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Il venerdì delle ragazze

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Venerdì la mia biblioteca di montagna ha festeggiato 8 anni di vita, ma era il 25 marzo e l’anniversario che avevo in testa, nonostante il brindisi col the alla pesca e la fetta di torta al limone, era un altro. È bello sempre, il clima nella mia biblioteca di montagna. Venerdì lo era quasi troppo, quasi da vergognarsene. C’erano ragazze che pensavano a che regalo fare per il compleanno di altre ragazze, c’erano ragazze su Facebook, c’eran ragazze che dovevano andare via prima della chiusura, rammaricandosene, salvo ricomparire, dopo pochi minuti, sulla chat di Facebook. C’erano ragazze un po’ più grandi con il cagnolino appresso, c’erano ragazze che ridevano su YouTube insieme a Paola Cortellesi che registra lo spot di Magica Trippi. C’erano ragazze dappertutto, e chissà dov’erano i maschi, venerdì 25 marzo. Forse al campetto, ora che la neve pare essersi sciolta anche lì. Ce n’era una, di ragazza, che esigeva non uno ma 7 pennarelli per disegnare un arcobaleno. Forse era destino che fossero tutte così ragazze. Un anno fa è morta Marta Lunghi, ventiduenne bibliotecaria volontaria. Per le ragazze ed i ragazzi del suo paese. Perché potessero leggere, ma anche perché potessero disegnare arcobaleni e ridere di gusto. Fu atroce, quella morte italiana. Inscatolando uova, il suo lavoro precario, in nero, per 5 euro all’ora. Se ne ricordò il Presidente Napolitano, di Marta. Lo fece il Primo Maggio del 2010 e io la conobbi così, dalle parole del massimo rappresentante delle Istituzioni. Dovrebbe essere anche questo, la politica, e per favore smettetela di ridere…  

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La fine del mondo a pag. 12

A quelli di Terza piace fare la rassegna stampa. Proprio come in Tv: evidenziatore in resta e frusciare di pagine. Cami ha chiesto “La Repubblica” e si è immersa nel racconto – quasi epico, quasi macabro – dell’inviato Visetti. Giorgio ha voluto “L’Unità”, piccolo formato ma grandi dilemmi nucleari. Debora, sul “Messaggero Veneto”, ha seguito le tracce di una presunta donna friulana sperduta sul suolo nipponico. Ili non è andata oltre la prima pagina, leggendo e sottolineando, ma, si sa, il “Corrierone” è denso e corposo. E Anna? Anna, non senza qualche imbarazzo, mi ha fatto notare che il suo, di giornale, quello tra i tanti capitato tra le sue mani, dei fatti giapponesi proprio non dava conto. In prima pagina c’era un signore dai tratti non certo orientali (Santoro!), continuando a sfogliare ci si imbatteva nella Gelmini, che loro, i miei alunni, chiamano “Germini”, fin dai tempi di un lapsus freudiano di Cami, in altri signori (Fini, Bocchino), in un ciccione (Ferrara) e ovviamente nell’incerottatissimo Premier.

Poi no, eccolo, in effetti, il Giappone. Trattasi di “esteri”, la pagina giusta è la 12. E poi ecco anche la 13, si vede che il direttore aveva deciso di strafare.
Il titolo del primo pezzo – ripeto: pag. 12 – un altro capolavoro: LA FINE DEL MONDO…
E io che davanti all’edicolante mi ero imposto una sorta di par condicio da bravo insegnante pressappoco super partes
Merda.
Giornale di…
Direttore di…
Mondo di…
Fate voi.    

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Lettera a un killer

cenere
Gentile Makkox,

la sua matita elettronica è straordinaria. Le sue vignette sono epifanie. Fanno svoltare una giornata, le danno senso e ritmo. Raccontarle agli altri è la sfida più bella, soprattutto quando non c’è il computer a portata di mano e si sta magari passeggiando all’aria aperta. E quando le vedono senza vederle, gli altri, ridono di gusto… C’è Fini impettito di profilo, immaginati Berlu di spalle, gambette tarchiate aperte, c’è Bersani ingobbito, maniche tirate su, c’è un Padano svampito, c’è Ruby, c’è questo e c’è quell’altro.

Inizialmente a colpirmi era il tratto. Mi ero convinto che a Montepulciano avessero celebrato anche il funerale delle vignette, insieme a quello di Andrea Pazienza. Mi sbagliavo.
All’inizio è stato il tratto, dicevo. Poi ho capito che il segreto sta nella lingua. Una lingua meravigliosa. Una lingua così piena, densa, grassa, colorata, esplosiva.

Ma mi appropinquo al sodo.
Le scrivo come si scrive ad un killer.
C’è un politico padano delle mie parti, il capogruppo regionale della Lega Nord del Friuli Venezia Giulia, che oggi ha dichiarato quanto segue:

«La Prefettura di Pordenone sta cercando spazi per ospitare immigrati libici sul territorio in strutture private, ma noi non vogliamo questa gente: si costruiscano dei campi lavoro in Aspromonte, da noi i libici non devono arrivare»

Le chiedo semplicemente di uccidere quest’uomo con la satira. Come sa fare lei. Di scorticarlo come si fa coi conigli. Di scherzarlo brutalmente. Di irriderlo. Di giustiziarlo, di fare giustizia.
Sono davvero disposto a pagarLa, mi dica lei quanto. La cifra non è un problema. Faccia presto, però. Ho letto alcuni interventi pubblici della vittima e mi creda, ha già fatto molto male alla civiltà.

Grazie per tutto il lavoro sporco che ci pulisce.

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150 anni e una domanda

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Il mio paese ha 150 anni – auguri! – e mi pare che oggi, 26 febbraio 2011, stia tutto dentro una semplice domanda. Non resta nulla attorno, terra bruciata, è davvero tutto concentrato lì. Passato presente futuro. Destra e sinistra. Berlusconi e avversari di Berlusconi. Berlusconi in sé e Berlusconi in me. Una domanda che è come una somma, mettiamo ad esempio 150, centocinquanta. Un totale che una volta raggiunto non ha più senso chiedersi se derivi da un 80+70, da un 100+50, da un 1+1+1+1+1… portato alle estreme conseguenze di quei tre numerini tondi e definitivi. Basta, non serve altro. E poi ci sono le risposte. Inevitabilmente due. La domanda è una di quelle allergiche ai distingui e distinguini, ai realismi politici e ai politicamente corretti.

La scrivo in grande e la posto, con la “o”. L’ha posta, con la “a”, Adriano Sofri.

Quando il telegiornale dice:

“Il maltempo frena gli sbarchi”,

vi dispiace

o siete contenti?

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Scrivi Vecchioni, scrivi canzoni

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La prima volta che l’ho visto avevo 14 anni. È salito sul palco ed è cominciata malissimo: Agordo (in provincia di Belluno) si pronuncia Àgordo e non Agòrdo ma il cantautore evidentemente non lo sapeva. Niente paura, davanti alle sonore rimostranze del pubblico locale, quell’ometto è tornato sui suoi passi, rifacendo tutto da capo. Nuovo ingresso e…: “buonasera Àgordo!”. Bisogna sempre mettere i puntini sulle “i”, e pure gli accenti sulle “à”, un professore come lui queste cose le sa.
Poi per me si è trattato come di una sorta di rito di iniziazione. Di concerti non ne avevo visti altri, quello era il primo, quindi non che ci volesse molto ad impressionarmi. Però a colpirmi furono più le parole dette che quelle cantate. La trama tessuta tra una canzone e l’altra, il repertorio di piccoli aneddoti, didascalie, contrappunti e chiose. Una tra tutte: “bisogna amare le persone PER QUELLO CHE SONO, non PER QUELLO CHE SONO PER NOI”. Io lì, folgorato. Come avessi ricevuto le tavole di una legge divina. E quante volte l’ho ridetto e scritto, quel pensiero, a volte citando la fonte, a volte vabbeh…
Riascolto oggi parole della stessa grana, ruffiane, spudorate. Belle, ancora. Le vedo arrivare all’improvviso ad una marea di orecchi nuovi e spero facciano lo stesso effetto che hanno fatto a me. I miei bimbi a scuola, loro forse non sono ancora pronti, mi parlano di “quel vecchietto”, ma si vede che sono rimasti impressionati da quanto ci credesse…, e da tutta quella grinta…

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L’orgoglio di vivere in un paese dove non è proibito chiamare Silvio il proprio maiale

2011-01-14

Ogni tanto il ritmo vorticoso (!) e vorticante (!) delle lezioni va proprio spezzato. Succede in quei giorni – in genere a febbraio – in cui un terzo degli alunni di una scuola di montagna è impegnato in estenuanti competizioni di sci nordico che si svolgono in remote località alpine, un altro terzo se la spassa da qualche giorno sul divano alle prese con l’influenza e un’ultima porzione di studenti gira per le aule semideserte chiedendosi perché non ha abbracciato la passione per gli sci stretti o perché almeno non ha abbracciato quel cugino che starnutiva.
Ieri questo simpatico sito mi ha aiutato a spezzare. Promette candidamente di insegnarti una cosa al giorno. Una cosetta da niente, spesso decisamente una stronzata, a volte una curiosità illuminante. Mai una teoria complessa o un dato poderoso, questo è chiaro da subito. A me piace perché livella. Davanti a quelle diapositive colorate gli alunni sono davvero tutti uguali, e se alla fine ci si sfida a “chi ne ricorda di più”, di stronzatine, la gara è davvero apertissima. Non c’è secchione che tenga: armi pari.
E poi, e poi c’è quel messaggio che sembra davvero la pubblicità della Scuola, di ogni scuola. L’idea che davvero si proceda per piccoli piccolissimi passi, oggi una nozione, domani una relazione causa effetto, dopodomani un confronto, poi una data, una parola nuova, un suono, un luogo. E il nome di un vento, una formula, come si ottiene un colore, il colore di una bandiera.
Così, a beneficio di chi sguazza nella pozzanghera… sappiate che…
I Beatles non sapevano leggere la musica.
La Statua della Libertà calza un sandalo numero 876.
Ogni umano trascorre in media 2 settimane della sua vita… intento a baciare.
Le zanzare sono attratte di più da chi ha appena mangiato una banana.
Dal Titanic furono tratti in salvo anche 5 cani e un maiale.
La nostra bocca produce un litro di saliva al giorno.
Nel film “Quei bravi ragazzi” viene impiegato il termine FUCK. Sì, 300 volte.
È illegale in Francia battezzare Napoleone il proprio maiale.

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Non possiamo non dirci IL CULO

I quotidiani viaggi verso Scuolamagia mi rubano all’incirca 2 ore. Uno lo sa in partenza e si attrezza. Quindi pensa, parecchio, quindi canta, quindi ascolta musiche varie e la radiofonia che le vallate di montagna permettono di intercettare. Questa mattina – il tempo di un’andata e di un ritorno – dai microfoni della radio pubblica ho ascoltato ben 2 voci femminili, voci di giornaliste navigate, avanzare un pericolosissimo punto di vista capace di fare imbestialire il mio femminismo a oltranza. Che pena queste giovani donne così volgari, capaci di macchiarsi di parole tanto spietate nei confronti di una persona anziana. “Vecchio”, “Cadente”, “Grasso”, “Fa schifo”. Ma è quello il modo di riferirsi ad un Premier attempato? E poi, quella Ruby: ma è proprio il caso di continuare a porre l’accento sulla parola “minorenne”? Ma non sembra anche a voi un po’ troppo scaltra, disinvolta, furbetta per finire nel mucchio degli infanti insieme alla vostra nipotina di 7 anni? Ecco, parole così.
Da qui l’idea del post che sguazza oggi nella Pozzanghera. Per prender parte, per stare dalla parte giusta. Fondere e intrecciare un celebre pensiero del laico Benedetto Croce (“Non possiamo non dirci Cristiani”) con l’intercettazione telefonica più eloquente della storia, un’agile sineddoche attribuita alla giovane Ruby (“…io sono il culo”).

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Il naso e i ciclamini

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Trascorrere una serata davanti alla Tv è sempre più una mission impossible. Come immagino facciano sempre più italiani, ieri ho ripiegato su un’accurata cernita di immagini “sviste” nel corso delle ultime settimane e ripescate su YouTube. Tra queste, l’intervista barbarica a Emma Bonino, che tra tante cose interessanti ne ha detta anche una bellissima.

La trascrivo.

«Ma la donna dell’anno, invece, chi è secondo lei?»

«Mah… per me… per come l’ho vissuta io, per come l’ho amata, per come l’ho conosciuta… per me è Aung San Suu Kyi. Una che resiste in modo non violento agli arresti domiciliari per 17 anni, una che ha vinto le elezioni… – io sono andata a trovarla nel 1997 e spero di riuscire presto ad andare – che esce e la prima cosa che dice è “voglio dialogare con la giunta… questo paese deve progredire verso la democrazia…” …‘nsomma… ed è minutissima, piccolina, ricordo quando mi sono chinata per abbracciarla e il mio naso lunghissimo è finito nei suoi ciclamini che ha dietro i capelli e quel profumo non lo scorderò mai più…».

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Il bambino e il bambone

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Nata come nascono certe espressioni in classe – per puro caso – ormai è un piccolo cult a Scuolamagia. Un giorno uno si alza e non avrebbe dovuto alzarsi, ché già è piuttosto raro che io lo faccia stare seduto per più di dieci minuti.

«Vai al posto o ti abbatto come un camoscio», ho detto.

Sarà che i cuccioli certe cose le sanno immaginare e sembrano quasi vederle davvero. Sarà che non sanno che per me un capriolo un daino un camoscio un cerbiatto uno stambecco e un cervo sono in linea di massima lo stesso animale. Sarà quel che sarà, il camoscio è tornato al suo posto e la lezione è continuata tranquillamente senza intoppi, senza polemiche e gesti di insubordinazione.
Da quel giorno, constatato che funziona, ho abbattuto molti camosci.
Io non sono capace, ché per me uno schioppo un archibugio una carabina una pistola un mitragliatore un bazooka un kalashnikov sono la stessa arma, ma alcuni ragazzi al momento giusto mimano la fucilata nell’aria. Puntuale, Anna sbotta indignata: «Ma povero camoscio!!!».
E si ricomincia. Altro che pausa-caffè. Pausa-camoscio.
Due ore fa passeggiavo in un bosco, piccolo ma piuttosto selvaggio, quando da certi cespugli è sbucato un quadrupede maestoso, un camoscio un capriolo… non so… da piccolo avrei detto “un bambi”, ma grande, “un bambinone”, un “bambone”. Inseguito da un cane (oggi mi risulta che la caccia sia chiusa, forse si trattava dell’animale di un bracconiere, o – visto l’imbarazzante esito dell’inseguimento – di un braccobaldoniere), letteralmente volava. Ma niente era magico, non c’era leggerezza, era un volo rumoroso, era materia che rimbalza sulla materia, erano rumori di sassi smossi, foglie secche, rami e rametti spezzati. Era un fiato, un fiatone, erano sbuffi di locomotiva, era un vento. Erano traiettorie perfette e due occhi perfetti a guidarle. Era scintillante bellezza, pazienza se non c’era fantasia e c’era soltanto istinto. Puro, libero.
Son rimasto lì 2 o 3 minuti come un bambino, vittima di un incantesimo, quasi abbattuto da un camoscio.

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Vieni via con Saviano?

Il primo messaggio arriva alle 21.05, mentre sto ancora trafficando con fogli stampati e fogli da stampare.
Dice: “COMINCIA”.
L’asciuttezza degli sms della mia alunna Ili è inversamente proporzionale ai fiumi di parole che impiega per raccontarti a voce anche un fatto minuscolo e insignificante.

Lo so che comincia, ed è proprio per la fretta di raggiungere il divano che mi sono imbottigliato in un pasticcio di stampe sbagliate.
Tutto è iniziato a scuola, una decina di ore prima. Ho beccato Debby in corridoio e ho tracciato una piccola “P” con la penna blu sul palmo della sua mano. “Ricordami che dopo, all’ultima ora, devo fare una pubblicità”. Me ne sono ricordato da solo, poi, nonostante la mano di Debby sia sventolata puntuale al mio ingresso nell’aula. “Se vi va, se non guardate il Grande Fratello (piacevoli smentite cariche di disgusto), stasera alle nove provate a sintonizzarvi su Rai 3”.
“Ah, c’è quello del libro e della scorta, no?”
“Sì, proprio lui, e ci sono altre cose di cui abbiamo parlato a scuola”.
“Mhh, vediamo”.
“Mhh, vedete”.
Il secondo messaggio dice: “CHI È QUESTO TIZIO?”
“Si chiama Silvio Orlando, è un grande attore. Ti ho fatto vedere un suo film, quando eri in prima media, ma lui era un po’ più giovane e non aveva la barba”.
Il terzo messaggio dice: “HA NOMINATO QUELLO DI GOMORRA… C’È ANCHE LUCIANINA?”.
Dico che non so, che non credo, e intanto penso che in classe, per quell’attitudine ad arrampicarsi su banchi e cattedre mentre leggo racconti e storie, miracolosamente senza distrarsi, “Lucianina” è il soprannome che ho dato proprio a Ili.
Il quarto messaggio dice “E QUELLO CHE SUONA?”.
Spiego di Cristiano De Andrè… Sì, proprio il figlio di quello lì, quello di cui Giua esegue benissimo le canzoni: presente quella in genovese? E IANDA E IANDA… Presente?
Il quinto messaggio dice “ECCOLO”.
Saviano. Comincia il suo monologo e ad ogni parola un po’ più complessa delle altre – lo scrittore dice “antonomasia”, dice “emblema” – temo che si possa sgretolare l’attenzione della giovane spettatrice, e che possa pensare “c’ho provato, ma non fa per me”.
È dura, è durissima. Si nominano mandamenti, ndrine e mammasantissime, e io in certi dettagli a scuola non sono mai sceso. Quando all’improvviso, un piccolo miracolo, sancito dal sesto messaggio: “ECCOLOOO!!!”.
È Antonio Albanese, anche se lei avrà pensato “Epifanio”. (Un buongiorno a voi, un buon giorno a me, t’e capì? Forse ma forse…)
Legge cose drammatiche e serissime, l’attore, ma la faccia è la sua, e giova, sicuramente giova.
Sul mio telefono arrivano altri messaggi, su quel palco arrivano altri ospiti.
Poi, a una certa ora, è normale che una ragazza di tredici anni vada a nanna.
La speranza è che non visitino il suo sonno picciotti e padrini, gente che spara e cattura. Ma non credo, forse è una sera in cui sentirsi più grande e più sicura.
Poi arrivano Bersani e Fini.
Leggono elenchi di valori.
Io rileggo un elenco di messaggi.
Valgono anche quelli.  

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Gente che conta

Oggi “Repubblica” ha fatto 30. Ha dedicato due pagine importanti, illustrate da un bellissimo disegno di Gipi, a quello che secondo me, e non si tratta di una convinzione odierna, è il più importante giornalista italiano. Non è Giorgio Bocca, non è Ezio Mauro, non è Gian Antonio Stella. Non è uno che frequenta la Tv, non incrocia la penna con Belpietro e Feltri. Non va nemmeno da Fazio a presentare il suo libro, e molto probabilmente non andrà ospite da Saviano (anche se sarebbe bello stupirsene). Lui si occupa di tenere il conto.

«Il ragazzo che conta i clandestini odia che lo si chiami ragazzo e non usa la parola clandestini. Gabriele Del Grande ha ventotto anni, ha trascorso buona parte degli ultimi quattro in Nordafrica. Ha raccolto le storie di chi è partito per mare alla volta dell’Italia, della Spagna o della Francia e non è più tornato e di chi è finito in centri di permanenza che sono galere, fra torture e violenze di ogni tipo.» […]

Conta, Del Grande. Conta e racconta. Anche “Repubblica” conta, nel senso che “è un giornale che conta”. Sarebbe importante che potesse contare, nella sua squadra, anche sulla firma di questo coraggioso giovane. Un contratto, un bel contratto di lavoro. E farebbe 31.

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Memorie dal sottosuolo

Quando la corda metallica smetterà di scendere e dovrà soltanto salire. Quando il motore che cala e richiama la capsula avrà soltanto un ultimo sforzo da compiere. Quando gli oggetti di quel bivacco di fortuna staranno per essere abbandonati per sempre. Coperte e bicchieri, le carte da gioco, le tessere del domino. Quando all’ultima madre in superficie rimarrà da pronunciare l’ultima preghiera, e al ministro l’ultima parola di circostanza. Prima di richiudere la grata cigolante dello sportello, ammaccato da più di trenta tuffi nel sottosuolo. In quel momento lì, a quasi un chilometro dalla vita, nel luogo dove non tornerà nessuno, senza nemmeno una luce da spegnere, una sedia da rimettere al suo posto. In quel momento lì, ne sono sicuro, quel cileno dirà qualcosa di bellissimo.

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I piccoli signori delle mosche e 2 sui quali le mosche si rifiuterebbero di planare

Mi ponevo astratte questioni di stile, mettendo l’ultimo lavoro di Gabriele Del Grande a confronto con il precedente lavoro di Gabriele Del Grande. Mi interrogavo su quale fosse la copertina più azzeccata, e su come fosse evoluta la scrittura del giovane e coraggioso giornalista. Mi sono subito chiesto cosa stessi facendo, però, sentendomi all’improvviso come uno che disperso nel deserto sta a disquisire sul colore dell’acqua di due pozzanghere. Invece di berle entrambe per intero, perché solo così si può sopravvivere.

Oggi che un ministro del governo del mio paese ha giustificato la routine degli spari sui clandestini, sottolineando che mai e poi mai i libici aprirebbero il fuoco sui pescatori italiani.
Oggi che un importante esponente della maggioranza ha dichiarato questo:

«Abbiamo un interlocutore che è Gheddafi, che presenta caratteristiche singolari, ma con il quale dobbiamo fare i conti. Può scaricarci migliaia e migliaia di immigrati sulle nostre coste».

Oggi che… “SCARICARCI”.
Come si dice (fa notare il blog METILPARABEN) dei rifiuti, dell’immondizia.

Del fango.
Della merda.
Oggi.

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Il piccolo signore delle mosche

C’è la foto del bambino con le mosche e c’è il bellissimo articolo di Adriano Sofri che mi ha afferrato per un orecchio come si fa con uno scolaro discolo, e mi ci ha ricondotto davanti per un’appendice di pensieri. Quelli pensati davanti al colonnino del giornale online, tra le rovesciate volanti dei campioni e le tette svolazzanti delle soubrette, non erano abbastanza.
Così, è venuto in mente anche a me come a Sofri l’aneddoto di Giotto, di Cimabue e della mosca dipinta più vera del vero. E anche il disegno sulla scatola dei pastelli intitolati al grande pittore.
Però mi sono ricordato soprattutto della storia di Kevin Carter, il fotografo premiato per la foto della bambina la cui morte per stenti era attesa da un paziente avvoltoio. Una tragica foto, tragica fino al punto di spingere al suicidio il suo autore, incapace di perdonarsi l’essere stato a sua volta avvoltoio paziente, con il suo zoom e il suo clic da premio Pulitzer.

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Figuraccia uruguagia

A Pechino ci sono 40°. Virgola sette. Quaranta uno li sopporta anche, è il virgola sette che spezza le reni. Cammino per strada aggrappato ad una coppetta gelato (mango e melone, n.d.r.) e vengo avvicinato da una giovane creatura dai biondi capelli. Prima che dal suo corpo vengo travolto dal suo accento americano, fatto di uanna e gonna. Un po’ capisco, un po’ mi perdo. La tipa parla troppo fast e poi devo gestire mango, melone e solleone, che sembra facile ma facile non è. Una cosa è evidente: questa mi sta riempiendo di complimenti. Si sta felicitando. Indossa un tailleur bianco, non sta sudando (!?!) e si rallegra con me, con me in quello stato (mango, melone ecc…). Un’altra cosa è evidente: questa pigliaperil. Sì, sì, dall’alto del suo essere una superpotenza planetaria, la biondina pigliaperil. Ricomincia: “Good luck!!! Good luck!!!” Così è troppo. Raccolgo il poco orgoglio non ancora disciolto, mi giro dall’altra parte e levo il disturbo. In direzione della direzione in cui non mi devo dirigere. Fa niente, quando ci vuole ci vuole. Faccio in tempo a vedere la faccia sorpresa e vagamente dispiaciuta. Addio, stronza di una yankee.
Giro l’angolo, faccio pochi passi. Mi specchio nella vetrina di una sorta di agenzia immobiliare. Vedo il sudore, vedo il mango, vedo il melone. Vedo soprattutto la maglietta che indosso: la bandiera bianco celeste sulla spalla, la grande scritta URUGUAY.

Uru

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