Fiori di Biblioteca, Le storie di Scuolamagia, Stream of consciousness

Il tema

Il messaggio arriva che è mattina prestissimo, ad un’ora che certi occhi non credi nemmeno possano esistere, aperti. E invece le parole sul display sono chiare: “Buongiorno! Mi aiuta a fare un tema sulla fortuna? Vengo in biblioteca oggi pomeriggio…”. Pazienza non vederla da mesi, pazienza non sapere di che colore avrà i capelli in questo momento storico: G è G e un tema è un tema.

Ma la fortuna? Che fortuna sarà? Oh, non sarà mica quella di Machiavelli e il suo fiume da arginare colla virtù? Sarò in grado? È da tanto che non maneggio certi classici e G ormai frequenta la 3ª.

Ci si mette lì che sono le quattro, premetto subito che io non compongo e non scrivo. Non sarebbe corretto, sarebbe controproducente. Io lavoro di maieutica socratica, offro al massimo qualche spunto, aiuto a mettere ordine. La traccia stilata dal collega (sono gelosissimo: il giudizio che sto per formulare non ha alcun fondamento razionale) è una cosetta flaccida: due proverbi incastonati dentro tre righe insipide.

Non lo so cosa scriverà alla fine G. Pensa pensa abbiamo accennato pure a Machiavelli, anche se non era richiesto. Chissà se citerà Paperon de’ Paperoni e la sua Numero Uno: lo spero, un po’ di cultura pop non stonerebbe dentro le sillabe ciccione della calligrafia di G. Dirà “malasorte” o oserà dire “sfiga”, bandendo il politically correct?

Il messaggio arriva che è sera e certi occhi non ci credi che possano essere stanchi. Le parole sul display dicono “Grazie” e valgono una fortuna.

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Cineserie, Le storie di Scuolamagia, Piccola posta, Soletta, Stream of consciousness

Carissimo Giuliano,

Tu vuoi che ti scriva di cose serie. Molto bene. Ma cosa sono le «cose serie» che vuoi leggere nelle mie lettere? Tu sei un ragazzo, e per un ragazzo anche le cose per i ragazzi sono molto serie, perché sono in rapporto con la sua età, con le sue esperienze, con le capacità che le esperienze e la riflessione su di esse gli hanno procurato. Del resto prometti di scrivermi qualche cosa ogni cinque giorni: sono molto contento se lo farai, dimostrandomi di aver così molta forza di volontà. Io ti risponderò sempre (se potrò) e molto seriamente.

Caro, io ti conosco solo per le tue lettere e per le notizie che mi mandano di te i grandi: so che sei un bravo ragazzo, ma perché non mi hai scritto nulla del tuo viaggio al mare? Credi che non sia una cosa seria? Tutto ciò che ti riguarda è per me molto serio e mi interessa molto; anche i tuoi giochi.

Ti abbraccio.

 

Antonio

 

 

Le altre lettere. Scritte dallo stesso carcere, il carcere di Turi. Piccole pagine per i figli piccoli. Per Giuliano, il figlio mai visto. Finiscono quasi sempre in un abbraccio, oppure in un bacio. Alcune in un “ti voglio bene”. Spesso sfottono Veltroni e gli chiedono che c’azzecchi con Gramsci, ormai. Hanno pure ragione, a sfotterlo. Però è vero e fa sorridere che, ammesso che sia mai esistito un Veltroni gramsciano, esiste sicuramente un Gramsci veltroniano, tenero e incantato.

Le altre lettere. Uno le legge e le rilegge, e viene voglia di prendersi a cuore le cose serie, cioè di prendersi a cuore TUTTO.

I monaci del Tibet. La bambina cinese estratta dal pozzo, ed è bello che ogni tanto i bambini riemergano dai pozzi neri. La gara di sci dell’alunno colorato. Il contratto che bisogna contrattare. Che non gli passino mai il pallone a ricreazione. Che l’amica parli male di lei proprio adesso che lei è tanto fragile. La riformetta del ministro Fioroni. La gita a Firenze da organizzare. Tutto il resto.

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Res cogitans, Tutte queste cose passare

Leggersi la mano

Nadal

Allora, parliamone. Rafael Nadal, numero 2 del ranking mondiale, quando scende in campo con la sua racchetta sente il bisogno di scrivere sul dorso della mano i capisaldi del suo tennis, i fondamenti del suo stare sul terreno battuto, erboso o sintetico.

“Posizione in campo”.

“Concentrazione”.

“Coraggioso” (“aggressivo”, secondo altre versioni).

“Palla lunga”.

Insomma, il giovane tennista spagnolo prima di un match prende un pennarello e “fa il punto” prima di fare i punti.

Nessuno slogan, nessuna antica saggezza, nessuna massima zen, nessuna frase ad effetto, nessun messaggio d’amore stile Manaudou. Soltanto parole di buon senso: quale tennista potrebbe infatti mai prescindere da concentrazione e posizione in campo?

Esibizionismo, chiosano i commentatori più cinici.

E se lo facessimo tutti? Se ognuno di noi sulla mano portasse ogni giorno scritti obiettivi e princìpi, norme deontologiche e orizzonti da raggiungere nel futuro prossimo?

La mano di Veltroni: “Pacatatezza”, “Un colpo al cerchio, uno alla botte”, “Partito moderno”, “No questioni etiche”. Quella di Berlusconi: “Barzelletta per sciogliere il ghiaccio”, “Complimenti alle Signore”, “Menzogne della Sinistra”, “Brogli elettorali”. Quella del Papa: “Difendi la vita”, “Fai la faccia seria”, “Di più!”, “Esiste”.

Quella di Roger Federer: “Hai praticamente già vinto, pensa che il tuo avversario ha bisogno di scriversi sulla mano…”.

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Soletta, Stream of consciousness

Ancora lei

[…]

 

Le mie dita sono sottili:

si plasmano alle cose

e a lungo ne conservano

l’impronta –

per un spino sanguinano,

per una piuma tremano

di dolcezza.

Le mie mani son così pallide:

attraversate dalla via

in ogni senso – come

da lunghe vene

azzurre.

Forse la loro pace

è fra i tenui riccioli

di un bimbo.

 

[…]

 

Antonia Pozzi, Le mani, 6 dicembre 1934

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Fiori di Biblioteca, Le storie di Scuolamagia, Piccola posta, Soletta, Stream of consciousness, Tutte queste cose passare

Ti ricordi quei giorni…?

Il 21 marzo di 5 anni fa era un giorno di sole, segno tangibile di una primavera puntuale. La mattina ero entrato in classe coi i giornali sotto il braccio per una di quelle lezioni un po’ improvvisate che possono andare benissimo o malissimo, in cui un cucciolo può uscirsene con parole illuminanti oppure perdersi nella banalità di qualche immagine pubblicitaria. “Repubblica”, “Corriere” e “Manifesto” offrivano le stesse fotografie, gli stessi cieli accesi di bombe. Non facevano troppo effetto, ricordo, e più di qualcuno aveva in fondo già visto Lilli Gruber raccontare l’inferno con i fuochi alle sue spalle. Facendomi strada tra qualche ironia ho tessuto quindi l’elogio della rete satellitare Gay.tv, coraggiosa nello scegliere l’antiretorica di uno schermo nero: oggi non si balla, oggi qui è chiuso, pensateci: là fuori c’è una guerra.

Ma quel venerdì è stato soprattutto un venerdì pomeriggio. Si inaugurava la biblioteca, quella che sarebbe diventata bibliotecamagia. Per mesi avevo portato i ragazzi ad affondare nella polvere. Come direbbe Veltroni, ero forse riuscito a far venire loro, i miei marinai, il desiderio del mare. Bisognava crederci in quel sogno, bisognava immaginare quegli spazi come la propria casa, come il posto dove poter sempre trovare un rifugio. C’era stata l’euforia delle lezioni picaresche, il passamano dei libri da spostare, gli scaffali da allestire, una piccola burocrazia classificatoria tutta fatta in casa e tutta da inventare. C’erano stati lo scetticismo e lo scoramento, i “tanto non ci verrà mai nessuno” erano all’ordine del giorno. Poi era arrivato quel venerdì pomeriggio e le piccole stanze della biblioteca si erano riempite di ospiti. I volantini con il disegno di Andrea Pazienza avevano svolto appieno la loro funzione. Ricordo uno slogan, naturalmente ignaro del futuro: “…non sai la capitale della Birmania??? Vieni a scoprirla nella biblioteca di…”.

Da allora sono stati tanti i pomeriggi trascorsi in quel luogo speciale. Pomeriggi a raccogliere fiori.

Il registro delle firme – con i suoi nomi, i suoi soprannomi, i suoi disegni, le sue parolacce – testimonia di una fedeltà crescente a quelle pareti e a quelle sedie.

Il 21 marzo 2003 – giorno lungo come tre giorni – ho assistito, a sera, al concerto di Francesco Guccini trovando stanche e ripetitive le sue parole, “uguali a tante che già mi cantò”.

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Soletta

Numeri primi

«Gli anni del liceo erano stati una ferita aperta, che a Mattia e Alice era sembrata così profonda da non potersi mai rimarginare. C’erano passati attraverso in apnea, lui rifiutando il mondo e lei sentendosi rifiutata dal mondo, e si erano accorti che non faceva poi una gran differenza. Si erano costruiti un’amicizia difettosa e asimmetrica, fatta di lunghe assenze e di molto silenzio, uno spazio vuoto e pulito in cui entrambi potevano tornare a respirare, quando le pareti della scuola si facevano troppo vicine per ignorare il senso di soffocamento».

 

«I numeri primi sono divisibili soltanto per 1 e per se stessi. Se ne stanno al loro posto nell’infinita serie dei numeri naturali, schiacciati come tutti fra due, ma un passo in là rispetto agli altri. Sono numeri sospettosi e solitari e per questo Mattia li trovava meravigliosi. Certe volte pensava che in quella sequenza ci fossero finiti per sbaglio, che vi fossero rimasti intrappolati come perline infilate in una collana. Altre volte, invece, sospettava  che anche a loro sarebbe piaciuto essere come tutti, solo dei numeri qualunque, ma che per qualche motivo non ne fossero capaci».

 

Paolo Giordano, La solitudine dei numeri primi

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Le storie di Scuolamagia

La pace di Costanza

Perché oggi, nell’ora di italiano, l’alunno con la maglietta gialla ha analizzato alla lavagna il periodo complesso

 “Si mormora che, mentre si trovava a Scuolamagia, Costanza abbia fatto così tanta cacca da impestare tutta la 3ª C”

 

individuando nell’ordine la proposizione principale, la subordinata soggettiva esplicita, la temporale di secondo grado esplicita e la consecutiva di secondo grado implicita?

Semplice, perché qualche minuto prima Costanza – bimba di un anno, gradita ospite della lezione insieme a sua sorella Nostalgia – ecco, appunto… Costanza a un certo punto… cioè, magari involontariamente… senza smettere di sorridere e facendo decisamente finta di niente… vabbè avete capito.

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Res cogitans, Tutte queste cose passare

La forza che uno non ha

Dicono che Luigi Roca avesse la faccia di chi per anni ha assorbito la tristezza, giorno dopo giorno, fino a disegnarsela sul viso, come una ruga.

[…]

Così lui ha scelto l’albero in un bosco vicino casa, ha preso al corda ma prima la carta e la penna. Tre lettere. ai genitori ha chiesto perdono. Alla moglie Barbara ha scritto: «In questo tipo di vita serve una forza che io non ho. Non lo dico per giustificarmi, ma perché tutti possiate perdonarmi. Ho valutato le conseguenze del mio gesto ma non ce la faccio, ho perso lavoro e dignità». L’ultima lettera per i due figli piccoli. «Non mi giudicate e comportatevi bene. Trattate bene la mamma e conservate di me la parte buona che vi ho lasciato».

 

Due stralci dall’articolo di Maurizio Crosetti sull’ultima tragedia in casa Thyssen. È possibile che mercoledì sera, mentre in Tv consigliava a una giovane precaria come risolvere i suoi problemi sposando un miliardario, Berlusconi non sapesse del suicidio dell’operaio avvenuto solo 24 ore prima. È possibile, oltre che auspicabile.

Oggi però ha ricordato ai cronisti l’assenza di sense of humour nell’opinione pubblica. Provate a immaginare se la questione precarietà gli fosse stata posta da un maschietto…

Avrebbe anche in quel caso consigliato il matrimonio con una delle sue figlie? Certo che no, mica si può esagerare, con l’umorismo.

Avesse fatto in tempo a sentirla Luigi Roca, la battutona. Avrebbe sentito di avere – sì, d’accordo – tutte le sfighe di questo mondo, ma anche di essere, sempre e comunque, meglio di quell’uomo lì.

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Le storie di Scuolamagia, Stream of consciousness

Tutta quella fatica

Fatica2

In giornate come questa, da buon marziano atterrato sul bianco di una pista di sci, non ho decisamente nulla da insegnare e mi dispongo di buon grado nella dimensione dell’apprendere. Campionati studenteschi, sci nordico, anello di fondo, tecnica classica, racchette, scioline e pattinato. Termini che leggo quotidianamente nei temi dei cuccioli e che ogni tanto si fanno gesti concreti da ammirare, azioni da sostenere. E il cuore batte nel vedere quei piccoli motori riscaldarsi e partire e stantuffare e insistere e arrivare ad un passo dallo scoppio. Nel vedere tutta quella fatica e la grandezza di tutta quella fatica e il senso che dà, tutta quella fatica. Nel vedere la catarsi di un corpo incandescente crollare sulla neve esausto.

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Soletta

“Non è mai sufficiente il tempo quando si trova con chi ci si vuol tanto bene, con un bacio uno sguardo si fa un discorso…”

Angioletta ha 19 anni. Angioletta abita a Milano. Angioletta è una studentessa. Angioletta è innamorata di Piero, garzone nella farmacia di suo padre Giuseppe. Angioletta non è solita dare baci al suo innamorato: lei i baci li fa. Angioletta sta imparando a suonare il pianoforte. Angioletta è piena di voglia di vivere. Angioletta ha gli occhi di luce. Angioletta ha un blog, come tante altre diciannovenni del 2008. Tra le diciannovenni del 1888, però, credo sia l’unica. Angioletta ha un nome bellissimo e rivive grazie alle cure di Marco Ardemagni. Angioletta la metto tra i miei link, così imparate a conoscerla anche voi. 

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Soletta, Stream of consciousness

La recensione inutile*

Succede che ne conosci solo il testo, disponibile on line (uno di quelli, rari, che se “fai tasto destro-copia” ti dice non ci provare, stronzo, questo è un gioiello e per i gioielli bisogna passare dal gioielliere). Ti accorgi subito che è prezioso, musicale anche senza musica. Ma è musica quello che vuoi. La vuoi infilare nelle orecchie come un tappo che copra le grida che senti. Vuoi che ti prenda per mano e ti dia quiete. E vuoi regalarlo, quel miracolo di note e parole. Vuoi regalarlo subito a chi più ti sta a cuore, a chi ne ha bisogno almeno quanto te. Vuoi una canzone e la cerchi nel mercato nero della musica e delle immagini, ti infili senza vergogna nella tomba del diritto d’autore e digiti e ridigiti e ci metti un bel po’ prima di arrenderti. Poi viene sabato e puoi prendere la macchina, cercare la via maestra di un negozio di dischi, entrare, non pensare nemmeno per un momento che quel CD originale già lo possiedi e che quella riedizione con una canzone inedita è quanto di più sconveniente possa capitare alle tue finanze. Ma è come se la sentissi già, l’arpeggio in minore, il controtempo delle percussioni, il mormorio della voce, le parole che parlano foglie e respiri, e labbra e incendi. Esci e pensi che se in te c’è qualcosa da capire non lo capirà mai nessuno.  

 

* precedenti

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Soletta, Stream of consciousness

Sempre lei

Ieri, in campagna, ero rimasta sola,

in un prato, a snidare le violette.

Il cielo si era chiuso indifferente

in un suo pastranello grigio chiaro,

spolverato da sbuffi freddolini:

ma la terra, in compenso, mi alitava

sulle mani il suo fiato umido e caldo

e a districare piano i ciuffi d’erba

mi sembrava d’insinuar le dita

fra i capelli di una persona viva.

Pensavo intensamente al mio fratello

e una lenta tristezza m’invadeva,

diffusa come uno stupore bianco.

Mi dicevo che forse nella vita

non potrò dargli mai neppure un fiore:

un fiore ch’io abbia colto in questi prati

dove, bambina, camminavo scalza

per un’ebbra ed inconscia frenesia

di contatti selvaggi con la terra.

Ieri, s’egli mi fosse stato accanto,

non gli avrei regalato delle viole:

odoravano troppo sottilmente

e, a toccarle, sembravano aggricciarsi

già col presentimento d’avvizzire.

Avrei preso due o tre margheritine,

i più dimessi fiori, i più sereni,

che si lasciano coglier senza brividi,

che non odoran tanto son puri.

Con pure mani gliele avrei offerte,

gettata tutta la mia vita inquieta

in uno stordimento blando e chiaro,

che mi riconduceva lievemente

la mia rinata fanciullezza intatta.

 

Antonia Pozzi, Bambinerie in tinta chiara,

22 aprile 1929

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Le storie di Scuolamagia, Res cogitans, Soletta

Nessuno

Forse Ale cambierà scuola. Una scelta difficile, e più difficile sarà anche la nuova scuola. Un liceo, pieno di discipline complesse e un po’ misteriose. La filosofia, per esempio. Com’è – mi chiede – la filosofia? Domani le spedisco un libricino piccolo piccolo, chissà se le sarà d’aiuto…

 

«Una volta non c’era nessuno, ma chi l’avrebbe mai detto? Nessuno, appunto: siccome non c’era nessuno, nessuno diceva niente. Così questa storia che non c’era nessuno era molto strana. Era vera, senz’altro, perché in effetti non c’era nessuno, ma nessuno poteva dirla.

Prima o poi ci fu qualcuno, ma le stranezze non erano finite. Quando qualcuno cominciò a raccontare la storia che una volta non c’era nessuno, gli altri aggrottarono la fronte e sollevarono enormi punti interrogativi. Perché come si faceva a sapere che una volta non c’era nessuno? Quando non c’era nessuno non c’era nessuno a saperlo e il momento che ci fu qualcuno non si poteva certo dire che non ci fosse nessuno. Così ancora una volta la storia era vera ma nessuno poteva dirla.

Adesso tutti dicono che c’è sempre stato qualcuno. Non è vero, ovviamente, perché una volta non c’era nessuno. Ma è tutto quel che si può dire».

 

Ermanno Bencivenga, La filosofia in quarantadue favole

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