Le storie di Scuolamagia

Messaggero siculo

Un collega Mago mi chiama a sera, timoroso di recare disturbo. Mi parla dispiaciutissimo di una cosa di cui si è proprio dimenticato, di una cosa che avrebbe dovuto consegnare a un cucciolo di Scuolamagia martedì mattina, ma che è malauguratamente rimasta prigioniera di una tasca trascurata. Vuole riparare il danno, il collega Mago. Si arrovella, ipotizza di risalire in macchina fino al paese per svolgere il suo compito di ambasciatore. Poi gli viene in mente che potrebbe sfruttare me che il giorno dopo salgo presto a Scuolamagia, mi invita quindi per un caffè all’alba e per la consegna del misterioso oggetto da inoltrare. L’incontro avviene, puntualissimo. Collega Mago – un precario con la residenza a più di mille chilometri dalla palestra dove insegna capovolte, addominali, schiacciate e terzo tempo – mi tende la mano e nel palmo posso vedere la dolce inconsistenza di un foglietto a quadretti piegato in otto. Una calligrafia di ragazza (trattasi di un’alunna frequentante un’altra delle tante sedi in cui opera) ha tracciato le 5 lettere del nome del cucciolo, abbreviato con la “y” finale. Un bigliettino. Un semplice bigliettino. Parole che una quattordicenne ha rivolto ad un quattordicenne. Qualcosa che  doveva arrivare. Qualcosa che durante il compito di italiano è arrivato, per il sollievo di collega Mago, depositato dalle mie mani su un banco, tra un foglio di protocollo e una penna blu. Qualcosa di importante.

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Soletta

Quello che le donne dicono

Il 7 marzo arriva il nuovo film di Alina Marazzi. Peccato averlo già visto. Peccato ricordare già a memoria le schegge riportate sulla recensione di Concita De Gregorio, oggi su “R2”.

Ma come si fa a dimenticare certe parole?

“Ho sofferto troppo, eppure era così normale per me parlare di aborto con le compagne, l’aborto è una libera scelta eppure a me adesso sembra di non aver avuto scelta”.

Il diario di Teresa, Bari, 1975.

Non ha nemmeno senso ricordare quanto sia bello, un film che è semplicemente indispensabile.

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Lettera

Cara Sara,

Sara2

ragazza perduta, la cosa che più mi ha colpito è che ci sei anche tu. Si vede il tuo viso, alle mie spalle, al minuto 9.46. Ho paura che il pubblico abbia pensato ad una mancanza di rispetto. In fondo il tuo manifesto è il segno evidente di una tragedia, lo so. Ma come sai ti abbiamo adottata, e io più degli altri. Sei diventata il simbolo di qualcosa di importante, non so nemmeno io cosa. Forse di un’attenzione verso ciò che è lontano, forse dell’urgenza di provare a capire sempre, di non smettere mai di cercare. Forse ci dici soltanto che tutto è fragile, che tutto è in bilico e che dobbiamo sempre tenerci stretti.   

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Imago, Res cogitans, Tutte queste cose passare

Quando tornano le streghe? (post femminista)

Manadou

Il titolo di “Repubblica.it” dice: “Manadou, baci appassionati sotto la doccia”.

La foto – poi uno scopre – è scattata in piscina, luogo piuttosto consono a due professionisti del nuoto. Lei indossa il costume. Si intravedono altre persone sullo sfondo e la passione è quella di quando ci si augura buon compleanno tra zia e nipote.

Ma è la didascalia a fare più impressione:

“Niente da fare. Il personaggio è quello che è…”.

Il personaggio è quello che è??????

Scrivete puttanazza, allora, che fate prima…

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Il manoscritto ritrovato

Spesso si creano dei legami tra i libri che leggiamo e certi luoghi che frequentiamo. C’è il classico libro da comodino, da leggere a sera, a cose fatte, provate a portarlo in cucina e non vi emozionerà allo stesso modo. C’è il libro rasoterra, sul tappeto ai piedi del letto. C’è il libro da salotto e c’è il libro da terrazza – estate o inverno, purché fuori. Poi ci sono anche i libri-ovunque, certo, ma sono rari. Il libro che Sabina Rossa ha scritto su suo padre è il mio libro da macchina.

È rimasto lì, sul sedile posteriore, da quando l’ho acquistato in un ipermercato la vigilia di Natale (ho già scritto, una volta, della mia difficoltà nel coniugare letteratura e grande distribuzione). Sono passati due mesi e piano piano è andata avanti anche la mia lettura, tristemente parcellizzata, aspettando qualcuno in  ritardo o pagando il prezzo di essere uno che arriva sempre in anticipo. Giovedì mattina, in uno di questi momenti sospesi – la scuola apre alle 7.50, mica alle 7.25 – ho scoperto il segreto di pag. 165, e della successiva e poi ancora. Nella sezione “Documenti”, compare una lettera del sindacalista, meravigliosamente scritta a mano, in una calligrafia bella e precisa, femminile. Un testo del 1970, denso di pensiero, di idealismo, di politica e di senso. Un vero manifesto, quasi un organico programma politico, capace già allora di guardare ad un modello sostenibile di sviluppo. Parole bellissime, con pò e stà, con lucidità e sogno. Fossi un editore lancerei subito una collana di libri manoscritti…     

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Le storie di Scuolamagia

I colori di N.

L’alunno N., molto sportivo, quando corre e salta è fortemente ROSSO. Mica perché è accaldato, no… lui manco suda. Ha movenze ROSSE e spicca saltelli ROSSI. Anche i goal che segna sono in qualche modo ROSSI. Le cose che scrive sono VERDI, non ho dubbi e forse nemmeno lui: il suo blog, neanche farlo apposta, è VERDE. Con i compagni adotta sempre una condotta BIANCA. No, nessuna attitudine al compromesso, intendo BIANCO purezza. BIANCO che ascolta e protegge. BIANCO che non alza mai la voce. Una voce BIANCA, naturalmente. Quando sua madre mi parla di lui, si vede che pensa pensieri AZZURRI. Sì, per lei dev’essere proprio AZZURRO.

Poi, capita che una gara gli vada storta – lui pratica il biathlon, e per la mira quella era una giornataccia – e che il cronista di turno, sull’ultima pagina in basso a destra del giornale locale, si lasci sfuggire la malaparola, il termine infelice: INCOLORE. N. è stato INCOLORE.

Sia detto per inciso: N. è dotato di una flemma così ARANCIONE da renderlo decisamente impermeabile a un giudizio tanto superficiale. Non ha battuto ciglio, anzi, ha addirittura mormorato un “può darsi…”.

Eh, no, caro giornalista che scrivi in quell’angoletto infimo e appartato del quotidiano perché esiste una Giustizia, INCOLORE lo dici di una frase di un Onorevole, di un libro di Moccia, di un (qualsiasi) programma televisivo, di tua nonna. Di N., no!

Domani, noi di Scuolamagia si prende la gigantografia in bianco e nero di N. – fatta stampare apposta, manco si fosse laureato – e la si colora tutti insieme coi pennarelli.      

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Thyssen che?????

Il paese di Scuolamagia qualche settimana fa è stato colpito da una fortissima e decisamente anomala tromba d’aria. La gente da quelle parti non è abituata a piangersi addosso, e le istituzioni sembrano fare le istituzioni. Alle dieci di mattina, in questo scorcio d’inverno così simile a una pazza primavera, si vedono molti più piedi calcare i tetti delle case che percorrere l’asfalto di strade e viuzze. Molte abitazioni subiscono l’operoso arrembaggio di camion puntellati al terreno, pronti a sollevare con braccia meccaniche dozzine di agili lattonieri. Si sostituiscono tegole, si applicano materiali isolanti e impermeabili, si raddrizzano grondaie. Piccoli uomini volanti con la loro perizia sembrano farsi beffa della natura matrigna che ti schiaffeggia con un vento.

 

Però.

Saranno 10, saranno 15, sanno 20. Non so. Alcuni avranno sì e no 20 anni. NESSUNO DI LORO INDOSSA IL CASCO. NESSUNO DI LORO INDOSSA IL CASCO. NESSUNO DI LORO INDOSSA IL CASCO. NESSUNO DI LORO INDOSSA IL CASCO…

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Piero

Ancora a proposito di quella lezione sul Fascismo. Ogni volta è emozionante ricordare Piero Gobetti e la sua vita breve come di farfalla. I fatti da raccontare in un anno scolastico come “la terza” sono infiniti, e il tempo non è mai abbastanza. Rinuncio sempre volentieri allo studio di qualche guerra, però, per permettermi il lusso di presentare ai cuccioli, come fosse un amico, quell’eroe fragile col ciuffo.

«Sembra Harry Potter», dice Yuri.  

«Sembri tu», stavo per dire a Yuri.

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Inutile nascondersi

Risultati immagini per giua tanto non vengo

Al termine della lezione sul Fascismo, in quei 4 o 5 minuti che precedevano il suono della campanella, l’ho voluto mettere in chiaro. Non ho usato mezze parole, non ci ho girato intorno, l’ho esplicitato perché era giusto che lo esplicitassi. Perché il mio è un ruolo delicato e loro stanno attraversando una fase delicata per antonomasia. La loro formazione è un difficilissimo esercizio di equilibri, ogni gesto educativo va opportunamente ponderato. Così, ho scelto termini comprensibili e ho cercato un’espressione limpida e serena. Ho spiegato loro pacatamente che tra pochi giorni in Italia accadrà qualcosa di molto importante, qualcosa che dividerà le persone in fazioni agguerrite tra le quali mai dovrà venir meno il rispetto. Tuttavia, nonostante sia consapevole della neutralità che il mio ruolo impone – ho continuato – sento di non poter nascondere – in nome della libertà di insegnamento e della mia coscienza – quale sarà la mia scelta di campo. Ora come non mai netta, quasi ideologica. Non ho nemmeno negato il forte desiderio di influenzare le loro menti, di guidare le loro giovani coscienze.

“Insomma, ragazzi, io a Sanremo sto con Giua…”

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Le storie di Scuolamagia

Imparare l’italiano?

«Allora, sì, è un periodo complesso. Quanti predicati? Ok, 3, perfetto. Sì, il primo pezzo è fin lì, poi tracchete: sbarra, poi fino alla virgola, sbarra di nuovo, poi fino alla fine. Qual è che sta in piedi da sola, delle tre? Bravo, quella, se uno entra e ti dice così ha senso, non pensi che si sia fumato l’impossibile come se entra e ti dice soltanto l’altra: “…per vincere il torneo”. E le altre? No, le cause son nel passato, lì si vede che la cosa si realizza nel futuro, quello è un fine, quella è una finale… mi raccomando, non “proposizione scopale” che non è proprio il caso. L’altra? Sì, è una temporale, ché c’è il “mentre” che la introduce. Esplicita o implicita? Si capisce chi è il soggetto? No, hai ragione, non si capisce, quello infatti è un gerundio… Sì, come il mio cognome in friulano, certo… Sì, lo so che subito suona, per mercoledì finite le ultime due e appiccicate il foglio. Sì, certo, oggi pomeriggio facciamo altro, promesso…»

Frammenti di una lezione di grammatica in una mia classe.

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Aeroplanini

Tra le fotocopie distribuite ai cuccioli, giovedì mattina, si era infiltrato un foglio bianco, passato indenne nel vortice laser della macchina stampatrice. Mi è rimasto in mano, candido superstite. “Tieni, te lo regalo”, ho detto appoggiandolo sul banco di un cucciolo. “Mi raccomando, fanne buon uso”, ho aggiunto. Accade ancora che, lasciato solo con un foglio di carta, un ragazzino decida di farne un aeroplanino. Con più o meno precisione e pazienza, quello che importa è l’esito finale, quello che importa è il volo.

Due anni fa, in una scena dello spettacolo di giugno, i miei cuccioli di attore avevano squarciato la quarta parete facendo diventare il teatro un grande terminal internazionale. Dalle loro mani erano decollati circa 400 aerei di carta (riciclata e successivamente ririciclata). Nel panico generale, con il pubblico che si copriva la testa, per una decina di folli minuti.

Il mio mestiere costringe ad estenuanti numeri di equilibrismo tra sogno e realtà, concretezza ed immaginazione. Ci sono le allarmanti indagini OCSE Pisa e c’è un giorno in cui entri in classe e dici “Gente, oggi costruiremo 400 aeroplanini di carta”. E vedi gli occhi, e voli via con loro.

 

Maurizio Crosetti ha letto lo stesso articolo (di Renata Pisu, dal Giappone) che ha mosso in me questi ricordi, e ne ha scritto così…

 

C’è questa notizia (simbolica? Un po’ lo sono tutte) degli aeroplanini di carta che saranno lanciati da un astronauta nello spazio. Immaginiamoli vagare nel vuoto, nel silenzioso buio cercando una strada. Seguiamoli mentre i più si smarriscono e qualcuno, forse, trova il corridoio verso casa (ma non decidiamo quali, tra gli aeroplanini, a questo punto siano gli smarriti), guardiamoli incendiarsi nell’atmosfera oppure, gli scienziati non lo escludono, varcare la barriera e planare lentamente verso di noi. Tra gli scampati i più, dicono i teorici, dovrebbero inabissarsi nell’oceano. Ma forse state vedendo anche voi quell’ultimo aeroplano bianco che manca le onde di un niente, per adagiarsi su una riva tra un gabbiano e un bambino. Il bambino lo raccoglie, se lo gira tra le mani, poi lo lancia verso le onde. L’aeroplano, finalmente arrivato, non affonda ma galleggia.

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La mia buona stella

Madda

Maddalena una volta mi ha regalato una torta. Una crostata, per la precisione. Al centro compariva la parolaccia con la quale era solita rivolgersi a me, al tempo in cui ero il suo insegnante di ita, sto e geo. Quattro letterine, non ricordo se fossero fatte di pezzi di banana su sfondo di fragole o se di fragole su sfondo di banana. Poi mi ha regalato uno strumento per catturare i sogni, e forse ha pure funzionato. Un’altra volta mi ha regalato un diario, era bastato dirle che non ce l’avevo e che manco mi serviva. Dentro era già tutto scritto: ricordi, canzoni, compleanni da ricordare. C’aveva pensato lei. Oggi m’ha regalato una stella, con tanto di certificato di proprietà. Appartiene alla costellazione di Orione, si chiama Clio… e io che a Madda ho regalato sempre e soltanto libri…

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Soletta, Stream of consciousness

Ricongiungimento

Se io capissi

quel che vuole dire

– non vederti più –

credo che la mia vita

qui – finirebbe.

Ma per me la terra

è soltanto la zolla che calpesto

e l’altra che calpesti tu:

il resto

è aria

in cui – zattere sciolte – navighiamo

a incontrarci.

Nel cielo limpido infatti

sorgono a volte piccole nubi

fili di lana

o piume – distanti –

e chi guarda di lì a pochi istanti

vede una nuvola sola

che si allontana.

 

Antonia Pozzi

(17 settembre 1933)

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