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Town of runners

A Bekoji gli abitanti aspettano che i cinesi portino a termine i lavori di costruzione della strada. Nel frattempo, si accontentano di quella che in sostanza è una pista di terra – rossa e infuocata sotto il sole cocente, marrone di fango nei giorni della pioggia. Le vie della città vedono sprofondare nelle pozzanghere i carretti trainati dagli asini, oppure scappare le galline inseguite dalla polvere nei giorni secchi del vento. Nel piccolo bazar un ragazzino orfano vende sigarette sfuse e caramelle. Davanti ai suoi occhi ad ogni ora del giorno mulinano decine di gambe svelte, passa il treno di quelli che corrono, scorre il futuro della Town of runners.

Bekoji, Etiopia. Città senza strada, raggiunta a fatica da una piccola corriera stipata di corpi e bagagli e colori. Bekoji, fucina di medaglie olimpiche: 8 ori in una quindicina d’anni. È come se a Wimbledon avessero vinto per 8 volte e in poco tempo tennisti di Bergamo. Di una Bergamo minuscola e senza vie di comunicazione, però. Un assurdo statistico.

Nella Town of runners non esiste una pista di atletica. C’è solo un circuito scavato in una collina, che ogni anno ragazzi e ragazze risistemano sradicando zolle d’erba a mani nude. Arrivassero i cinesi con la strada d’asfalto, pensano, almeno potremmo chiedere loro in prestito gli attrezzi giusti, ed evitarci la faticaccia di inizio stagione. Però intanto ridono, nelle loro coloratissime tute da ginnastica con le ginocchia bucate. Alcuni indossano scarpe, altri corrono scalzi. I 1500 metri in cui competono sono misurati a spanne, sulla pista le corsie vengono tracciate con il gesso, soltanto la campana dell’ultimo giro non ha nulla da invidiare a quella delle Olimpiadi.

Tra i giovani che si allenano, dopo aver aiutato le famiglie nei campi, agli ordini di un maestro e allenatore dai modi bruschi ma paterni, spiccano Hawii e Alemii, due ragazzine molto promettenti. Allegre e spiritose, sulla linea di partenza si trasformano, fanno la faccia seria e il segno della croce, poi il vuoto.

I genitori di Alemii non hanno mai visto correre la figlia. La loro vita finisce a sera davanti al piatto di grano abbrustolito e diviso meticolosamente tra la numerosa prole. Non sanno cosa racchiudano i quaderni che la giovane runner sfoglia quando non si allena e non lavora, importanti per prepararsi ad un futuro di viaggi, per cavarsela anche fuori dall’ovale dell’atletica leggera. L’allenatore spiega alla madre, giovanissima vecchia, che Alemii potrà rendere onore alla città e all’intera patria, proprio come ha fatto Tirunesh, nata a Bekoji nel 1985. “Ah, la figlia dei Dibaba”. È estraneo a quella donna lo splendore delle medaglie d’oro, ma brilla il ricordo di un’altra madre, una persona per bene, di grande onestà.

Hawii e Alemii lasceranno Bekoji. Le vere società sportive hanno sede in città più grandi, consegnano ai loro membri tute di un unico colore e se va bene un pasto al giorno. Spesso i soldi scarseggiano, lo stato punta sui giovani runners ma la corruzione dilaga e la disorganizzazione la fa da padrona. Poche e pochi ce la faranno davvero, avranno testa oltre che gambe, solcheranno con le loro falcate la gomma e le resine poliuretaniche, negli stadi delle grandi capitali dell’atletica.

Era una storia che mi mancava, questa, e mi ero ripromesso di scovarla. Non è stato facile. Ho dovuto farmi spedire un dvd da oltremanica, sull’onda dei Giochi appena conclusi. Il documentario finisce con l’arrivo dei cinesi. Con loro il nero dell’asfalto, nuovi negozi e un’antenna per i cellulari, oggetti che ancora nessuno a Bekoji possiede.

Possiedono solo sogni, a Bekoji, e questa storia.

 

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Io e Lui, Jane Lui

Jane Lui è una cantautrice e musicista californiana nata ad Hong Kong. Suona qualsiasi strumento le venga posto tra le mani, comprese le pareti di casa sua e i boccioni per l’acqua che si usano negli appartamenti delle grandi città, ed ha una voce stupenda. Non so nulla di lei se non quello che si può evincere dal suo canale YouTube, dai sui profili di Facebook e Twitter. Non conosco nessuno che ascolti la sua musica o abbia almeno sentito una volta pronunciare il suo nome. Anzi, ci penso in questo momento: io stesso non ho mai pronunciato il suo nome e l’ho scritto per la prima volta in questo post.

Come molti, ho incontrato per la prima volta Jane in questo video diventato presto virale ed è stato facile fare una diagnosi: “bravissima, ma al giorno d’oggi se si vuol campare di musica o ci s’inventa qualcosa di geniale o ci si attacca al tram”.

Il teatro in cui questa poliedrica artista si esibisce, a qualsiasi ora del giorno e della notte, è YouTube, dove i suoi video catturano per simpatia, dolcezza, originalità, romanticismo, mestiere.

Però, lavorare in questo modo alimenterà ancora per chissà quanto tempo i pregiudizi del pubblico e opere ispiratissime finiranno inevitabilmente nel calderone del dilettantismo allo sbaraglio. Una vera ingiustizia per chi possiede talento e magari ha pure studiato un sacco.

Ne ho avuto la conferma ieri, quando Jane Lui si è rivolta ai suoi utenti con una lettera accorata. Al giorno prima risaliva la pubblicazione della sua ultima creatura: un medley di brani hip hop/rap interpretati da 4 suoi giovani collaboratori con le voci di un nutrito numero di celebrità vere o di cartone, vive o morte, da George W. Bush alla rana Kermit, da Richard Nixon a Woody Allen.

 

Una cavalcata musical-cabarettistica di 6 minuti e 13 secondi in cui fa capolino ad un tratto l’imitazione muta e tremendamente riuscita dell’astrofisico Stephen Hawking. Causa, quest’ultima, di una serie di reazioni indignate da parte dei primi fruitori del video, nonostante il geniale scienziato abbia spesso messo in gioco il suo sense of humour, comparendo ad esempio negli episodi dei Simpson e – addirittura in carne ed ossa – nella serie di successo Big Bang Theory.

Insomma, in nome del politicamente corretto alcuni americani hanno reagito rumorosamente e Jane Lui, regista e arrangiatrice del video, c’è rimasta male.

 

«Prima di tutto, come arrangiatrice / regista del video, vorrei assumermi personalmente la responsabilità per il mio amico, Spencer, che ha fatto l’imitazione. Sono stata io a scegliere personaggi e canzoni, e mi assumo la mia piena responsabilità nell’affrontare questa discussione e queste scuse».

 

«Mi rendo perfettamente conto che il fatto che non fosse mia intenzione ferire nessuno non ha nulla a che fare con l’effetto finale di questa scelta che ho fatto. Il fatto che  sia stata percepita come offensiva merita tutta la mia attenzione e una risposta. Quindi sono qui per affermare che sono profondamente dispiaciuta».

 

«Alcune persone con cui ho parlato mi hanno detto: “Non sei la prima persona ad aver scherzato su questo” o “Ci sono state imitazioni molto più crudeli su altre celebrità”, ma non credo che ciò mi esenti da delle scuse sincere, e dal riconoscere il male che posso aver provocato – anche perché “ripetere un modello solo perché c’è stato qualcosa di peggiore” è il motivo esatto per cui la discriminazione di perpetua, e da ciò ho imparato che posso essere più sensibile e attenta nel mio approccio».

 

Jane ha fatto quindi un passo successivo. Ha aperto un dibattito pubblico, per dare voce a tutte le opinioni, dicendo che avrebbe eliminato il video dalla rete nel caso la maggioranza degli utenti l’avesse democraticamente sancito.

 

«Anche nel caso prevalessero gli apprezzamenti per il video, sono profondamente dispiaciuta per la scelta che ho fatto che può aver causato dolore a qualcuno. Sto imparando ogni giorno ciò che significa essere più attenta nelle mie scelte e a tutte le interpretazioni delle stesse, sto imparando che ho la responsabilità davanti al mio pubblico di comportarsi rispettosamente, mostrando compassione e lavorando senza sosta verso una maggiore integrità creativa».*

 

Tutto molto onesto e anglosassone, direi. Se provo a immaginare la stessa situazione nel mio paese vedo gente che propone la gogna per l’artista blasfemo e l’artista che piange per essere finito tra le maglie laceranti della peggior censura. Un meccanismo che si inceppa al primo sassolino negli ingranaggi e non riparte. Non si mette in discussione, come ha dimostrato di saper fare una grande cantante che sa imitare perfettamente il Diavolo della Tasmania.  

*Il pensiero di Jane Lui è stato tradotto – fifty fifty – da Pozzanghera e da Google. 

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Le ragazze di pagina 16 e 17

La ragazza di pagina 16 cammina sicura. La mano in tasca è innaturale e forse serve soltanto a far capire che c’è, una tasca. Ha possenti bracciali e stivali fiammanti: accessori da supereroi.

La ragazza di pagina 17 è ferma sulla soglia della casa d’appuntamenti in cui lavora. È truccata e sfoggia orecchini appariscenti.

La ragazza di pagina 16 ha lo sguardo da dura, proporzionato al suo incedere determinato.

La ragazza di pagina 17 accenna un sorriso e sembra quieta, in pace.

La ragazza di pagina 16 ha i capelli nel vento.

La ragazza di pagina 17 ha la testa coperta da un velo, ma davanti scappano rigogliose manzoniane “ciocchettine di neri capelli”.

La ragazza di pagina 16 fa la modella. Nella fattispecie sta posando per la griffe LALTRAMODA (www.laltramoda.it).

La ragazza di pagina 17 è la protagonista di un reportage dal Bangladesh di Ettore Mo (non leggo abitualmente il “Corriere”, ma mai trovato un suo pezzo che finisca lì, che non abbia la dicitura “continua…”), e fa la sex worker, la prostituta.

La ragazza di pagina 16 con tutta probabilità sta attenta alla linea e ha una gran paura di ingrassare.

La ragazza di pagina 17 prende abitualmente l’Oradexon, una cow pill, una pastiglia per le vacche. Dona in poco tempo rotondità inaspettate, quelle che piacciono ai clienti di quella parte del mondo. Si dà ai bovini perché ingrassino in fretta. Agli umani provoca diabete, sfoghi cutanei e atroci mal di testa.

La ragazza di pagina 16 e la ragazza di pagina 17.

Il caso ha voluto che si guardassero stamattina sulle pagine dello stesso quotidiano. Impossibile non notarlo. È proprio così: si scrutano, da pagina 16 a pagina 17 e viceversa. Si può tirare una linea con la squadretta, da occhi ad occhi.

Nessuna morale, nessuna considerazione sulla “globalizzazione dei diritti” questa sconosciuta.

Solo un quadretto, una piccola illuminazione. Prima di continuare con pagina 18.

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“L’hanno prossimo mi metteranno l’aria condizionata”

Giuro che non si tratta di deformazione professionale. Quando correggo non sono uno spietato cacciatore di errori, ho fin troppi dubbi attorno a una miriade si misteri grammaticali e se due opzioni linguistiche per un istante mi sembrano in conflitto, prefiguro immediatamente una soluzione che le contempli e le accetti entrambe, senza nemmeno scomodare il vocabolario.

Sono uno di quegli insegnanti a cui capita che gli alunni dicano: “ho dimenticato un accento e non te ne sei accorto”. Rispondo sempre in maniera diversa – “l’ho fatto apposta, per vedere se te ne accorgevi tu…”; “mi scuso e corro a firmare la mia lettera di dimissioni”; “è colpa della tua calligrafia incomprensibile, vedi, quella virgola mi sembrava un accento…”; “esiste una variante trecentesca senza accento, la usa anche Dante”; “quanto vuoi per insabbiare questa storiaccia dell’accento? Se lo sa tua madre sono rovinato…” – e non ci penso più.

Nei libri, però, gli errori non li sopporto. E capita sempre più spesso. E il più somaro, nella classe (casta?) degli editori, è senza ombra di dubbio Einaudi. Vabbè “STILE LIBERO”, ma così si esagera! L’avreste detto, Einaudi, così ordinato, con quel grembiule bianco e lindo, lui così di buona famiglia. La colpa non è degli scrittori, molto spesso sono infatti le opere tradotte le più lacunose.

Uno si affeziona a Chloe, ragazzina di strada dal tragico passato. Si affeziona soprattutto a sua sorella Camille, vittima delle peggiori violenze, personaggio di una feroce vitalità. Trova interessante lo psichiatra che si fa carico di entrare nella mente della protagonista, fino a riuscirci. E quando i due – medico e paziente – sono uno di fronte all’altra nell’ultimo breve capitolo, nello stanzino di cui hai quasi imparato a sentire il caldo asfissiante, ecco…

Non può finire così…

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“La sua meraviglia era la mia protezione”

Eppure avrebbero dovuto colpirmi di più le fotografie, che sono meravigliosamente evocative, che giocano con la luce e di volta in volta la rincorrono, oppure le sfuggono. Avrebbero dovuto cercare i miei occhi e rapirli, individuare la mia buonacoscienza e prenderla a schiaffi. Tutto questo è successo, eccome se è successo, e l’effetto sta continuando anche 24 ore dopo essere uscito da quel salone che non potrebbe avere un nome più azzeccato: “degli Incanti”.

È successo, dicevo, ma è successo dopo.

Prima il mio sguardo e la mia attenzione si sono posati su quei fogli di carta giallognola, appesi alle pareti, in basso rispetto alle fotografie. Appiccicati alla bell’e meglio, come dei grandi post-it, e solcati da una matita tenera (4B?), una matita che sbava al contatto con la pelle della mano e che si corregge alla bisogna, scarabocchiando. La matita della fotografa Monika Bulaj. Brevi appunti, informazioni, annotazioni, a volte in stampatello, a volte in corsivo. Scritti di getto, chissà quando, a margine di ogni scatto e di quel che esso rappresenta. Con una calligrafia antica, o – meglio – senzatempo. In una lingua viva come poche ne ho incontrate, scaltra ma poetica, imprecisa sapendo di esserlo (“né” senz’accento, “Mediterraneo” con due “d”…).

Insomma: straordinaria.

Ho una nuova scrittrice di riferimento: peccato che faccia la fotografa.

 

(La mostra “NUR/LUCE Appunti afghani” di Monika Bulaj, davvero imperdibile, è a Trieste fino a fine settembre) 

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Nino si chiamava

Dopo il libro più bello dell’estate, sicuramente quello più originale. Già il genere: una fantabiografia. Vita e pensieri verissimi raccontati con disegni stranianti: un uomo gigantesco raccontato a fumetti come fosse un bambino infinito, un po’ Peter Pan, un po’ (anche nel tratto) Piccolo Principe. Tante le cose imparate, altrettante le sottigliezze che, purtroppo, credo mi siano sfuggite.

In una parola: emozionante.

 

Carissimo Delio,

mi sento un po’ stanco e non posso scriverti molto. Tu scrivimi sempre e di tutto ciò che ti interessa nella scuola. Io penso che la storia ti piace, come piaceva a me quando avevo la tua età, perché riguarda gli uomini viventi e tutto ciò che riguarda gli uomini, quanti più uomini è possibile, tutti gli uomini del mondo in quanto si uniscono tra loro in società e lavorano e lottano e migliorano se stessi non può non piacerti più di ogni altra cosa. Ma è così? Ti abbraccio.

 

Antonio

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Il badminton spiegato a Gramellini

«E quelle che prendono a racchettate un volano come bambini sulla spiaggia. Perché il volano sì e il calciobalilla no? E il flipper? E il vecchio caro ruba-bandiera?».

Massimo Gramellini, il Buongiorno, 10 agosto 2012

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Gramellini, vieni con me. Sì, è lontano, lo so. Fa pure caldo, ma giuro: facciamo presto. Ecco, siamo arrivati. No, non guardare in su. Lo so che quel grattacielo sembra non finire mai e conficcarsi direttamente nelle nuvole, ma non siamo qui per quello. Giriamoci attorno, al bestione di vetro, cemento e acciaio. Proprio qui, ecco, dove quasi nascosti brulicano di vite questi palazzoni metropolitani. Veri e propri formicai, con migliaia di magliette colorate a stendere e le biciclette a riposo sui terrazzi. No, non fare quella faccia, non è un postaccio come sembra. C’è un sacco di vita. Guarda laggiù, c’è qualcuno che frigge spiedini sul marciapiedi. Quasi tutti si fanno aria con il ventaglio mentre ciabattano nei cortili. Ci sono anche gli anziani, quelli che non osano affrontare lo stradone grande, quello del grattacielo; ci sono pezzi di città a cui hanno rinunciato: troppe auto, troppa fretta, e i riflessi non son più quelli di una volta. Ma lo senti quel rumore, Gramellini? No? Allora sbircia laggiù. Sì, esatto: volani. Volani e racchette. Tanti? Sicuro, guarda da quella parte, altre 4 coppie di atleti. Li chiamo “atleti”, sì, anche se quel signore avrà 70 anni e sua moglie è molto distante dal peso forma. Però hai notato lo stile? I passetti all’indietro, la rotazione del braccio. Immagina una massaia di Voghera fare 10 palleggi con un pallone da calcio; fidati, il paragone ci sta. E quella coppia, saranno due giovani fidanzati o saranno fratello e sorella? A Gramelli’, dico a te, non facevi “la posta del cuore” sui giornali, una volta?

Ovvio che ci sono anche i bambini: quello laggiù gioca col nonno, quei due invece sembra che si stiano sfidando all’ultimo sangue. E la bimba: ha i capelli tagliati come Xie Xingfang, una star del badminton cinese, la moglie del campionissimo Lin Dan… Sì, bravo, i Pellegrini-Magnini del Celeste Impero. Ottima sintesi da giornalista paludato. Insomma, volani a destra e sinistra, mentre fa buio e la scarsa illuminazione decisamente non aiuta i giocatori. Né noi che li spiamo. Ma li senti come ridono e se la spassano, Gramellini? Prova ad ascoltarli tutti, adesso. TUTTI. Perché in tutta l’Asia, mica solo qui a Pechino, sono milioni. Centinaia di volte il numero di quelli che ogni giorno, sulla terra, salgono su una pedana per praticare la scherma, lo sport che fa battere forte il tuo italico cuore.

Ecco perché ci sono anche loro alle Olimpiadi. Ma occorreva venire fin qui? Dai, raccogli quella racchetta che facciam due tiri. Col volano, sì, con cosa se no? Cosa vuol dire non son capace. Io invece mi chiamo Lin Dan, vero?

Sì, Gramellini, ridono. Di noi. Bonariamente, ma ci stanno sfottendo. Siamo ridicoli, come due bambinoni sulla spiaggia.  

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Solo FORZA PURA, nessuna FORZATURA

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Il giornale su cui scrive Aldo Cazzullo è lo stesso su cui scriveva Pier Paolo Pasolini. Uno che amava le posizioni scomode, uno che capovolgeva i punti di vista. Facile dire oggi quanto vedesse lontano, quanto le sue parole fossero profetiche. A quelli che c’erano già, probabilmente gli editoriali del poeta facevano venire la gastrite, o dei gran giramenti di balle.

Aldo Cazzullo, turbato forse dagli eccessi retorici di qualche collega, ha detto la sua sulla partecipazione di Oscar Pistorius alle Olimpiadi londinesi provando a pasolineggiare. Risultando decisamente più cinico che profetico.

Già dall’incipit è evidentemente “in posa”.

«Vi è parso che la presenza di Pistorius alle Olimpiadi fosse una bella storia innestata su una forzatura? Non siete gli unici. Sono d’accordo con voi».

Sa di mentire, il giornalista. Sa che l’opinione pubblica – più o meno a conoscenza della vicenda sportiva dell’atleta sudafricano – non ha affatto maldigerito quella presenza sulla pista, sa che certi dubbi da tempo non li solleva più nessuno e che forse può convenire a lui, risollevarli, sul giornale della domenica.

Fin qui tutto lecito, è compito della stampa pungolare i lettori e non grattar loro sempre e puntualmente il pancino. Sono le argomentazioni messe in campo nelle righe successive, a rendere pessimo il pezzo di Cazzullo.

Sulle questioni “tecniche”, sulle presunte distorisioni ai regolamenti di gara che la partecipazione di Pistorius provocherebbe, ha fatto per l’ennesima volta chiarezza Claudio Arrigoni

Ma c’è dell’altro: l’inviato del “Corriere” sente puzza di marketing. Pistorius ha degli sponsor che in questi giorni più del solito lucrano sulla vicenda umana del quattrocentista. Buongiorno Cazzullo! Benvenuto sul pianeta terra. Il giornalista pochi giorni fa ha elogiato con enfasi (e a ragione!) le gesta di Velentina Vezzali; se tuttavia applicasse lo stesso arido cinismo al caso della schermitrice jesina, giungerebbe alla conclusione che la nascita del celebrerrimo piccolo Pietro, 7 anni fa, fosse finalizzata alla creazione del mito dell’atleta-mamma, funzionale all’immagine della barretta ai cereali, leggera e nutriente, del marchio Kinder. A noi piccoli pasolini non la si fa. Sia dunque vietato agli atleti disabili di firmare contratti di sponsorizzazione (vade retro, Satana!) con chicchesia, e già che ci siamo alle madri spadaccine di figliare.

Sfugge inoltre a Cazzullo, il messaggio che Pistorius lancia quotidianamente al mondo dei disabili (sommati “la terza nazione del mondo”, per citare la suggestiva metafora di un bel libro), e invita tutti a guardare piuttosto all’esempio del ministro tedesco Schaeuble. Il giorno che un ministro dell’economia disabile si affaccerà sulla scena politica italiana, tuttavia, Cazzullo-Pasolini ci dirà che stiamo cedendo a qualche misteriosa forzatura.

Il perché secondo me Oscar Pistorius avesse diritto di partecipare alle Olimpiadi l’ho scritto 4 anni fa, alla vigilia di Pechino 2008. Non ho cambiato idea.

Come segnala Arrigoni, sulle pagine dei social network con cui l’atleta sudafricano comunica con i suoi tanti fan e follower non campeggiano soltanto i baffetti dello sponsor e nemmeno i suoi slogan ammiccanti. (Altra furbata di Cazzullo: “nothing is impossible”, usato nel suo articolo, non appartiene alla Nike di Pistorius, bensì, come sanno i ragazzini, all’Adidas. Ma all’autore serviva la parola “impossible”, e quindi l’unica soluzione era imbrogliare, operare – lui sì – una piccola forzatura: Just do it).

C’è una foto. Che la dice lunga. Lunghissima.

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Once upon a time, Tirunesh Dibaba

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Tirunesh Dibaba sta sul palmo di una mano.

Il problema, dopo averla raccolta, sulla linea del traguardo, è che ricomincerebbe a correre, risalendo l’avanbraccio e il braccio come fossero altipiani.

Tirunesh Dibaba quello fa, corre. Anche dopo aver trionfato, abbraccia qualche collega – senza trasporto,  di corsa – riceve una bandiera dell’Etiopia e ricomincia a mulinare le gambe. Il volto è impassibile, sta volando sulla prima corsia, ma l’espressione è quella di una bambola antica appoggiata sopra un letto.

Tirunesh ieri sera ha fatto qualcosa di straordinario, ma non se l’è filata nessuno. Solo qualche lancio d’agenzia. Nessuno che raccolga la sua storia. La poesia l’ho vista solo io e confesso di sentirmi solo.

Tirunesh Dibaba forse non esiste, forse è una fata che compare solo a me, come in un sogno, tra uno scampanìo da ultimo giro di pista e un “c’era una volta” con la voce di Franco Bragagna. 

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Sottolineando il libro dell’estate

La caccia al libro dell’estate. Quasi uno sport olimpico. Vincenti e perdenti, sorprese e vecchie glorie. In gara: l’alto profilo contro il basso profilo, la scrittura veloce contro la scrittura lenta. Discipline: dal noir individuale al porno-soft a squadre. Eroi: osannati dalla critica, plurimedagliati nei concorsi letterari e primatisti nelle classifiche di vendita. Sulle pagine culturali gli oculati consigli degli scrittori, in quelle pubblicitarie le offerte speciali degli editori.

Poi però a chinque – da sempre, anche al di fuori di quel circo – capita davvero di pensare: questo è il libro più bello che ho letto, quest’estate.

A me è capitato stamattina alle 10.00. Appena richiuso il volumetto iniziato ieri sera tardi. Una sessantina di paginette di quello che non è un romanzo e non è un saggio. Perché è semplicemente una lettera. Una lettera d’amore, più precisamente. L’ha scritta un uomo alla donna della sua vita, per raccogliere un’ultima volta il senso di un amore e per dirle semplicemente “io se non ci sei tu, da solo non ce la faccio”. Non è però una questione di solitudine, di assistenza nella malattia (è Dorine, il destinatario, ad essere ammalata), di sostegno reciproco. È qualcosa che ha a che fare con il SENSO, con il FINE di due vite quando si ingarbugliano così strettamente. E con la FINE, mannaggia alle parole quando sembra che ti prendano in giro.

Basta chiacchiere, spazio alle piccole prede della mia matita, mai così messa alla prova da quando sono diventato un sottolineatore compulsivo.

 

«Stai per compiere ottantadue anni. Sei rimpicciolita di sei centimetri, non pesi che quarantacique chili e sei sempre bella, elegante e desiderabile. Sono cinquantotto anni che viviamo insieme e ti amo più che mai. Porto di nuovo in fondo al petto un vuoto divorante che solo il calore del tuo corpo contro il mio riempie».

 

«Ho bisogno di ricostruire la storia del nostro amore per coglierne tutto il senso».

 

«Avevo l’impressione di costruire con te un mondo protetto e protettore».

 

«Non avevi un posto tuo nel mondo degli adulti. Eri condannata a essere forte perché tutto il tuo universo era precario. Ho sempre sentito la tua forza e insieme la tua latente fragilità. Amavo la tua fragilità dominata, la tua fragile forza. Noi eravamo entrambi figli della precarietà e del conflitto. Eravamo fatti per proteggerci reciprocamente dall’una e dall’altro».

 

«Semplicemente mi avevi dato la possibilità di evadere da me stesso e di installarmi in un altrove di cui eri la messaggera».

 

«”La tua vita, è scrivere. Allora scrivi”, ripetevi. Come se la tua vocazione fosse di confortarmi nella mia».

 

«Ho fatto a tua insaputa una tua foto, di schiena: cammini con i piedi nell’acqua sulla grande spiaggia di La Jolla. Hai cinquantadue anni. Sei meravigliosa. È una delle immagini di te che preferisco».

 

«Tu eri ed eri sempre stata più ricca di me. Ti sei schiusa in tutte le tue dimensioni. Eri a tuo agio nella tua vita; mentre io avevo sempre avuto fretta di passare al compito seguente, come se la nostra vita non dovesse cominciare veramente che più tardi».

 

«La notte vedo talvolta la figura di un uomo che, su una strada vuota e in un paesaggio deserto, cammina dietro un carro funebre. Quest’uomo sono io. Sei tu che il carro  funebre trasporta. Non voglio assistere alla tua cremazione; non voglio ricevere un vaso con le tue ceneri.

[…]

Spio il tuo respiro, la mia mano ti sfiora. Ciascuno di noi vorrebbe non dover sopravvivere alla morte dell’altro. Ci siamo spesso detti che se, per assurdo, avessimo una seconda vita, vorremmo trascorrerla insieme».

 

André e Dorine Gorz si sono tolti la vita, insieme, nel 2007. Dal 2006 una lettera d’amore spiegava a tutti il perché.

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Gore Vidal l’americarnico

Nel paesino dove insegno abitano un bel po’ di persone che di cognome fanno Vidale. “Vidale” è anche il nome dell’unico panificio rimasto, appoggiato alla curva da cui chi proviene dal Friuli può scorgere per la prima volta, da lontano, Scuolamagia.

Ricordavo di aver letto da qualche parte, on line, la storia di Gore Vidal che raggiunge Forni Avoltri sulle tracce dei suoi antenati italiani, e proprio in quel panificio sosta brevemente per incontrare coloro che probabilmente conservano con lui un seppur sbiadito legame di sangue.

È il 1977.

Lo zio, Michele Vidale e GoreIl divo della letteratura (e del cinema, e della saggistica, e…) indossa una giacca scura. Ha già fatto la guerra, è stato candidato al Congresso, ha sceneggiato Ben Hur, ha recitato in un film di Fellini (nel ruolo di sè medesimo), ha scritto il suo capolavoro.

È il 1977.

Quell’uomo si sveglierà ancora per molti anni con davanti un panorama mozzafiato, si divertirà a fare a fettine il suo paese, solleverà dubbi sulle dinamiche dell’11 settembre, reciterà – per interposto pupazzo giallo – in alcuni episodi dei Simpson.

Digitando il nome dello scrittore su Google, dopo aver cliccato sulla barra spaziatrice, si può usufruire dei suggerimenti del motore di ricerca, immagino basati sul calcolo statistico delle chiavi inserite con maggiore frequenza dagli utenti. “Gore Vidal Gay” viene prima di “Gore Vidal Libri”. Ci sta: fu anche una testimonianza di profonda libertà individuale, la vita di questo americano. 

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