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Cose mie

"Come restiamo colpiti, noi uomini, dalla naturalezza con cui alcune donne «disfano il lavoro», anche quando sono già ben avanti, perché c’è uno sbaglio, o perché sono scontente del disegno, o dell’effetto dei colori… Proviamo, noi maschi, un’avversione profonda, quando la strada si chiude, per il tornare indietro. Andiamo avanti, a costo della rovina."

Adriano Sofri, Il nodo e il chiodo

Essere donna. Essere donna in Carnia. Non possiedo alcun titolo per avvicinarmi al tema: non sono carnico, sono un maschio. Una volta l’anno, tuttavia, ho la fortuna di ricevere ospitalità sulle pagine di questo giornale sociale che mi dà carta bianca e si fida di me. Provo quindi a non deluderlo, arrischiandomi in un territorio che non mi appartiene.

In montagna si nasce come dovunque, con la differenza che non è possibile passare inosservati. Un fiocco rosa scompagina i numeri e la routine degli uffici anagrafe, è un goal della bandiera nell’impari sfida con la contabilità cimiteriale. A Topolò – una cinquantina di anime che, nelle Valli del Natisone a ridosso del confine sloveno, vivono aggrappate alla loro identità al punto di sentirsi il centro del mondo – pochi anni fa ci fu un’emorragia demografica: quattro funerali in due mesi. Il paese, scosso, seppe reagire, ma si rese indispensabile un rito fuori dal tempo. Fu una femmina – l’ultima nata, Sofia – a piantare una vite davanti all’assemblea dei residenti. Ci volle il tempo necessario, ma poi venne alla luce Marika.

Gli anni a scuola – scuola dell’obbligo – per una donna di  Carnia scorrono in plessi famiglia, tra i pochi coetanei, insegnanti della porta e della lingua accanto e altri spaesati migranti dell’educazione, testimoni di un mosaico di Italie che spetta ancora una volta alle aule ricomporre. Piccole scuole dove il caffè si fa ancora con la moka e dove di mondo, probabilmente, se ne impara un po’ di meno, ché le facce – gran belle facce – sono troppo poche.

Pazienza, piccole donne crescono comunque. si fanno strada scansando i luoghi comuni che le vorrebbero forti e decise, pratiche e introverse come nel cliché delle antenate: donne di poche parole, a cui si perdona più facilmente una bestemmia (siamo in Carnia!) che una lacrima. Non temono di essere fragili, le ragazze carniche di oggi, e accolgono sulle loro spalle il pesante fardello della complessità, le sfide di una società spesso – almeno in apparenza – spogliata dei suoi più solidi punti di riferimento e inevitabilmente secolarizzata. Piccole donne crescono e conquistano, con qualche fatica maggiore rispetto alle compagne dei fondovalle e delle pianure, la libertà dei loro ombelichi al vento, del loro studiare a lungo, del loro metter su famiglia (e che tipo di famiglia…), del loro essere o non essere madri.

Emanciparsi attraverso il lavoro è purtroppo un’altra utopia irrealizzabile per le donne di questa terra di confine. L’Italia non è l’Arabia Saudita che proibisce al sesso debole la guida delle automobili, ma ancora troppa è la distanza che ci separa dalla Svezia delle donne al volante – della maggior parte degli aerei, s’intende.  

La montagna soffre la sua endemica disoccupazione rosa, le poche attività produttive capaci di impiegare manodopera femminile chiudono i battenti sfiancate dalla concorrenza del made in China. Ancora una volta sarà necessario aggrapparsi ad uno sforzo supplementare, un surplus di energia e creatività. Al coraggio e all’abnegazione da staffette partigiane dovranno essere abbinate competenze nuove, elasticità e dinamismo. Le gerle da portatrici dovranno contenere le armi della moderna comunicazione: computer portatili per connessioni iperveloci, vasto assortimento di lingue straniere, mentalità aperta all’incontro e allo scambio culturale.

Nei piccoli comuni, intanto, donne tessono relazioni, intrecciano esperienze come hanno sempre fatto. Dedicano tempo prezioso alle loro comunità, soffiando sul fuoco delle tradizioni, animando iniziative pro loco. Sono quasi sempre di donne le facce che accolgono, che ristorano o che – a festa finita – invitano a ritornare.

Molto meno spesso sono di donne le facce dei sindaci e degli altri amministratori locali, in linea con le usanze parlamentari (“scassano la minchia”, ha da poco dichiarato un uomo cosiddetto onorevole…) che vedono il paese scivolare agli ultimi posti delle graduatorie mondiali in fatto di parità tra gli scranni della politica.

Sarà dunque donna, l’avvenire della Carnia? Credo lo si possa affermare con sicurezza, lo sarà almeno come quello del mondo dipenderà dalle donne iraniane, se riusciranno o meno a togliersi il velo, dalle spose indiane, dalle orfane africane. In un pianeta divenuto fragile come un cristallo, latitudine e longitudine influenzeranno in maniera sempre minore le esistenze degli umani, poco o nulla potranno sull’inevitabile e necessaria globalizzazione dei diritti. Identità secolari potranno venir stravolte in un battito di ciglia, e saranno lunghe ciglia di donna.

Come rinunciare allora, nel presente dei mutamenti radicali, al talento muliebre di chi «disfa il lavoro» e ricomincia? Ricominciare, cominciare. Cominciamo, noi maschietti, a prendere finalmente sul serio quel vecchio detto secondo cui una donna senza un uomo… è come un pesce senza bicicletta.

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