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Vite che non sono la mia

Da qualche tempo prima di andare a dormire clicco su Repubblica.it e dedico le mie penultime energie (le ultime spettano di diritto al libro che ho sul comodino) a Il mondo in un minuto, piccolo compendio quotidiano di fotografie dal pianeta. Gli scatti che mi colpiscono di più finiscono spesso a fare da copertina al mio profilo su Facebook.

Mentre compio questo piccolo rito, sono sfiorato da un pensiero ricorrente: l’oriente mi sembra più fotogenico dell’occidente. Mi stupisco dell’ingenuità di questo assunto, che so demolire dialetticamente anche da solo, ma tant’è: mi capita di rimanere incantato davanti ad un mercato popolare di Giacarta più che davanti ad un corteo di operai messicani, davanti ad un panorama di Taiwan prima che dinnanzi allo skyline di Toronto.

La faccio breve e confesso di sentirmi una merda per aver guardato le immagini provenienti dalle Filippine con gli stessi occhi di quando metto in scena il mio “premio fotografico” delle sere qualsiasi. Ho visto la bellezza dove avrei dovuto sentire soltanto la compassione. Ho benedetto il talento ma anche la fortuna di chi ha saputo incastonare una bambina disperata nel mosaico dei fili elettrici ingarbugliati ai rami; ho trovato spettacolare una moto guidata da un padre in fuga, passeggeri due figli piccoli e due enormi orsi di pezza.

Dal poco che so di quell’arcipelago lontano è riemerso poi questo video, che credo domani mostrerò ai miei giovani virgulti, con la storia pazzesca degli abitanti del cimitero di Navotas, a Manila. Un affresco di vita, occhi spalancati, salti e corse a piedi nudi messo in scena direttamente nel teatro della morte.

Ma ci son ricascato, quella è di nuovo la bellezza.

Di vite che non sono la mia*.

 

Above and Below from Stefan Werc on Vimeo.

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A day

Era finito il gomasio, e il gomasio dalle mie parti lo vendono soltanto lì.

Così stamattina sono entrato come faccio sempre e sempre con quell’unico scopo, ma in quel negozio non era un sabato come gli altri. Era l’ultimo. Il foglio appeso al vetro (lunedì non riapriamo) parlava chiaro, ma meno delle facce. Non solo quelle delle lavoratrici, tutte donne, i volti tirati e gli occhi lucidi. Anche quella della signora più affezionata ma anche più ignara di me, passata di lì a fare scorta di farro e yogurt biologici. Le veniva da piangere e chiedeva del domani. La sua interlocutrice era rassicurante e relativizzava in prima persona (“io per fortuna ho mio marito…”), ma lasciava trapelare un salto nel vuoto per colleghe e colleghi.

Con i miei alunni ho scelto di partecipare a Italy in a day. Siamo saliti sul punto panoramico che domina il paese di Scuolamagia e abbiamo fatto – e ripreso – un urlo. Prima avevamo filmato con il tablet una partita di calcio con in mezzo al campo una ragazza che scriveva un tema, con tanto di foglio di protocollo e Zingarelli d’ordinanza. Non ci sceglieranno mai, Salvatores si coprirà gli occhi con la mano, ma è stato divertente.

La scena giusta per raccontare il paese, però, era senz’altro quella che ho visto entrando in quel negozio, tra gli scaffali semivuoti e quella gente ferita. Prima di recuperare 3 barattoli di gomasio e venire a scrivere questo post.

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Se 14 euro ci sembran pochi

Basta un rapido sguardo alle prime pagine dei giornali di oggi per fare i conti con un’evidenza: 14 euro al mese ci sembran pochi. L’occhiata fugace a un paio di talk politici, ieri sera, regalava la medesima impressione: risatine, sfottò, benaltrismi. Critiche feroci alla legge di stabilità e alle sue magre iniezioni alle buste paga sono arrivate da destra e da sinistra, da leader politici ed economisti, da osservatori stranieri e casalinghedivoghera.

La Pozzanghera è perfettamente consapevole di come molti cittadini italiani fatichino nel quotidiano campare e non ha quindi bisogno di particolari approfondimenti per chiamare “buffetto” quello che avrebbe dovuto essere uno “gancio sinistro” in faccia alla povertà.

Tuttavia, in tanti hanno un filo esagerato nell’ironizzare su quelle 14 monetine messe una sull’altra. 14 dischetti di metallo pur sempre in grado di sfondare una tasca, far traboccare un pugno, sbancare una macchinetta del caffè.

Se quindi quella tintinnante pochezza finisce per offenderci, se risulta inutile ai fini del rilancio dei consumi…

…perché non regalarla alla causa dei migranti che arrivano dal mare?

Con serietà e rigidi controlli, s’intende.

Perché non consegnare quell’obolo irrisorio, anche quello di un mese soltanto, a chi ne ha di gran lunga più bisogno?

Ai bimbi migranti, orfani di padre di madre e di tutto, in prima pagina sui quotidiani di oggi, appena sotto lo scherzetto democristiano delle 14 monetine.

Moltiplichiamo quel niente per… che so… 4 milioni. 56 milioni di euro che potrebbero diventare soccorso più pronto e accoglienza più calda, letti più comodi e mediatori culturali.

Alcuni di quei bambini soli, arrivati rocambolescamente in Italia e spariti nel nulla, potrebbero essere tolti dalla strada su cui ogni giorno mendicano una moneta.

Una al massimo.

Si è mai visto qualcuno che ne depositi 14 in un piccolo palmo?

Una, una, ché son pur sempre 2000 lire…

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Trecento madonne in fondo al mare

mia-migrante

Non c’è il mare nella foto che non riesco a fare a meno di guardare. Il mare è delle balene, il mare è dei delfini, il mare è un contorno, è solo una cornice. I ragazzi a scuola non hanno neanche voglia di colorarlo, nelle cartine sui quaderni. Il mare non si addice certo alla ragazza della foto. È una ragazza di terra, di sabbia, di roccia, di prato. Ma non è nemmeno una creatura da desktop, il (non)luogo dove l’ho piazzata io da luglio, da quando è finita nell’obbiettivo di un reporter di stanza a Malta, inviato a raccontare gli sbarchi di eritrei e somali, e respingimenti ancora più violenti dei nostri. Ho voluto mi facesse da proMemoria, volevo che la mia giornata cominciasse dopo aver consultato i suoi occhi. Ogni tanto mi ha fatto tornare al secolo scorso e al mio  primo pc, un quattroottosei di seconda mano, e al suo sfondo affidato dal precedente proprietario a una seppur castissima Cindy Crawford in bianco e nero. Proprio un bel salto.

Oggi la ragazza ed io ci guardiamo e siamo più muti del solito. Il file con gli esercizi per domani, il logo del browser, l’ultima musica ancora da ascoltare: ho sempre avuto cura di spostare le icone sull’arancione dello sfondo, non violando mai la perfezione delle labbra, il viso disegnato col compasso e lo spazio di quegl’occhi traboccanti di pianto.

L’ho chiamata ragazza, penso che avrei dovuto scrivere donna. Ho scritto donna e mi convinco di poterla chiamare madonna. Una madonna contemporanea, senza bambino. 90 madonne così bruciate o affogate in mare, il mare senza colore dei miei alunni. 250 madonne così ancora disperse: leggi morte, coglione, ché il mare non è mica roba nostra, il mare è delle balene e dei delfini.

Oggi tutti parleranno, tutti diranno qualcosa. Chi regalerà un pensiero, chi scriverà un articolo, chi diramerà una nota, chi si affiderà ad un tweet. La Lega vomiterà la sua pochezza, Grillo dirà di chi è la colpa. Sarà scosso anche Berlusconi: vedrà la sua afflizione nella giusta proporzione, e scaccerà il cagnetto all’altro lato del divano. Telefonerà il Papa, porterà sincero conforto. Penserà anche lui che con trecento madonne morte in fondo al mare il numero da chiamare sarebbe un altro, ma che quel numero selezionato è inesistente.

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Quando eravamo giovinetti

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Prima di tuffarci nei meandri del fiume della Storia, spesso a inizio anno a Scuolamagia ci dedichiamo alla storia minuscola delle pareti e dei pavimenti che ci ospitano. Come piccoli Champollion decifriamo incisioni sul legno di certe finestre, datiamo antichissimi “W Inter”, ci chiediamo il perché di misteriose scritte avvitate alle porte: “App. tecniche maschili”, saranno mica parenti delle app sul display dei nostri cell.? Complici vicende davvero notevoli legate alla nascita dell’edificio oggetto di studio, l’attività capita che appassioni un bel po’, specie nelle sue fasi dinamiche di “caccia all’indizio” storico, su e giù per le scale, chi qua e chi là e che vinca il migliore.

Le ricerche odierne hanno portato al rinvenimento di alcuni interessanti documenti cartacei. Un foglietto volante arancione, perso dentro un vecchio registro, non era altro che il decreto di un’espulsione. Il 29 gennaio 1969 la Prof. Taldeitali presenta a carico del giovinetto (avete letto bene: GIOVINETTO) Tizio Caio il seguente rapporto disciplinare: scarsa applicazione (ancora queste app… n.d.r.) e contegno scorretto. Va da sé: c’era stato il ’68 anche nelle scuolette di montagna. Quella specie di multa, in copia, doveva essere esposta all’albo ed inserita nella cartella personale dell’alunno, che avrebbe avuto la fedina penale sporca alla faccia del garante della privacy.

Altro documento ingiallito, sfogliato in una nuvola di polvere: una raccolta di temi risalenti all’anno scolastico ‘73-’74. Tracce brevi, piuttosto sul vago. Una mi colpisce. Parla di cosa trovi profondamente ingiusto. Da quella e da altre tracce sparse tra i fogli di protocollo deduco un profilo di insegnante sinistrorso, illuminato e forte dei suoi valori. Di altra estrazione l’autore del tema, a occhio. Il suo pensiero, esposto con elementare efficacia, in soldoni: chi ammazza una persona dev’essere condannato all’ergastolo; chi ne ammazza due merita la pena di morte. In proporzione diretta al numero delle vittime, la pena capitale vedrà incrementare l’atrocità della sua esecuzione. Immagino l’inchiostro rosso del collega bollire nella plastica della Bic. Proseguendo, altra grave ingiustizia: la fame nel mondo. E come dare torto al giovinetto? Che continua: mi chiedo perché si siano spesi tutti quei soldi per il referendum; uno solo di quei miliardi sarebbe bastato per aiutare tutti gli uomini affamati ed assetati del pianeta. Spietato, come si evince dall’immagine, il commento dell’insegnante.

Una chiosa in rosso appare anche a margine della chiusa. “I politici inoltre sanno soltanto parlare, ma non agire”. Il Prof., in corsivo nervoso: “da approfondire…”.

Si può star sicuri che hanno approfondito, i politici.

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Balene

Cercavo un libro che mi insegnasse cose che non sapevo. Fatti e idee che proprio ignorassi, non le diverse declinazioni di un fenomeno che mi fosse già noto.

Così ho comprato un libro che parla di balene.

Ho quindi scoperto che un tempo solcavano gli oceani creature a dir poco pazzesche. Testimonianze storiche molteplici e circostanziate – purtroppo antecedenti l’evo videofotografico – riportano avvistamenti di animali giganteschi, serpenti marini lunghi cinquanta metri, capaci di spezzare a morsi imbarcazioni poderose.

Ho imparato che in fondo al mare può nuotare ancora oggi, grazie ad una straordinaria longevità, qualche balena coetanea di Moby Dick (data di pubblicazione: 1851).

Ho scoperto che l’ambra grigia – sostanza rarissima pescata in mare e usata dai migliori produttori di profumi per la qualità di inglobare trattenendole le altre essenze – non è che cacca solidificata di immenso cetaceo. Non lo sapevano neanche i produttori di profumi, all’inizio, e posso solo immaginare l’imbarazzo al momento di accogliere la nuova nozione elargita gratuitamente dalla scienza.

Ho imparato che le balene non sono solo natura – cosa più di questo mammifero può essere associato alla vita selvaggia?! – ma sono anche cultura. Per via culturale i cuccioli apprendono comportamenti e tecniche di sopravvivenza. Per via culturale – altro che istinto – imparano a soccorrersi e a rispettarsi. Con lo sterminio sistematico l’uomo cacciatore non ha posto fine soltanto all’esistenza di milioni di individui della specie, ma anche ad elaborazioni collettive che possono essersi estinte in seguito al calo demografico.

Ho scoperto – ma lo sapevo già perché me l’aveva raccontato uno scrittore – che le balene lasciano impronte. Sì, sull’acqua. Temporanee, certo, ma nemmeno troppo. L’acqua solcata da una megattera o da un capodoglio non è infatti davvero più la stessa di prima, cambia a livello molecolare, nella forma ma anche nella sostanza.

Ho capito perché da piccolo questo fosse il mio cartone animato preferito, e perché costruissi con i Lego complesse navi baleniere destinate ad attraversare la superficie mossa del parquet, tra la poltrona e la televisione. Per costruire Moby Dick mi mancava il know how. E i mattoncini non sarebbero comunque stati sufficienti. Tuttavia, i miei omini di plastica erano vigili e pronti alla caccia.

 

 

«Una rapida sequenza di stridii. Più che udirli con le orecchie, li sentivo dentro il petto; la mia cassa toracica era diventata una cassa di risonanza. La balena si stava creando un’immagine mentale di me: una scansione dell’intruso in risonanza magnetica nucleare, un profilo dell’alieno invasore.

Sentii il mio corpo rilassarsi e pisciai nell’acqua. Un pensiero ridicolo mi passò per la testa: mi ero presentato senza preavviso, con l’unico risultato di perdere il controllo delle funzioni corporee e orinare sulla soglia di casa del mio anfitrione. Poi, nel momento cruciale, la testa si girò e si chinò impercettibilmente, come mi avesse identificato. Non commestibile. Privo di interesse.

Passai dal puro terrore a qualcosa di diverso. Capii che era una femmina. Una grande madre che fluttuava davanti a me, intensamente viva. Malgrado il suo disinteresse, un invisibile cordone ombelicale sembrava unirci. Da mammifero a mammifero; la sua grigezza senza fine, il mio pallore senza madre. Perso e trovato. Un altro orfano.

Non riuscivo a capacitarmi che qualcosa di così grande fosse così silenzioso. Scansionato dalla carica elettrica del suo sesto senso, mi sentivo insignificante, e tuttavia non del tutto. Ricreato a misura sua e a misura del mare, ero stato assimilato dalla sua alterità, nella sua mente c’era una mia immagine. Mentre la balena mi sfilava davanti, vidi il suo occhio: grigio, velato, senziente, disposto lateralmente, centro della sua coscienza. Dietro, tutto il resto era muscolo, che si muoveva senza sforzo. Quel momento durò per sempre, un’eternità di pochi secondi. Entrambi nella nostra nuda interezza, separati soltanto dall’oceano sconfinato».

 

Philip Hoare, Leviatano ovvero la balena, Einaudi

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A volte ritornano

A Scuolamagia. Succede. A settembre e a ottobre di più. Che tornino. Appena possono. Quando la scuola nuova non è ancora cominciata o quando è chiusa per un santopatrono. Si guardano intorno. Cercano riferimenti nello spazio, mentre sono travolti da quelli nel tempo. Che riaffiorano, crudeli e taglienti. Vedono i nuovi – alle medie da due giorni – muoversi già padroni di tutto. Anche di ciò che era loro, soltanto ieri. Entrano quando vogliono, a Scuolamagia si può. Se ci sono io entrano anche in classe, si siedono per terra, sulla cattedra. Si appoggiano al muro. Protestano: “Ma ‘sto giochino che si vincon le Fonzies con noi non lo facevi…”. Vero, ma l’ho inventato l’altroieri, giuro. Mi giustifico ma arranco: avrei potuto inventarlo prima. Cala un velo di tristezza sottile mentre suona la ricreazione. “I migliori sono i ricordi brutti” – diceva Gassman in quel vecchio film. Quelli belli li pensi e ti accorgi che parlan di cose che non ci sono più. Come la tua vecchia scuola. Come la tua prima adolescenza, che non ha niente a che vedere con la seconda. Come i tuoi 11, 12, 13, 14 anni. Tornate presto, è mio il congedo per loro. Ma lo voglio davvero? Con tutto il male che fa? 

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Le mie 48 ore da Obama

Sono stato Obama per 48 ore. Ho vissuto la mia piccola crisi siriana standomene comodamente in terrazza. Sono stato combattuto tra l’interventismo e la non ingerenza: due istanze opposte che si sono scannate al ritmo dei passi delle mie vecchie ciabatte. Ero in possesso di prove evidenti: l’individuo sospetto era troppo nervoso, decisamente inquieto. E poi era palese la sua intenzione di spiare un orizzonte senza da quell’orizzonte poter essere spiato. Guardava guardingo alla sua destra, ignorando me che dall’alto lo guardavo guardare. Cosa calamitasse i suoi occhi, nel corso di quasi ogni sera nelle ultime due settimane, mi era più difficile stabilirlo. Il supermercato, certo, ma chi? Ma cosa? Ma perché? Il punto, tuttavia, era quell’ansia che lo divorava, quel continuo salire e scendere dalla macchina, il sistemare il berretto sul capo, calando il frontino in direzione degli occhi. Fino a quell’ultima mossa intravista dalla mia postazione di guardia: indossare e togliere un paio di guanti in lattice. La prova regina, anche per uno come me che non frequenta alcun tipo di letteratura gialla e noir. Che fare? Confidare nella favoletta della cittadina tranquilla in cui certe cose non succedono o lasciarsi trasportare dal fiume in piena del sospetto? Mi sono tornate alla mente le tante cronache incrociate sui giornali, inzuppate di sennodipoi, e le tante tragedie che forse “pensando male” si sarebbero potute impedire.

E allora ho preso il telefono e ho sentito dall’altro capo il peso della mia stessa preoccupazione. Solo che era una delle tante, in un mestiere in cui da un pensiero è automatico si scateni un’azione concreta e decisa. Ho sentito quindi  spronare una volante, a cui venivano fornite precise indicazioni logistiche, mentre ancora stavo descrivendo all’operatore quel berretto calato sugli occhi.

Nulla di cruento è seguito. Un goffo tentativo di fuga, un’identificazione, la raccomandazione di tornarsene a casa.

Non sono convinto di aver commesso un errore. Credo che si comporti davvero in quel modo sospetto chi fa la posta ad una ex colpevole di abbandono, un potenziale femminicida. Ma non era questo il caso. Ad altro serviva quell’attesa, ad altro era mirata la protezione di quei guanti. A una balla d’insalata mezza andata. A un pomodoro ammaccato, a quel che resta di una pesca sotto il superficiale strato ammuffito. Ho ostacolato il terribile reato di raspare in un cassonetto, ho impedito l’intercettazione di qualche alimento troppo imperfetto per finire nella sporta di una massaia ma ancora in grado di colmare il vuoto di una fame.

Non riesco a non pensarci, impotente, nel giorno in cui un sacco di persone di buona volontà giocano al digiuno.

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L’amore che c’è dentro, l’amore che c’è fuori

A volte, magari proprio di domenica, capita di leggere quasi integralmente tre quotidiani e un inserto e che la tua sete di storie rimanga a bocca asciutta. Poi a mettere le cose a posto ci pensa una piccola lettera, in quello spazio che spesso e volentieri sorvoli diretto altrove, ché in quelle pagine ci son prima di tutto gli editoriali ed i commenti autorevoli. Ci pensa un lettore con un pensiero controcorrente, con un’osservazione limpida quanto spiazzante.

Amnistia per tutti coloro che – fatti i conti con ovvie e sensate limitazioni – possono beneficiarne, pazienza se ci finisce in mezzo uno che non la meriterebbe.

Amnistia perché l’amore che è dentro possa incontrare l’amore che è fuori.

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Niccolò Fabi e la ragazza limone

Chissà se Niccolò Fabi l’ha vista, arrivando al centro commerciale che avrebbe ospitato il suo concerto, la ragazza vestita di giallo vicina a uno degli ingressi. Non era una ragazza vestita di giallo qualsiasi. Il suo lavoro, infatti, consisteva nel protendersi da un chiosco giallo a forma di limone, distribuendo dissetanti bicchieri – gialli, ça va sans dire – rigorosamente a base di quell’agrume.

Il cantautore era reduce con la sua band da un evento particolarissimo ai piedi delle Dolomiti: aveva cantato a 2000 metri sul livello del mare davanti ad un pubblico che si era guadagnato quella musica infilando i passi in un faticoso sentiero di montagna.

Abbia o non abbia intercettato con lo sguardo la ragazza-limone, dopo il terzo brano della sua performance Fabi ha confessato il suo imbarazzo: «Carissimi, ieri ho suonato in paradiso e qui, non posso fingere, è molto più difficile».

Mescolato tra i fan, assisteva al concerto un piccolo popolo di spettatori inconsapevoli, giunti sul posto per accaparrarsi qualche canottiera d’occasione. Le prime file, riservatissime, toccavano di diritto ai fedelissimi aficionados di certi corredi e di certe trapunte, possessori di una preziosa tessera-punti, del tutto ignari dell’opera omnia del cantautore romano.

Lungi da me fare della sociologia d’accatto, e lungi da me colpevolizzare il direttore del centro commerciale casualmente seduto a pochi metri dalla mia sedia – schiumante alle battute del cantautore («Ragazzi, io continuerei a suonare, ma qui ci sono delle regole piuttosto rigide…»). Ho solo intravisto in questo quadretto uno spaccato di quest’epoca fragile e ricca di contraddizioni. Con il Mecenate che invita nel suo palazzo l’Artista che forse più profondamente ha combattuto i suoi valori di riferimento.

 

Prima di partire si dovrebbe essere sicuri

di che cosa si vorrà cercare dei bisogni veri

Allora io propongo per non fare confusione

a chi ha meno di cinquant’anni

di spegnere adesso la televisione 

 

Non si può entrare in un negozio

e poi lamentarsi che tutto abbia un prezzo

se la vita è un’asta sempre aperta

anche i pensieri saranno in offerta

 

Ma le più lunghe passeggiate

le più bianche nevicate e le parole che ti scrivo

non so dove l’ho comprate

di sicuro le ho cercate senza nessuna fretta

perché l’argento sai si beve

ma l’oro si aspetta

 

Le canzoni, si sa, sanno scavalcare le contraddizioni, ha chiosato infine il filosofo con la chitarra. E la musica deve andare ovunque, adattandosi pure alla scenografia posticcia di un tempio consacrato allo shopping, proprio come fosse un anfiteatro dolomitico o il più blasonato dei teatri.

E chissà com’erano, i versi di Niccolò, assaporati da dentro il chiosco a forma di limone. E chissà come batteva, il cuore della ragazza vestita di giallo, ospite di un agrume il tempo necessario per pagarsi gli studi, prima di rimettersi a caccia dell’oro tanto aspettato. Giallo anche quello, in fondo.

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Pronto, Yelena? Ti ricordi di me?

La campionessa russa Yelena Isinbayeva ha almeno in parte smentito le atroci dichiarazioni rilasciate nei giorni scorsi a sostegno della legislazione anti gay varata da Mosca. Mi sono esercitato ad immaginare le ragioni del suo dietrofront.

 

Magari è arrivata una telefonata dallo sponsor, timoroso di perdere una fettona di mercato.

 

Magari ha telefonato proprio Putin, dicendo lascia stare Yelena, non son cose per signore, lascia che me le sbrighi io, certe sporche faccende. Tu pensa a portare sempre più in alto il nome della Russia.

 

Magari ha telefonato Silvio, l’amico personale di Putin: “Consentimi di darti un consiglio, Yelenona, fai come faccio sempre io, smentisci tutto, dichiara di essere stata fraintesa… di’ che è tutto un misander… un misundestunting, com’è che dite, voi giramondo… ah, te l’ho raccontata la barzelletta quella dell’asta?”

 

Magari sono state le meravigliose, tante tantissime cacche (con la tastiera :poop: ) che da ventiquattrore hanno cominciato a depositare sulla pagina pubblica dell’atleta russa centinaia di utenti di Facebook. Uno sconfinato tappetone di merda su cui atterrare dopo un salto tutto storto.

 

Magari tutto è partito proprio da una telefonata. Inaspettata. Pronto, Yelena? Ciao, sono Ekaterina, ti ricordi di me? Sì, al liceo. Quella in ultima fila, con la lunga coda di cavallo. No, non eravamo amiche per la pelle, ma qualche bella risata insieme ce la siamo fatta. Eri così bella, non riuscivo a staccarti gli occhi di dosso. Una volta ti ho anche scritto una lunga lettera, ma il coraggio di fartela leggere non sono proprio riuscita a trovarlo. No, non vivo più a Volgograd; adesso la mia casa è a Stoccolma. Ci vivo con Anna. Ci siamo conosciute a Londra, cinque anni fa, eravamo lì per lavoro… E tu? Dimmi di te… Ma no, dei salti so tutto… dimmi il resto… sei felice?

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Quelli che fermano i carrarmati

C’era un ragazzo che come noi amava la vita e la libertà.

Ce lo ricordiamo tutti.

Ci siamo chiesti tutti cosa contenessero le sue borse di plastica.

Ma è passato tanto tempo, e forse qualcuno nemmeno se lo ricorda più, quel ragazzo. È passato talmente tanto tempo che nemmeno le borse di plastica esistono più.

Egitto, bulldozer contro i sit-in

Questo invece è appena ieri.

Egitto, bulldozer contro i sit-in

Questo è sangue che bisogna ancora lavare, se non verrà coperto da altro sangue.

Immagino che Beppe Grillo abbia a fianco a sé un giovane smanettone, uno che alla bisogna compone i fotomontaggi per il blog più seguito dagli italiani. Ligio ai suoi doveri di attivista, quel ragazzo taglia la testa ad Enrico Letta e la deposita sul corpo di un vampiro, ah ah ah, cose così.

Ieri, Grillo ha commissionato questo.

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Voi che lo votate, un italiano su tre, pensateci a questa perfetta “scelta di tempo” del vostro leader.

Ripetetevi che lui è fatto così, che son fatti così i comici. 

E continuate pure a prepararvi all’autunno.

 

Ah, il ragazzo, quello colle borse e senza Photoshop, si avvicinava al carrarmato fino alle strisce pedonali.

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Come WU MINGhia parli?

C’è un parlamentare grillino in ferie che sale in cima a una montagna e pensa bene di filmarsi per comunicare con tutto il movimento e tracciare una sorta di bilancio. Sembra un invasato, sarà l’altura, sarà lo scranno che occupa da qualche mese. Parla dei cittadini ancora da conquistare e il suo ragionare è a dir poco tortuoso: “Siate accoglienti con le persone che pensano di pensarla in maniera diversa da noi e invece no”.

 

Sfoglio “Repubblica”, stamattina, e la parola passa al collettivo dei collettivi, interpellato sul significato del concetto di “sinistra”. Un altro soggetto che ama rivolgersi al popolo, alla società e ai suoi movimenti. Sentite qua:

 

«Sinistra è una parola, è una visione del mondo. Non è fatta per un soggetto immaginario, cambia secondo la posizione da cui la dici. Come parola disincarnata è solo un’imperfetta metafora spaziale, bidimensionale, dunque inadeguata perché il mondo è pluridimensionale, e poi ha un sottotesto “parlamentare” che pesa perfino quando la usi in modo extraparlamentare…».

 

Chiaro no?

(Poi dice che uno vota Matteo Renzi…)

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Pensosa sul campo

La lettura di una fotografia può portare ad un numero di interpretazioni pari al numero degli interpreti: a ciascuno la sua. Giusto così. Questa ad esempio, in prima pagina oggi su un quotidiano delle mie parti, nella sua versione online è oggetto di commenti sferzanti: la gente ha bisogno e loro rivolgono lo sguardo dall’altra parte…

Io ho deciso di vederci l’esatto contrario e la faccio rimbalzare nella Pozzanghera come una buona notizia, dal fronte di una politica nuova.

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Se il Principe diventa solo un tizio

 

Francesco De Gregori ha detto la sua in un’intervista al “Corriere della Sera”. Al solito l’ha fatto in quella maniera un po’ così, che sta alla simpatia come il giorno sta alla notte. Ha sparato nel mucchio della politica, affermando alfine di averne preso le distanze, dal mucchio. Ognuno è libero di concordare o meno con i singoli concetti espressi dal cantautore, di condividerne o no lo sguardo pesantemente disincantato.

Colpisce, tuttavia, il tono di alcuni commenti un tantino tranchant, e a titolo d’esempio cito quello del giornalista dell’Espresso Gilioli:

“Poi qualcuno mi spiega il senso di un’intera pagina di intervista politica a un tizio che fin dall’inizio spiega di seguire poco la politica, di non sapere chi è ministro di cosa, e che preferisce guardare dai finestrini invece di leggersi un giornale”.

Un tizio. Poi dice che è Grillo quello che storpia i nomi dei suoi interlocutori.

Il tizio scrive e canta da quarant’anni pezzi che – piacciano o non piacciano – raccontano l’umanità tutta e nello specifico questa sua piccola fetta che risponde al nome di Italia. Il tizio ha cantato il lavoro e le migrazioni, vecchie e nuove. Il tizio ha cantato i poveri, stivati sempre qualche piano al di sotto dei ricchi. Il tizio ha cantato la Storia: la guerra, il Fascismo e la Resistenza, spingendosi pure in quel ginepraio che è stata la Repubblica di Salò (e non gliel’hanno mai perdonato, troppo poco ortodosso, nonostante le parole inequivocabili: “parte sbagliata”). Il tizio ha cantato il terrorismo e le brigate rosse prima e meglio dei romanzieri e dei saggisti. Il tizio ha messo in una canzone il 12 dicembre 1969.

 

[Per non parlare di come il tizio ha cantato l’amore ché quello è un altro discorso.]

 

Se il tizio – invecchiato, imborghesito, insalottito, quelchevoletevoi – desidera quindi esprimersi su quest’Italia e le sue magagne, su chi tenta di governarla e su chi tenta di raccontarla, su Berlusconi e Renzi, sulla CGIL e l’Ilva di Taranto, io glielo lascerei fare e lo ascolterei anche se non sa quale sia il ministero guidato da Enzo Moavero Milanesi e anche se gli è sfuggito l’ultimo articolo (o l’ultimo post su Facebook) di Alessandro Gilioli.

Perché certe voci – liberi di dissentire – vanno ascoltate.

Ascoltiamoci, è un modo di resistere (con gli occhi aperti nella notte triste).

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Lettera a Erich Priebke

Gent.mo Erich Priebke (!!??!!??),

 

vede com’è difficile già soltanto cominciarla, questa lettera? Capirà come non avrei mai potuto scrivere “caro,”, ma anche il “gentile” quello delle lettere formali, quello che non si nega a nessuno, quello che si scrive anche quando poi nella missiva si va al sodo di contestazioni critiche e reprimende, ammetterà che suoni strano, davanti alla palese non gentilezza di alcune sue prese di posizione e più in generale della sua condotta da quando nel 1995 è stato estradato in Italia.

La notizia è che lei sta per compiere 100 anni e soprattutto che qualche italiano sembrerebbe intenzionato a festeggiare il suo genetliaco e di farlo spudoratamente in un luogo pubblico. Non è di questo che le voglio parlare, tuttavia. Esistono i mezzi per evitare quello scempio e mi auguro che chi è nelle condizioni di utilizzarli lo faccia prontamente.

Ieri tutti i siti dei giornali hanno pubblicato un video in cui lei sta camminando su un marciapiede romano accompagnato dalla sua badante. Una scena come se ne vedono tante in giro per le città e per i paesi. Abbiamo infatti riscoperto la sua esistenza. Quel 100 tondo tondo ci ha ridestati dal sonno e abbiamo di nuovo incrociato quel suo corpo possente, certo invecchiato, ma ancora in grado di deambulare, seppur sostenuto, in maniera sostanzialmente dignitosa. Mi sono chiesto cosa volessero i nostri occhi da quelle immagini. Che lei incespicasse e sbattesse la faccia sull’asfalto? Che lei provasse vergogna nel veder catturata ed esibita la sua fragilità di vecchio? Pensi che lo showman Fiorello, su Twitter, ha appena associato la sua condizione di centenario alla morte di quel giovane motociclista avvenuta a Mosca pochi giorni fa. Sottinteso: come sono ingiuste le cose del mondo, un venticinquenne innocente ci saluta tanto presto e invece Priebke… Pochi istanti fa, invece, lo scrittore Erri De Luca sullo stesso social media le ha augurato di viverne altri 100, di anni: “possa trascinarsi per un altro secolo il suo nome maledetto…”.

Il suo caso ci interroga sul significato profondo della Giustizia. Lei è stato dichiarato – seppur dopo un iter giudiziario rocambolesco – colpevole per crimini orribili. Una giuria ha fatto i conti con prove certe, con riscontri oggettivi. La sua difesa ha avuto modo di giocare le proprie carte. Il verdetto nel condannarla ha tenuto presente la sua età avanzata, così come prevedono ordinamenti “uguali per tutti”, dal ladruncolo al boia nazista. Un difficile esercizio di ricerca della verità è stato portato a termine. Funziona così, in democrazia. Noi siamo “i buoni” e con i nostri strumenti da “buoni” abbiamo messo sotto la lente un tempo lontano in cui erano prassi le azioni di “cattivi” come lei. “Cattività” da cui, a quel che mi risulta, lei non ha mai preso le distanze.

Nei prossimi giorni si eserciteranno in tanti sul tema del suo compleanno. La immagino impermeabile agli insulti che nel tempo le saranno piovuti addosso in quantità, magari anche nel corso delle sue normalissime passeggiate colla badante. Ci saranno gli editoriali e le battute sagaci. Ci saranno le volgarità e le minacce. Ecco il punto: forse noi “buoni” non dovremmo cadere in questa trappola. Proprio perché non siamo come lei, proprio perché noi gli istinti li dobbiamo frenare, dobbiamo aiutarci vicendevolmente a farlo. Può capitare che qualcuno non si trattenga, è umano, ma ci dev’essere qualcun altro vicino che lo quieta indicandogli battaglie più urgenti su cui concentrare le energie.

C’è un vecchio criminale nazista che non schioda dalla vita e gode invece di ottima salute. Ma è stato condannato. La Giustizia si è pronunciata. La sua infamia è scritta, e può essere raccontata a chi verrà. Dovrebbe essere sufficiente. Perché, altrimenti, rischiamo di diventare al solito paradossali, noi italiani: prendere lei come facile obiettivo – lo sanno tutti cos’è un nazista – e gettare la spugna sul fatto che ormai moltissimi giovani ignorano che gente della sua risma, trent’anni dopo la guerra, faceva saltare le stazioni ferroviarie stracolme di innocenti. C’è talmente tanta Giustizia da fare, in questo paese e in questo mondo, per sprecare la propria rabbia e la propria indignazione su quella che – al netto dell’orrore che rimane e deve rimanere – è già stata fatta. Io la sua faccia, Signor. Priebke, me la ricorderò finché campo, e anche certi suoi infimi sorrisetti, ma la sua pratica mi devo sforzare di metterla in un’altra cartella. Io gioco coi “Buoni”, e i “Buoni” non stappano una bottiglia nemmeno quando muore un “Cattivo”. Se no che “Buoni” sono? Se tra buoni e cattivi non ci sono più differenze, o sono marginali, allora tanto vale che ci si definisca “i verdi” e “i blu”.

Qualche anno fa, l’allora responsabile della comunità ebraica italiana Tullia Zevi ebbe a dire, con riferimento al suo ergastolo: “noi teniamo al principio della imprescrittibilità dei crimini di guerra nazisti, dunque al processo e alla condanna all’ergastolo; non teniamo che il condannato resti in galera e ci muoia”.

Oltre a riportare questa citazione della Zevi, Adriano Sofri ha scritto nel suo Chi è il mio prossimo:

«Un minuto dopo la sentenza, sarei stato sollevato se Priebke fosse stato rimandato a casa sua. Non ha alcuna importanza, ai miei occhi, che uomo sia oggi, quali pensieri esprima o taccia sul suo passato, quali condoglianze o perdoni accetti o rifiuti di pronunciare. Riguarda lui. Forse riguarda i parenti delle vittime, ammesso che diano peso a ciò che lui dice o tace: non so. Per me non ha alcuna importanza. Non importa niente che uomo sia, ma che sia un uomo: un vecchio uomo innocuo e superfluo per chiunque, se non per la propria vecchia donna e per sé.»       

La vecchia donna, sua moglie, è nel frattempo mancata in quel di Bariloche, Argentina. Del suo video a spasso per Roma non mi ha colpito la sua fiera fragilità di vecchio, bensì la dedizione e l’amorevole cura della sua badante. Un’altra donna. Italiana? Ispanica (in fondo lei ha trascorso decenni in Sudamerica…)? Originaria dell’Europa dell’est come capita spesso? Chi lo sa e cosa importa. I malpensanti avranno buon gioco nell’immaginare questa signora avidamente attratta dai beni che le rimangono, e dal fatto di poter “alzare il prezzo” davanti ad un utente così fuori dal comune. A me, invece, piace pensarla come una donna che ha ben chiaro un concetto: un uomo rimane un uomo, molto prima della feccia delle sue idee e delle sue azioni. Una che gioca tra “i Buoni”, insomma, quelli di cui ho voluto parlarle in questa lettera. Me la saluti.

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Res cogitans, Soletta, Tutte queste cose passare

Stringendo l’occhio, guardando il fiore del grano

Non ho mai letto un libro di Vincenzo Cerami, al massimo qualche suo intervento sui giornali. Non ho motivo per piangerne la scomparsa o per lodarne l’opera semplicemente perché non ne so abbastanza. Tuttavia, un piccolo senso di colpa mi ha punto in questi giorni, per aver sbeffeggiato il suo racconto protagonista della Prova Nazionale Invalsi del 17 giugno. Il testo, non credo rappresentativo della grandezza dello scrittore, era in realtà incolpevole; a farlo precipitare nei bassifondi del ridicolo sono state ovviamente le domande apposte in calce dal carrozzone nazionale preposto alla valutazione del sistema scolastico.

Leggendo qua e là, però, ho scoperto che alla penna di Cerami – il Cerami sceneggiatore – devo alcune pellicole a cui mi legano ricordi piuttosto tenaci. Nessuna pietra miliare della filmografia mondiale, d’accordo, ma piccole storie tutte venate da una loro ingenua purezza, tutta roba che oggi non potrebbe esistere e finirebbe inevitabilmente dentro la centrifuga del cinismo. Erano storie di padri magari tutti sbagliati, sbalestrati, perduti, ma che non perdevano la forza di guardare negli occhi, con dolcezza, bambini incapaci di recitare come tutti i bambini dei film, almeno di quelli italiani. 

 

 

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Res cogitans, Soletta

Miss Charity

Stavo subito per commettere uno sbaglio, scrivendo che il nuovo libro di Marie-Aude Murail dovrebbero leggerlo tutte le ragazze dai 10 a 94 anni. In realtà sarebbe molto meglio lo leggessero i maschi, nonostante l’edizione italiana strizzi pesantemente l’occhio a un pubblico di genere, con coniglietti e foglioline color glicine. La coraggiosa emancipazione di Miss Charity nell’Inghilterra di fine ‘800, dove avere successo in una professione, per una donna, equivaleva ad una sorta di crimine e criminali erano per tutti semplici azioni come andare a teatro o imparare a memoria un sonetto di Shakespeare, è un processo lungo quasi 500 pagine, coloratissime e piene zeppe di humour. 

A dare un ritmo da commedia al romanzo, la trascrizione dei dialoghi nelle modalità del testo teatrale, idea originale e soprattutto efficace.

 

KENNETH ASHLEY

Ccc…osa vi è successo?

 

MISS CHARITY

Quello che succederà alle donne.

 

KENNETH ASHLEY

?

 

MISS CHARITY

Mi emancipo.

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Res cogitans, Soletta, Stream of consciousness

Il fatto che non piangiamo

Mi schiaffeggio. Verifico di esser sveglio, di esser vero. Il genere letterario che maneggiano le mie pupille sul laptop è proprio quello, non c’è verso. Sto leggendo un’omelia. Maquandomai? E mi convince pure, non c’è santo. Anzi sì, c’è, ed è colui che l’ha pronunciata, oggi, a Lampedusa. Sono ancora ricoperto da una fitta tela di ragno di pregiudizi, mi sembra tutto così assurdo, ma quello che vedo davanti a me è un gigantesco supplente. Nessun leader politico sarebbe andato lì, e in quel modo, nemmeno dopo aver vinto le elezioni col 79%. Questo va lì e dice: è colpa nostra. Questo va lì e dice: cazzo, abbiamo un problema, quelle morti non ci fan piangere. Cioè, cazzo Lui non lo dice, ma non possiamo non dirlo noi che è proprio quello, il fottutissimo problema. Il mio, il vostro, quello di tutti, anche se Lui non dice neanche fottutissimo.

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Res cogitans, Stream of consciousness, Tutte queste cose passare

L’arte tutta femminile di incastrare le corriere

 

Immaginavo fosse dura leggere di un Tour de France senza la penna di Gianni Mura, la sua passione per le storie incastonate come perle dentro la cronaca, le sue sublimi divagazioni, ma così è davvero troppo. La Grande Boucle si apre con una tappa pasticcio, un inconveniente dietro l’altro, e un episodio tra i tanti riconcilia teneramente con la fallacia degli umani. Un superpullman guidato da un superautista (uomo) si incaglia maldestramente sotto l’arco del traguardo montato da tecnici (uomini, con tutta probabilità) nell’ambito di una corsa di corridori (uomini) organizzata e diretta da importanti personalità (uomini) del ciclismo francese, prima di venir soccorso da una provvidenziale squadra di pompieri (uomini). Il tutto davanti a qualche centinaio di milioni di telespettatori (per gran parte uomini) sparsi per il mondo.

Ecco la cronaca dell’inviato (uomo) di “Repubblica”.

 

«Il genio al volante (c’è un filmato già cult) alza gli occhi e,

come vostra moglie al parcheggio dell’ipermercato,

decide che sì, lì ci passa».

 

Chiudo il giornale, se non ora quando?

 

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