tomi in uso nelle scuole secondarie di primo grado, strizzato tra Calvino e Buzzati, tra Piumini e Omero.

Qualcuno dovrà pur cominciare, no? Almeno a leggerla, almeno in fotocopia,  ‘sta benedetta autrice contemporanea.

Io comincio la prossima settimana.

 

La prima volta che scappai di casa ero in quinta elementare. Su Canale 5 facevano un ciclo di telefilm intitolato I simpamici (i traumi inferti da certi titolisti non sono stati abbastanza indagati): un giorno mandavano Il mio amico Arnold, un giorno L’albero delle mele – cinque baluardi degli anni Ottanta a settimana.

Litigai con mia madre per ragioni che non ricordo (e che probabilmente non ricordavo già due ore dopo), e uscii di casa determinata a non tornarci. Ero sicura della mia scelta senza ritorno almeno quanto mio padre era convinto di non poter vivere senza quel qualcosa di biondo con cui si accoppiava da anni (illudendosi probabilmente da altrettanti anni che lei lo volesse tutto per sé).

La prima tappa della mia grande fuga era casa della mia migliore amica. Non ricordo se il piano prevedesse di fermarsi lì o poi fare il giro del mondo: non sono mai stata una bambina avventurosa e l’amica abitava, secondo misurazione fornita oggi da Google Maps, a 140 metri di distanza. Ma non importava, perché il silenzio e l’inconsapevolezza di dove mi trovassi avrebbero gettato i miei nella più cupa angoscia – no?

Dalla mia amica c’era il televisore rotto. Era l’ora di pranzo. Chiamai mia madre e feci l’annuncio con tutta la pomposità richiesta dalle circostanze: «Sono scappata di casa. Torno alle cinque per i Simpamici».

Guia Soncini, I mariti delle altre, Rizzoli

 

 

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La dolce supplenza

Come in una sorta di dolce supplenza. Come avessero ricevuto una delega, e se ne occupassero per conto terzi. Consapevoli che, anche se son costati 35 euro (!!!!), i miei pasticcini non sono e non saranno mai la stessa cosa. Consapevoli altresì che con le mie mani non saprei da dove cominciare…

Ogni anno una mamma di Scuolamagia confeziona con figlio e figlie la mia torta di compleanno, in un gesto che è stato dapprima una grande sorpresa ma che in fondo in fondo ormai finisco spudoratamente per attendere, per prefigurare (cioccolato, crostata? cosa staranno architettando quei demoni del forno?), e che oggi si è compiuto con puntualità, inesorabilmente tenero, a dir poco magico.

Poi le torte a scuola, si sa, hanno vita breve di farfalle. Ma il profumo resta nell’aria, e impregna l’anima.

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Soletta, Stream of consciousness

Il capitolo che non c’è

Oh, boy! Che gran bel libro. So che avrei dovuto già averlo letto, mi par di aver capito sia una specie di classico. E io niente, l’avrò preso in mano cinquanta volte, riponendolo regolarmente sullo scaffale. La copertina, va detto, non viene propriamente incontro ad abbracciarti.

C’è voluta una citazione di Lella Costa nel suo saggetto delizioso sull’ironia, a convincermi di avere un conto in sospeso con quel leccalecca.

Il capitolo migliore, senza dubbio, è il tredicesimo. Non sono scaramantico e invito le gatte nere ad attraversare la strada prima del mio passaggio perché sono galante, tuttavia ho trovato di una dolcezza unica il cap. 13, mentre la vita di uno dei protagonisti è appesa ad un filo e quella degli altri non va proprio a gonfie vele.

 

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…ed è l’odore dei Limonov

E alla fine nella Pozzanghera è finito anche Limonov, il libro alla moda, il libro che spacca, il libro politicamente scorretto. Letto d’un fiato, e ora il fiato sa di limone, anche se quel “nome d’arte” in russo ha poco a che fare con gli agrumi e più con le armi. Granata, non granita.

Una lettura da cui credo di aver imparato un sacco di cose utili per capire certi snodi del presente e per immergermi in fatti più o meno remoti del secolo scorso. Ma il fascino di Limonov quello no, quello non l’ho captato, respirato, subodorato. Non avrò nulla di eroico e dannunziano, prevarrà in me un fondo di banalità e di buonismo, ma quando leggendo e sottolineando non pensavo che il protagonista fosse un fascista era perché stavo pensando che fosse un idiota, e quando non pensavo che fosse un idiota era perché riflettevo sul fatto che fosse disumano, e quando non pensavo che fosse disumano era perché lo consideravo maschilista, e quando non pensavo che fosse maschilista era perché pensavo che fosse – più semplicemente – una merda.

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Soltanto una mela

Quando un autore decide di divulgare un tema complesso (la Costituzione, il razzismo, la Mafia, la Shoah…) tra i ragazzi, raramente riesce a fare centro. Nascono quei libri, a volte piccini piccini, che fin dalla copertina dichiarano il proprio intento: “XXX spiegata/o ai ragazzi”. Le parole, tuttavia, capita che non siano quelle giuste. Non ci si improvvisa interlocutori di quel pubblico così ostico e ritarare una lingua su di esso è una missione impossibile. Specie per autori che con tutta evidenza non hanno manco il tempo di provarci a sufficienza.

Il libro che sto leggendo è in fondo un caso particolare che un pochino sfugge a questa regola.

L’ha scritto il giornalista Giovanni Bianconi ed è una cavalcata impetuosa dentro gli anni di piombo. Senza ragazzi, va da sé, nonostante i propositi di copertina. In primo luogo perché trattasi di un tomo di 400 pagine. Senza ragazzi, poi, per com’è scritto. I capitoli si aprono con immagini nitide, quasi tattili, le storie sono quelle dei figli adolescenti delle vittime, ottima idea nell’ottica di favorire l’identificazione dei lettori con quegli sfortunati protagonisti. Dopo la prima facciata, però, un ragazzo sbatte insesorabilmente contro le “convergenze parallele” e il “centralismo democratico”, contro “governi monocolore”, “esecutivi balneari” e “matrici neofasciste”. E non ce la può fare. A patto che per “ragazzo” si voglia intendere un ragazzo qualsiasi e non un “prescelto”, il prodotto di qualche élite.

Detto questo, ripeto: il libro è un affresco vivissimo di quei tempi agitati. Un ripasso indispensabile per chi – già grande – voglia rafforzare la sua memoria e sentirsi, come me in queste ore natalizie, un “ragazzo” affamato di storie e di Storia.

 

«Forse se n’era reso conto anche uno degli assassini, che dopo l’omicidio aveva afferrato il borsello del maresciallo convinto di rubare una pistola che sarebbe tornata utile alla causa. Ma quando l’aprì, scoprì che il poliziotto aveva portato con sè soltanto una mela».

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La cultura umanista ha ancora senso, aggiungendo un po’ di brodo…

 

L’SMS, letto nel tragitto tra la Pluriclasse e la 3ª, è fin troppo chiaro: “Oggi Lodoli ti farà incazzare”.

Il pezzo in questione sta in taglio basso su “la Repubblica” di oggi. S’intitola ADDIO CULTURA UMANISTA: PER I RAGAZZI NON HA SENSO. Inizia con il lamento di un’insegnante, una delle tante a cui Lodoli dice di aver porto la spalla consolatrice: “Io non esisto più, sono diventata invisibile. Entro in classe, comincio a spiegare e subito mi accorgo che nessuno mi ascolta”.

Io non ho le parole per dire come sia cambiata la scuola in questi anni. O meglio: le ho ma sono incerte, malferme, insicure, sono forti sensazioni e sensati sospetti. Non ho ricette e medicine, e giuro che consolerei anch’io col cuore la collega. Tuttavia, nel suo lamento sembra esserci già bello spolpato il nocciolo del problema. “Entro e comincio a spiegare”. Ci sono un po’ di vasi vuoti e c’è un otre bello pieno: la scuola è compiere un magico travaso di cultura, la didattica è un imbottigliamento di nozioni, concetti, idee. Ecco, collega disperata, non è così che può funzionare, oggi. Da ragazzo sono stato un vaso vuoto, mi sono messo in fila e ho lasciato diligentemente che le mie pareti di coccio si riempissero. I prof. spiegavano e io ascoltavo. Amavo però meno di un decimo di quello che assimilavo con dedizione, il resto lo stivavo in me perché ero soltanto un vaso e a quello servono, i vasi: a stivare cose, punto. Non so cosa siano i ragazzi del 2012, ma di una cosa son sicuro: non sono – e soprattutto non vogliono essere – dei vasi vuoti da riempire. La tua spiegazione, sconsolata prof., è una chiave inglese che si prefigge di aggiustare un McBook Air che non si accende più.

Continua Lodoli, e anche il suo è un lamento:

“Finita, esaurita, muta, forse non proprio morta e sepolta ma di sicuro messa in cantina tra le cose che non servono più: la cultura umanista sembra aver concluso il suo ciclo, ai ragazzi non arriva più niente di tutto quel mondo che ha ospitato e educato generazioni e generazioni, che ha prodotto una visione del mondo complessa eppure sempre animata dalla speranza di poter spiegare tutto nel modo più chiaro, adeguato alla mente dell’uomo, alle sue domande, ai suoi timori. Finito, possiamo mettere una pietra sopra alla filosofia greca, alla potenza e all’atto, alla maieutica e all’iperuranio, alla letteratura latina, alla poesia italiana da Petrarca a Luzi, al pensiero cristiano e a quello rinascimentale, con le loro differenze e le loro vicinanze, ai poemi cavallereschi e agli angeli barocchi, all’idealismo tedesco e al simbolismo francese, a Chaplin e Bergman, Visconti e Fellini: è tutto precipitato giù per le scale buie della cantina, tutto scaraventato alla rinfusa nel deposito degli oggetti perduti”.

Lo scrittore è un maestro della malinconia e del disincanto, armi con cui nei suoi racconti ha disegnato personaggi difficili da dimenticare. Quando dipinge i suoi studenti con i toni della stessa sconfitta, per giunta raggiunta ancor prima di combattere, non lo sopporto. E un po’ m’incazzo, sì. Da anni descrive ragazze e ragazzi delle scuole secondarie romane viaggiare nella vita come zombie: non un orizzonte da raggiungere, mai niente da fare, figuriamoci da credere. Occhi tristi, testa povera, sensibilità spuntata. Vittime di tutto: la società dei consumi, l’omologazione culturale, la famiglia. Mai un dubbio: e se fossi io quello sconfitto? Quello che non li sa più coinvolgere, quello che racconta la letteratura come si poteva fare vent’anni fa e come non è più possibile fare ora, con i tempi ed i linguaggi così cambiati. Quello che spiega e la spiegazione rimbalza come un pallone sul muro, e torna indietro, come un passaggio rifiutato: il canestro fallo tu, a me non interessa. E cambiare strategia? Cambiare linguaggio? No, troppo difficile, diamo per morto l’Umanesimo che facciamo prima. E cos’è la cultura umanistica, poi? Siamo tutti d’accordo oppure indiciamo le primarie e rottamiamo Petrarca e Boccaccio? (son lì da 700 anni e non hanno mai vinto, direbbe un’altra corona fiorentina…).

Ora, lo scrittore (e critico, e poeta, e sceneggiatore… ma, e mollare la cattedra nella scuola pubblica a un giovane più motivato, no?) non è nemmeno così categorico e tranchant come in altre occasioni. Sul finale, infatti, riconosce agli studenti le attenuanti generiche.

“Non è detto che questo dichiarato disinteresse per la tradizione sia una pura sciagura. Il mondo cambia di continuo, a volte lentamente, per passaggi quasi impercettibili, a volte in modo brusco, in una sola stagione, in un minuto. I nostri ragazzi leggono altri libri, ascoltano altra musica, amano e odiano in un altro modo, ragionano seguendo strade invisibili, e noi adulti non dobbiamo solo rimproverarli perché non conoscono Cechov o Debussy, Pasolini o Bob Dylan. Dobbiamo invece assolutamente capire dove stanno andando, perché ci salutano senza nemmeno voltarsi, perché non si fidano più della nostra cultura. Oggi loro sentono che la vita è altrove e la memoria non basta a reggere l’urto con le onde fragorose del mondo che sarà, che è già qui: serve energia, e quella non la trovi più nei cataloghi e nei musei”.

Puzza un po’ di soluzione di comodo, questa, però. Collocare i ragazzi in un altrove, magari nel posto giusto, chi lo sa, comunque in un universo lontano e irraggiungibile, nemico a oltranza di ogni tradizione. 

Ogni mattina mi metto lì e spiego. Una spiegazione può diventare un luogo di grande solitudine: sono terribili gli occhi che ti guardano senza guardarti davvero. È successo anche stamattina, eppure i miei aneddoti su Obama sembravano perfetti. Che delusione, maledetta 3ª di repubblicani.

Però a ricreazione c’erano ragazzini che correvano sulla fascia cantando a squarciagola le canzoni dei Beatles che abbiamo ascoltato insieme, a scuola. Chissà se la premiata ditta Lennon McCartney può essere ricondotta alla cultura umanista di cui parla Marco Lodoli…

Poi è arrivata Irene, 12 anni, gran lettrice.

“Ti ho portato un libro”, mi fa. “Mi piacerebbe lo leggessi”, continua. “Purtroppo è un po’ macchiato… una macchia di brodo…”.

Brava Ire, hai capito tutto… bisogna ridare sapore ai Classici. È quella la sfida.

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A titolo di premessa

Alla Pozzanghera piacciono da matti i romanzi di Ugo Riccarelli.

Ancora una volta lo scrittore ha scelto una fotografia di Édouard Boubat per la sua copertina.

Il titolo del libro è bellissimo.

Dentro c’è un personaggio, la protagonista, che si chiama “Signorina”. Il nome proprio: Signorina. Che a un certo punto immagino qualcuno dirà: “Signorina Signorina…”. Si chiama così per omaggiare un’omonima locomotiva.

Il romanzo è dedicato ad “Antonio, che è andato appena un attimo di là”. (Qualcosa mi fa pensare a Tabucchi…)

C’è anche un verso di Garcìa Lorca, prima che tutto cominci: MUOIONO D’AMORE I RAMI.

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Sfumature di grigio

Quest’estate i libri di Cristiano Cavina sono stati una grande scoperta. Che bisognasse leggerli lo sapevo da un pezzo, ma poi va da sé che si rimanda al futuro, come per certi caffè che ci si prefigge di bere con questa o con quella persona.

Pubblicato nel 2010, Scavare una buca è un romanzo duro e spigoloso, esattamente come i suoi personaggi, minatori che da decenni scendono i gradini della terra e trovano la loro piccola porzione di senso in quel ripetitivo fare il solletico alla montagna. La trama è essenziale, scarna; succede poco, pochissimo. Gli eventi il lettore li vede accadere negl’animi dei protagonisti, ma anche in quel caso tutto è mediato da un pudore e da una dignità più veri del vero.

Anche la matita sottolineatrice, di conseguenza, non ha trovato il suo pane. Nessuna frase si staglia sulle altre, si distingue, spicca; la forza del libro sta nel collettivo, nel gioco di squadra che fanno le parole.

Unica eccezione, marchiata dalla mia grafite e da un sorriso, a pag. 132, dove si descrive l’ambiente della miniera.

 

«Il mondo ha un sacco di colori, ma se passi un po’ di tempo nel bacino di coltivazione puoi stare sicuro che te ne resta uno solo.

Polvere di gesso, con una gamma infinita di sfumature di grigio».

 

Saranno mica 50?

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“L’hanno prossimo mi metteranno l’aria condizionata”

Giuro che non si tratta di deformazione professionale. Quando correggo non sono uno spietato cacciatore di errori, ho fin troppi dubbi attorno a una miriade si misteri grammaticali e se due opzioni linguistiche per un istante mi sembrano in conflitto, prefiguro immediatamente una soluzione che le contempli e le accetti entrambe, senza nemmeno scomodare il vocabolario.

Sono uno di quegli insegnanti a cui capita che gli alunni dicano: “ho dimenticato un accento e non te ne sei accorto”. Rispondo sempre in maniera diversa – “l’ho fatto apposta, per vedere se te ne accorgevi tu…”; “mi scuso e corro a firmare la mia lettera di dimissioni”; “è colpa della tua calligrafia incomprensibile, vedi, quella virgola mi sembrava un accento…”; “esiste una variante trecentesca senza accento, la usa anche Dante”; “quanto vuoi per insabbiare questa storiaccia dell’accento? Se lo sa tua madre sono rovinato…” – e non ci penso più.

Nei libri, però, gli errori non li sopporto. E capita sempre più spesso. E il più somaro, nella classe (casta?) degli editori, è senza ombra di dubbio Einaudi. Vabbè “STILE LIBERO”, ma così si esagera! L’avreste detto, Einaudi, così ordinato, con quel grembiule bianco e lindo, lui così di buona famiglia. La colpa non è degli scrittori, molto spesso sono infatti le opere tradotte le più lacunose.

Uno si affeziona a Chloe, ragazzina di strada dal tragico passato. Si affeziona soprattutto a sua sorella Camille, vittima delle peggiori violenze, personaggio di una feroce vitalità. Trova interessante lo psichiatra che si fa carico di entrare nella mente della protagonista, fino a riuscirci. E quando i due – medico e paziente – sono uno di fronte all’altra nell’ultimo breve capitolo, nello stanzino di cui hai quasi imparato a sentire il caldo asfissiante, ecco…

Non può finire così…

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Res cogitans, Soletta

Nino si chiamava

Dopo il libro più bello dell’estate, sicuramente quello più originale. Già il genere: una fantabiografia. Vita e pensieri verissimi raccontati con disegni stranianti: un uomo gigantesco raccontato a fumetti come fosse un bambino infinito, un po’ Peter Pan, un po’ (anche nel tratto) Piccolo Principe. Tante le cose imparate, altrettante le sottigliezze che, purtroppo, credo mi siano sfuggite.

In una parola: emozionante.

 

Carissimo Delio,

mi sento un po’ stanco e non posso scriverti molto. Tu scrivimi sempre e di tutto ciò che ti interessa nella scuola. Io penso che la storia ti piace, come piaceva a me quando avevo la tua età, perché riguarda gli uomini viventi e tutto ciò che riguarda gli uomini, quanti più uomini è possibile, tutti gli uomini del mondo in quanto si uniscono tra loro in società e lavorano e lottano e migliorano se stessi non può non piacerti più di ogni altra cosa. Ma è così? Ti abbraccio.

 

Antonio

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Solo FORZA PURA, nessuna FORZATURA

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Il giornale su cui scrive Aldo Cazzullo è lo stesso su cui scriveva Pier Paolo Pasolini. Uno che amava le posizioni scomode, uno che capovolgeva i punti di vista. Facile dire oggi quanto vedesse lontano, quanto le sue parole fossero profetiche. A quelli che c’erano già, probabilmente gli editoriali del poeta facevano venire la gastrite, o dei gran giramenti di balle.

Aldo Cazzullo, turbato forse dagli eccessi retorici di qualche collega, ha detto la sua sulla partecipazione di Oscar Pistorius alle Olimpiadi londinesi provando a pasolineggiare. Risultando decisamente più cinico che profetico.

Già dall’incipit è evidentemente “in posa”.

«Vi è parso che la presenza di Pistorius alle Olimpiadi fosse una bella storia innestata su una forzatura? Non siete gli unici. Sono d’accordo con voi».

Sa di mentire, il giornalista. Sa che l’opinione pubblica – più o meno a conoscenza della vicenda sportiva dell’atleta sudafricano – non ha affatto maldigerito quella presenza sulla pista, sa che certi dubbi da tempo non li solleva più nessuno e che forse può convenire a lui, risollevarli, sul giornale della domenica.

Fin qui tutto lecito, è compito della stampa pungolare i lettori e non grattar loro sempre e puntualmente il pancino. Sono le argomentazioni messe in campo nelle righe successive, a rendere pessimo il pezzo di Cazzullo.

Sulle questioni “tecniche”, sulle presunte distorisioni ai regolamenti di gara che la partecipazione di Pistorius provocherebbe, ha fatto per l’ennesima volta chiarezza Claudio Arrigoni

Ma c’è dell’altro: l’inviato del “Corriere” sente puzza di marketing. Pistorius ha degli sponsor che in questi giorni più del solito lucrano sulla vicenda umana del quattrocentista. Buongiorno Cazzullo! Benvenuto sul pianeta terra. Il giornalista pochi giorni fa ha elogiato con enfasi (e a ragione!) le gesta di Velentina Vezzali; se tuttavia applicasse lo stesso arido cinismo al caso della schermitrice jesina, giungerebbe alla conclusione che la nascita del celebrerrimo piccolo Pietro, 7 anni fa, fosse finalizzata alla creazione del mito dell’atleta-mamma, funzionale all’immagine della barretta ai cereali, leggera e nutriente, del marchio Kinder. A noi piccoli pasolini non la si fa. Sia dunque vietato agli atleti disabili di firmare contratti di sponsorizzazione (vade retro, Satana!) con chicchesia, e già che ci siamo alle madri spadaccine di figliare.

Sfugge inoltre a Cazzullo, il messaggio che Pistorius lancia quotidianamente al mondo dei disabili (sommati “la terza nazione del mondo”, per citare la suggestiva metafora di un bel libro), e invita tutti a guardare piuttosto all’esempio del ministro tedesco Schaeuble. Il giorno che un ministro dell’economia disabile si affaccerà sulla scena politica italiana, tuttavia, Cazzullo-Pasolini ci dirà che stiamo cedendo a qualche misteriosa forzatura.

Il perché secondo me Oscar Pistorius avesse diritto di partecipare alle Olimpiadi l’ho scritto 4 anni fa, alla vigilia di Pechino 2008. Non ho cambiato idea.

Come segnala Arrigoni, sulle pagine dei social network con cui l’atleta sudafricano comunica con i suoi tanti fan e follower non campeggiano soltanto i baffetti dello sponsor e nemmeno i suoi slogan ammiccanti. (Altra furbata di Cazzullo: “nothing is impossible”, usato nel suo articolo, non appartiene alla Nike di Pistorius, bensì, come sanno i ragazzini, all’Adidas. Ma all’autore serviva la parola “impossible”, e quindi l’unica soluzione era imbrogliare, operare – lui sì – una piccola forzatura: Just do it).

C’è una foto. Che la dice lunga. Lunghissima.

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Rosa Candida

Questo è poco ma sicuro: nonostante sia un libro molto di moda, nessuno è mai entrato in una libreria chiedendo “buongiorno, mi servirebbe l’ultimo libro di…”.

I vulcani islandesi hanno nomi ostici, si sapeva, ma anche le scrittrici non è che ti vengano incontro.

Più probabile che quel lettore abbia intercettato un cinguettio di Daria Bignardi, oppure si sia imbattuto in un post di Pippo Civati. Oppure è stato trafitto al cuore da una copertina einaudiana ammiccante e sontuosa. Oppure vai a sapere.

Poi però i libri vanno letti e Rosa Candida è davvero capace di portarti nei suoi luoghi, tra i suoi muschi e le sue foreste, nel suo monastero e nel suo giardino.

Ti fa incontrare i suoi personaggi stranissimi mentre fanno cose normalissime: spezzatini e figli, ma con la stessa indole meditabonda e sospesa. Un racconto di vite vissute in punta di piedi, nel tempo prezioso che si incastra tra un momento di felicità ed un altro di tristezza inguaribile.

 

«Si toglie gli occhiali e li posa sul comodino. Questo significa che non ha intenzione di leggere per prendere sonno. Io invece ho ancora il mio tomo in mano, con il dito a fare da segnalibro tra le pagine  del capitolo sulle modificazioni genetiche vegetali.

Ma una cosa mi sorprende più delle altre: osservare per la prima volta la mia amica senza occhiali, guardaree i suoi occhi senza che tra me e loro si frapponga uno spesso vetro. È come se non fossero mai stati all’aria aperta, è come assistere a una prima: la prima dei suoi occhi. Se non avesse i vestiti addosso, sarebbe meno nuda di quanto lo è adesso».

***

«Avanziamo lentamente verso il coro, dove il sole rosso arancio apparirà all’alba. A poco a poco la luce delicata si apre un varco tra le vetrate variopinte, e si spande dentro la chiesa come un velo leggero di cotone bianco. Mia figlia è immobile sulle mie spalle. Mi faccio schermo con la mano e fisso lo sguardo direttamente nello splendore accecante. È allora che la vedo, lassú, nella vetrata del coro: la rosa purpurea a otto petali. Nello stesso momento in cui il primo raggio trafigge la corolla e va a posarsi sulla guancia della bimba».

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#ilnegativodell’amore

Succede, ogni tanto. Arriva un libro, con la sua bella copertina, e si mette lì a disposizione di tutti. Un libro popolare, sì, niente di settoriale o specialistico, un romanzo dalla scrittura scorrevole, nessun rimando ipercolto, cose che accadono ai protagonisti e niente più. Un’operazione commerciale, partita da un autore o da un’autrice e passata attraverso meccanismi editoriali furbi e cinici, puzzolenti di pecunia. Tutto normale, purchè non si esageri: in fondo è così che funziona. Il meccanismo che si mette in moto, a pensarci bene, è lo stesso del Festival di Sanremo, anche se in piccolo. Fateci caso. Qualcuno impazzirà per quella storia, qualcuno la troverà ingenua ma interessante. Tutti diranno se hanno preferito Cica oppure Walker, i due protagonisti, e perché. I più acuti penseranno già agli attori idonei ad impersonare questo e quello: perché è ovvio che ne trarranno un film. Ci sarà chi vedrà in uno dei personaggi che popolano quelle 327 pagine se stesso o un suo familiare o un suo conoscente. Ci sarà chi impazzirà per quel cane spettacolare. E che dire del cavallo?, chioserà qualche altro lettore. La copertina, poi, azzeccatissima. Ti dirò, un po’ inquietante, e poi Cica me l’immaginavo diversa. Le somiglianze, gli echi, poi: come non pensare alla Solitudine dei numeri primi. Si chiamava così, no? Ecco, appunto. Verranno altri libri che cancelleranno la memoria di questo. E prima di farlo la ridimensioneranno. “Sì, carino, ma non so se è il regalo più adatto per tua sorella…”. Verranno altri fugaci successi, con altri titoli indovinati e altri occhi a guardarti dagli scaffali delle librerie. Arrivato a pag. 327, però, oggi gioisco per questa specie di Sanremo letterario che distoglierà tanti italiani dal loro presente per proiettarli verso il viso di una bambina che emerge dall’acqua.

 

«Io lo so cos’hai» dice Walker quando stanno già per arrivare al cancello.

«Sentiamo», Angelo volta la faccia a guardarlo.

«Sei innamorato» dice Walker, la bocca impastata di briciole. Pare scappato da un manicomio, così, in pigiama, in mezzo alle pozze a buttare pezzi di cornetto agli uccelli.

«Che stronzata», Angelo si schermisce, e gli tira un cazzotto alla spalla.

«Invece è vero» insiste Walker.

«Va bene, è vero.» La verità è che gli brucia la bocca, di dirlo a qualcuno.

Walker gli si ferma davanti. Lo guarda. Poi alza le braccia e se lo stringe al petto. Gli strofina contro la guancia la sua guancia di barba texana.

«Ma mi sa che a lei non piaccio affatto» precisa Angelo, dondolando la testa.

«Capisco», Walker gli stringe un braccio. «Succede anche a me.»

«Maddai» ironizza Angelo, «persino a te.»

«Però non importa», Walker si illumina: «Io amo lo stesso».

 

Maria Paola Colombo, Il negativo dell’amore

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Il dolore… ristretto

Il dolore perfetto di Ugo Riccarelli è un congegno meraviglioso. Un libro in cui trovare la Storia di tutti, senza che tra le righe compaia una sola data, e in cui RITROVARSI nella storia di uno dei tanti indimenticabili protagonisti. Un libro che leggerei al posto dei Promessi sposi, se insegnassi alle superiori. Un libro che mi avevano prestato e che oggi ritrovo dal giornalaio in un’edizione ridicola che sta in una mano e in un foglio da cinque euro. Certo, ora lo potranno acquistare molte più persone, magari anche l’adolescente che ama i libri ma – giustamente – deve pure caricare il telefonino.
Però… 5 euro… 15 cm… come si fa capire che dentro c’è il mondo?

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