Le storie di Scuolamagia, Res cogitans, Stream of consciousness, Tutte queste cose passare

Apologia di Socrates

A dieci anni non aveva alcuna importanza il fatto che Socrates fosse comunista. Forse un po’ di più contava il fatto che avesse alle spalle studi da medico, tanto evidente era come i suoi compagni si fossero tenuti lontani pure da quelli da geometra e da ragioniere. Il centro di tutto erano i suoi colpi di tacco, liberi e irrazionali, a volte irragionevoli, per noi ragazzini delle giovanili che se soltanto ci provavamo, sul campo, venivamo sepolti di insulti da parte dei veterani della prima squadra, gente concreta, pochi fronzoli, “non fare Platini e passa il pallone prima che puoi”. Scoprire a un certo punto che si poteva “essere Socrates” fu una rivoluzione, nel cortile della scuola e nel campetto del pomeriggio. Non eri più lento e macchinoso, eri Socrates. Non eri egoista e poco incline al gioco corale, eri Socrates. Un nome di quelli da far risuonare nell’aria dentro le telecronache che si facevano e si fanno ancora da ragazzi. Racconti orali improvvisati e folli: una partita finiva 3 a 2 e potevano esserci stati anche 4 goal di Socrates, 2 per parte, e poi dicono che il calcio non affratella.

Standard
Res cogitans, Stream of consciousness, Tutte queste cose passare

“…e solo un grande dio può accudire i disperati…”

Dice bene, il giornalista amico di Lucio Magri: “non era depresso, era disperato”. I puntini sulle i, parole prive di incrostazioni. Pane per il pane, vino per il vino. Del termine “depresso” abusiamo un po’ tutti, riferendoci a noi stessi se qualcosa non va come dovrebbe o come vorremmo, o riferendoci agli altri prima di rinunciare a capire il senso della loro tristezza. La parola “disperato” ci fa forse più paura, preferiamo riferirla a delle astrazioni (un gesto…, un tentativo…) e rifuggiamo dall’appiopparla ad un essere umano in carne ed ossa, se non giocando apertamente ed ironicamente a spararla grossa, coi modi dell’iperbole.

È stato in qualche modo rassicurante scoprire una vicenda tanto tragica nello stesso giorno in cui ho letto di un pianeta battezzato Primolevi. Tuttoattaccato. Un pianetino lumaca, in grado di completare la sua orbita in cinque anni e mezzo.
Un pianetino disperato, per tutti i disperati.

(Il titolo del post è un verso di Ivano Fossati)

Standard
Res cogitans, Stream of consciousness, Tutte queste cose passare

La mia Vernazza

VER

Ho da sempre una speciale predilezione per i borghi abbarbicati. Mi affascina la follia di abitare i pendii, la roccia scoscesa che (stra)piomba sul mare. Mi piace immaginare la pazienza certosina di mani umane che scavano e si intrufolano quasi clandestine nella terra, rendendo ospitale l’inospitale. Muri messi “in bolla” da persone che del tutto “in bolla” non sono, altrimenti si sarebbero stanziate in qualche altrove più stabile e meglio piantato.
Quest’estate sono planato a piedi su Vernazza e come al solito ho decisamente snobbato il mare, rivolgendomi incantato verso la follia dell’intervento umano. Scale che si arrampicano, terrazze e terrazzamenti, abitazioni che si reggono una sull’altra, la galleria capace di scodellare magicamente dal nulla un regionale carico di anziani turisti anglosassoni.
Nell’era degli impazzimenti climatici, in fondo era folle e menagramo anche quel caldo di fine agosto, con il sentiero per Monterosso crepato dal sole. Ogni viandante stringeva in mano una bottiglia di acqua minerale, la fortuna dei piccoli negozietti della via centrale, l’unica del borgo.
Leggo da giorni dell’esodo della popolazione, della strada che non c’è più, che è andata perduta come una monetina finita nel mare. No, non è questione di sistemare, di aggiustare. Bisogna ricominciare ad immaginarla, una nuova strada per Vernazza. Leggo dei morti, dei dispersi: di chi è stato portato via dall’acqua mentre difendeva la serranda abbassata del suo negozio di souvenir. Mi torna in mente la fruttivendola che quest’estate difendeva tenace la buccia delle sue pesche dalle mani tastatrici dei turisti, che poi proseguivano senza comprare. Ignara che presto avrebbe perso tutto. Un puntino anche lei, sulla fragile scorza del mondo.

Standard
Res cogitans, Soletta, Stream of consciousness, Tutte queste cose passare

SIC transit gloria mundi

C_7_Media_44639_immagine_l

Le acute menti dei comici, dei satirici, degli autori di vigne, dei battutari semplici da bar si erano scatenate a dovere sul commento del Premier alle notizie provenienti da Sirte. Lui che pur disponendo di 11 donne pronte dietro la porta notoriamente bacia soltanto gli uomini (Gheddafi e, seppur al telefono, Lavitola…), era stato, se non proprio originale, insolitamente sobrio e quasi raffinato. Insomma, chi è sta Gloria Mundi? Ed ecco, dopo la Escort, un nuovo modello della Ford: il Transit.
Passano due lune ed ecco quelle parole latine tornare drammaticamente d’attualità. Senza Primiministri da prender per il culo, stavolta è soltanto una tragedia. Quella di un soprannome beffardo come la sorte.

 

Standard
Res cogitans, Soletta, Stream of consciousness, Tutte queste cose passare

Marina e i suoi fratelli


101221152619_big

Nonostante la convinta premessa, la giornalista di Radio Popolare Marina Petrillo non ci riesce a non essere sorella, sorella fino in fondo, dei folli manifestanti di Roma. Solo una sorella, infatti, può riuscire a dire parole così dirette e sagge, e accorate e convincenti. La copioincollo tutta, la lettera di Marina, che ha l’altro enorme pregio di guardare ai fatti di sabato scorso in riferimento alle altre piazze di questo caldo 2011, lo specchio in cui vedere riflessa la pochezza che siamo.

Potrei essere vostra madre, o vostra sorella – per fortuna non lo sono, perché immagino che per quanto amiate le vostre madri e sorelle, la loro saggezza vi appaia come un altro pezzo di quel presunto perbenismo che siete venuti a disfare con le vostre mani, con le vostre braccia giovani, con le vostre spranghe e i vostri bastoni. Ma non sono né vostra madre né vostra sorella, sono una giornalista, lavoro da tanti anni in una radio indipendente, e da poco meno di un anno faccio un lavoro che prima nemmeno esisteva, il curatore di social media, una persona che verifica e sceglie contenuti tratti dal lavoro collettivo della rete per produrre a sua volta contenuti informativi. Seguo da dieci mesi le rivolte arabe, e questo mi ha cambiato la vita. Non solo perché le rivolte l’hanno cambiata a tante persone, ma perché le migliaia di ragazze e ragazzi che stanno lottando per il futuro dei loro paesi mi hanno restituito la passione civile, mi hanno fatto sentire interrogata sui modi in cui facciamo politica, mi hanno strappato dal meccanismo di delega vuota degli ultimi quindici anni, e mi hanno fatto restare in un paese che prima volevo lasciare. Studiare l’attivismo in rete mi ha condotto alle stesse conclusioni di altre decine di curatori: non esiste bloggare o twittare da una posizione di neutralità; si può offrire alla rete la propria esperienza di verifica, di studio, di approfondimento, ma si diventa partecipi, e in qualche modo attivisti, senza quasi rendersene conto, senza averlo deciso. E un bel mattino si accetta che sia così. Perché, vi assicuro, non si può stare immersi nella lotta di piazza Tahrir senza sentirsi in qualche modo responsabilizzati, interrogati nel profondo, chiamati – non a riempirsi la bocca di slogan, ma a fare sul serio. E così come faccio dirette Twitter sul Cairo col cuore in gola perché ad ogni sit-in o corteo uno di quei ragazzi può lasciarci la pelle – come è successo a Mina Daniel, disarmato, durante il massacro dei copti il 9 ottobre – così ho twittato la Roma del #15O con crescente apprensione. Ho avuto paura che vi faceste accoppare da un poliziotto che perdeva la testa. Ho avuto paura che vi faceste pestare a sangue come chi è stato a Genova dieci anni fa ricorda bene e non dimenticherà mai. Ho avuto paura che saltaste in aria nell’esplosione di una di quelle auto che avete bruciato. Ho avuto paura che uno di quei blindati ubriachi vi investisse. Ho avuto paura che ammazzaste un poliziotto. Ho avuto paura che il vostro disprezzo evidente per la gran massa di gente perbene fra cui vi siete mimetizzati vi portasse a ferire, o a uccidere, o a far uccidere, una persona che un bastone o una spranga non li userebbe mai.
 Poi ho capito che voi non avete paura. Voi vi piacete così, vi sentite belli con la vostra ferocia, con la vostra rapida coreografia della morte, ho capito che corteggiate il pericolo, che non vi importa delle conseguenze, che pensate di non avere niente da perdere (e siete troppo giovani per capire che invece avete parecchio), e soprattutto ho capito che non state costruendo niente. Senza quella folla immensa in cui vi siete nascosti – lo sapete benissimo – non siete niente, nessuno vi guarda, nessuno si cura di voi, non contate un accidenti. È vero, siete bellissimi e subdoli e veloci come un branco di lupi che discende in pianura. I miei amici antagonisti vi ammirano, sono dalla vostra parte, riconoscono in voi una rabbia profonda che tutti proviamo. Salvo poi essere un filo confusi – infiltrati della polizia oppure intrepidi compagni?
 Devo scrivervi perché ho rispetto per chi muore per le cose in cui crede. Per chi non ha scelta. Per chi in piazza ci va studiando, facendo fatica, mediando con persone che la pensano diversamente. Per chi si stanca, e piange, per chi diventa eroe suo malgrado, e perde amici e fratelli, e pure non smette. Per chi da dieci mesi non dorme una notte intera, per chi si interessa della democrazia e si domanda come crearne una che funzioni e darle il proprio contributo. Per chi si fa un culo pazzesco nelle scuole, nella magistratura, nei sindacati clandestini, nei giornali censurati, nella tutela legale dei prigionieri politici, nel servizio d’ordine della piazza più rivoluzionaria del mondo. Per chi va in galera a vent’anni per aver scritto una cosa di troppo in un blog, o viene torturato per un graffito. Per chi rinunciando ad armarsi ha scelto la strada più lunga e produttiva. Per chi le botte e i gas lacrimogeni se li risparmierebbe se potesse, per chi i sassi li tira perché ha di fronte un apparato infernale e corrotto che da 40 anni lo schiaccia e lo tortura – e non per modo di dire. Per chi soltanto una settimana fa ha visto i soldati gettare nel Nilo cadaveri di cristiani disarmati. Voi siete solo imitatori, attori, pedine. Non avete rispetto per i vostri diritti, e ricoprite un ruolo ridicolo nella stessa recita che tanto detestate. È nato un movimento internazionale, se vi va di rendervene conto, che potrebbe perfino salvarci dal nostro provincialismo. Ha quattro regole in croce, e chiede di rispettare solo quelle. Ha scelto la resistenza passiva – la studia, la pratica, sa a cosa serve. Se volete, è anche casa vostra. Sta a voi. Dentro al movimento, con le vostre forti braccia e magari anche il cervello, potete sperare di contare qualcosa. Ma se non avete rispetto, se non vi fidate di nessuno, se siete cinici e nichilisti e avete già deciso che non cambierà mai niente, se pensate di essere un po’ più derubati degli altri, più precari degli altri, più disoccupati degli altri, allora andate a fare gli esclusi per scelta sugli spalti degli stadi, o a spaccare vetrine da soli finché non sarete cresciuti – con la vostra illusione di avere sempre ragione, di sfidare il sistema, o di distruggere i simboli della proprietà privata mentre è vostro padre che paga ancora le rate. Vi va bene che siete italiani. Vi va bene che qui c’è qualcuno a cui fa comodo che esistiate, che finge di non vedere i bastoni nascosti a San Giovanni dalla sera prima, che non vi ferma alla stazione Termini mentre passate col viso coperto e un metro di legno che vi spunta dagli zaini. Vi va bene che qui il rapporto di fiducia con la polizia è così corroso e malato che a via Merulana si è fatta un’assemblea tragica in mezzo ai lacrimogeni per decidere se consegnare o no 3 di voi agli agenti – perché la polizia è maiale se ti carica, o se carica quelli sbagliati, ma è anche vigliacca se non ti protegge dai provocatori. Vi va bene che siete nati in un paese così bizantino e pieno di segreti che le teorie del complotto sono sempre lecite. Vi va bene che siete in un paese vecchio, l’unico in cui il movimento che dichiara la fine di un sistema fallimentare scende in piazza ancora coi suoi stracci di bandiere, con le sue divisioni tribali, con i suoi rottami di sindacato, col suo ritardo spaventoso in un paese governato da un impunito. Vi va bene che siete in un paese ipocrita, teatrale, che sfila in tv ma poi alle assemblee di discussione non ci va, e che ha aspettato invano per anni che qualcuno lo chiamasse in piazza invece di andarci e basta. E vi va bene che siamo ancora così stupidi da organizzare cortei-fiume in mezzo ai palazzi più preziosi del mondo invece di occupare pacificamente una piazza – perché certo, poi ci toccherebbe anche metterla in sicurezza noi stessi, e tenerla pulita, e prendercene la responsabilità. Vi va bene che vi sia stato offerto di nuovo un palcoscenico – voi, e tre ore di caroselli anni ‘70 delle camionette in diretta tv. Col “sistema” sembrate d’accordo almeno su una cosa: sul fatto che è meglio non manifestare del tutto, che è meglio tenere la bocca chiusa e starsene a casa, cioè esattamente l’opposto di quello che reclama questo movimento – il diritto a riprendersi lo spazio pubblico, e a usarlo per il bene comune. Avrete pure vent’anni ma siete vecchi anche voi, non scandalizzate nessuno, e vi lasciate usare. Vi hanno fatto credere che la prima linea sia quella piazza da cui avete divelto i sanpietrini, e ci siete cascati. E invece, come vi dirà qualunque vero rivoluzionario, la prima linea è dentro, e si trova insieme, e costa tempo, pazienza, e fatica. 
Una cosa è sicura – questo movimento sarà anche ingenuo, ma tanto non sarete voi a cambiare il mondo. Avreste dovuto restare a bocca aperta, quando la basilica ha aperto i suoi giardini ai manifestanti soffocati dai lacrimogeni a San Giovanni. A bocca aperta per la bellezza straordinaria di quel luogo che appartiene all’umanità intera, e che è nostro privilegio conservare a prescindere dalla fede religiosa. E qualcuno avrebbe dovuto dirvi che a gennaio, per proteggere con una catena umana il Museo Egizio del Cairo, uomini e donne si sono presi per mano mentre dai tetti gli sparavano addosso i cecchini del loro stesso presidente. E che quegli uomini e quelle donne sanno che la non-violenza ha un prezzo salato, come 700 morti, che non si finisce mai di pagare. Ma ci ricordano che è uno strumento collettivo di straordinaria civiltà e potenza; ti permette di vincere battaglie decisive, ti migliora, ti moltiplica, ti eleva, ti fa contare sul serio, e ti conquista il rispetto del mondo.

Marina Petrillo

Standard
Res cogitans, Stream of consciousness, Tutte queste cose passare

Le cose di Amanda

Amanda-Knox

I singhiozzi di Amanda, soltanto ieri. I sorrisi di Amanda, oggi. Prima: gli occhi di Amanda. Gli sguardi di Amanda. Quello perso, quello fiero, quello freddo. Quello nel vuoto e quello malizioso: difficile da perdere come per ogni lupo il suo vizio. I vestiti di Amanda: tutti, dalla t-shirt con la scritta – all you need is love! – fino alla felpa col cappuccio nero. I capelli di Amanda. Lo stimolatore erotico di Amanda. C’è stato anche quello, un tempo, nella borsetta di Amanda. La chitarra di Amanda, per musica dietro le sbarre. Lo swatch di Amanda, sul banco dell’imputata Amanda, a scandire il tempo dell’attesa di Amanda. E il check in, oggi, per la valigia di Amanda. E i passi di Amanda, verso il volo di Amanda. La scaletta, oddio, dell’aereo di Amanda. Il portellone che si chiude, no!, dell’aereo di Amanda.

E noi, da domani, a che cosa giochiamo?  

Standard
Le storie di Scuolamagia, Res cogitans, Stream of consciousness, Tutte queste cose passare

Il Prof. Bagnasco e il piccolo Silvio

Io il Cardinal Bagnasco lo capisco.

E fin qui, sembra un rap di Caparezza.
Mi spiego. Un insegnante, capita spesso che sia quello di lettere, quando accoglie i genitori delle sue alunne e dei suoi alunni nel corso delle periodiche riunioni tra le mura della scuola, si vede talora costretto a svolgere delle complesse prolusioni sull’andamento generale della classe. È proprio allora che, in nome di indiscutibili e ragionevolissime istanze di difesa della privacy, deve sfoderare un campionario di frasi a dir poco fumose, ed è obbligato a dire la sostanza eterea del peccato senza poter citare la concretezza del peccatore. Sente di dover biasimare una precisa fascia di studenti all’interno della classe (a me è capitato di farlo riferendomi ad un gruppo di 4 elementi in tutto) per il loro comportamento poco collaborativo, si trova ad elogiare un novero di ragazzini che lavorano con costanza. Gli occhi dei genitori – spesso spaesati, si capisce – reagiscono di conseguenza. Non mi sento di escludere che il mio parlare cifrato possa aver dato origine tutta una serie di misunderstanding. “Il Prof. ha detto che qualcuno in classe si distrae sempre! E mentre lo diceva guardava dalla mia parte! Silvio, fila in camera tua senza cena!”.

Ho quindi deciso di portare fino in fondo questo blasfemo (ma per chi?) parallelo, immaginando di rivolgermi in questo modo alle famiglie dei miei alunni.

«Cari genitori, rattrista il deterioramento dei costumi dei vostri figli e del linguaggio da loro utilizzato. Mortifica soprattutto dover prendere atto di comportamenti, nel corso della ricreazione, non solo contrari al pubblico decoro ma intrinsecamente tristi e vacui.
I comportamenti licenziosi di alcuni alunni sono in se stessi negativi e producono un danno sociale per i compagni. Ammorbano l’aria e appesantiscono il cammino comune.
Da una situazione abnorme se ne generano altre, e l’equilibrio generale della classe ne risente in maniera progressiva».

Funziona, no?
Ribadisco, io il Cardinal Bagnasco lo capisco.
Aggiungo, però, che pronunciate certe parole io mi sento un ipocrita. E pure un po’ scemo.

Standard
Soletta, Stream of consciousness, Tutte queste cose passare

Timnit, la mia “Coppa Volpi”

terraferma-timnit-t_-foto-dal-film-08_mid

Il film di Crialese in concorso a Venezia – bello, bellissimo – contiene la storia di Timnit, migrante eritrea, e contiene Timnit stessa, attrice nella versione edulcorata del suo stesso dramma. Paradossalmente, nella realtà il viaggio della giovane donna è stato persino peggio di quello che si vede al cinema.
Il regista si è ricordato dell’articolo che meglio di tutti gli altri aveva reso pubblico quel viaggio travagliatissimo, e da lì è partita l’idea del coinvolgimento diretto di Timnit all’interno del cast, ma nessuno, almeno credo, nei giorni dell’uscita di Terraferma lo ha voluto rispolverare, quel racconto giornalistico. Gli articoli dei quotidiani a ventiquattro ore dalla loro uscita possono al massimo incartare il pesce, un pugno di caldarroste, oppure possono diventare il cappello di un muratore, anche se nessuno ha mai visto un muratore con “Repubblica” in testa. Non che mi senta di contraddirlo troppo spesso, questo luogo comune. Ma questa volta sì.
Io lo metto qui, l’articolo, e lo allego pure in un comodo formato pronto per la stampa. Da regalare a chi abbia visto il film di Crialese o intenda farlo.

Timnit

Standard
Le storie di Scuolamagia, Res cogitans, Soletta, Stream of consciousness, Tutte queste cose passare

Quello che è successo a Sant’Anna

mscalamandrei

Quand’ero bambino, i grandi, a volte, a cena sussurravano tra loro: “Quello che è successo a Sant’Anna di Stazzema”. Lo dicevano con la complicità dei grandi alla quale non sono ammessi i bambini: “Quello che è successo a Sant’Anna di Stazzema”.
Sant’Anna di Stazzema è un piccolo paese sulle pendici delle Apuane, a pochi chilometri dalla casa dove sono cresciuto. D’estate, se andavamo a Viareggio, si vedevano nelle belle giornate i paesini sui monti: fra i grappoli di case bianche c’era anche quel paese, con quello che era successo. A sinistra, un po’ più in su, c’è Sant’Anna di Stazzema, mi diceva mio padre, Ma cosa c’era successo? Lo chiesi ai grandi: i miei genitori, mio zio, mia zia.
E non mi rispondevano. Così un giorno lo chiesi al nonno, che aveva fatto la Prima Guerra Mondiale e che non aveva paura di dire quello che non si può dire. Erano già andati tutti a letto, e certe sere mi portava a letto lui. Eravamo vicini al fuoco e le faville salivano in alto. Il nonno muoveva i tizzoni e agitò la fiamma. È schifo, disse, schifo. E poi non disse più niente e mi accompagnò a letto.
Nella mia infanzia non ho mai avuto paura, la mia famiglia mi proteggeva. Ma quella sera ebbi paura, lo ricordo. Perché capii che c’era un indicibile. Qualcosa che andava oltre: oltre la decenza, oltre quello che siamo, o che crediamo di essere, da bambini o da grandi. E senza chiedermelo mi chiesi chi siamo noi, gli uomini. […]

(Antonio Tabucchi)

Standard
Cineserie, Imago, Res cogitans, Stream of consciousness, Tutte queste cose passare

Sbatti la pietà in prima pagina

pb-110725-train-da-03.photoblog900

A Pechino esistono ancora, mentre ormai per la strada un passante su due sta armeggiando con un iPhone, delle lunghe bacheche pubbliche su cui vengono affisse le pagine dei giornali. Attorno vi si radunano generalmente gli anziani, vecchietti con la canottiera bianca, signore con il ventaglio. I pochi giovani fanno capannello attorno alle pagine dello sport. Tutto il resto – per loro, si sa – è noia. Molti tra questi pechinesi probabilmente un quotidiano non possono nemmeno permetterselo, oppure pensano che sia meglio leggere il giornale di tutti, proprio perché non è di nessuno. Il loro gesto è decisamente quotidiano: stanno lì impettiti, le mani congiunte dietro la schiena, i lettori un po’ più orbi hanno il naso quasi appiccicato al vetro della bacheca. Si spostano da sinistra verso destra: le pagine non scorrono, loro sì.
Ieri pomeriggio, però, quegli occhi così golosi di notizie – sapessero, poi, quegli occhi, quante altre ce ne sarebbero, di notizie… – erano tutti fermi su di un unico foglio, un’unica prima pagina. E non leggevano, guardavano soltanto negli occhi la piccola Xiang Weiyi, superstite del terribile incidente ferroviario avvenuto nei giorni scorsi. Rimasta per 21 ore tra le lamiere contorte del treno vicino ai cadaveri dei suoi genitori.
Erano sguardi silenziosi e solidali, nonostante i quali tutto andrà avanti come prima, i treni cinesi rimarranno insicuri, le tratte ad alta velocità continueranno ad essere costruite male e in fretta. Ma quello di quei vecchietti era un sentimento autentico e prezioso. Nel giorno dell’editoriale del filosofo Vittorio Feltri sull’imperizia militare delle vittime di Utoya, qualunque cosa facesse la respirazione bocca a bocca alla pietà non poteva che darmi conforto.  

Standard
Le storie di Scuolamagia, Res cogitans, Soletta, Stream of consciousness, Tutte queste cose passare

Le rose che non colsi, stavo facendo una prova Invalsi (2)

Come potrebbe anche essere definito l’INVALSI?

A) Un ente inutile;
B) Un ente che ha sede in un’antica villa romana;
C) Un ente preposto alla valutazione oggettiva delle competenze degli studenti italiani;
D) Un ente pubblico i cui vertici vengono nominati dal Ministero dell’Istruzione Pubblica di concerto con Gigi Bisignani. 

Bravi. Avete ragione. Così non vale. Quando, dopo una domanda come quella che vi è stata rivolta, ci si imbatte in quelle letterine maiuscole, la risposta corretta dev’essere inequivocabilmente una e una sola. Nella fattispecie, invece, se si esclude la C palesemente falsa, le altre tre opzioni contengono tutte elementi di verità. E nulla importa che la risposta giusta secondo gli organizzatori del test – io – sia la lettera A. Voi, strenui sostenitori delle risposte B e D, non l’accettate proprio, la mia matita rossa che cerchia rabbiosa le vostre crocette scorrette. Prima di tutto perché non avete tirato ad indovinare e potete argomentare la vostra scelta: siete a conoscenza dell’esistenza e dell’utilizzo di Villa Falconieri e non avete motivo di pensare che esista una carica pubblica affidata senza lo zampino di Gigino il faccendiere. E poi – si può darvi torto? – una domanda che inizia con “come potrebbe…” presta di per sé il fianco al moltiplicarsi delle risposte. Sembra quasi invitare al gioco delle ipotesi, alla fioritura delle definizioni plurime di qualcosa di complesso.
Siete arrabbiati. La situazione vi sembrerebbe grave, ma non certo seria. Per dirla con Flaiano.
Ecco, era il 20 giugno 2011 e il solito mezzo milione di cittadini italiani è stato sottoposto alla Prova Nazionale predisposta dall’Invalsi. I plichi sono stati aperti, per passare i fascicoletti dalle mani di un insegnante a quelle di un altro insegnante sono serviti appositi verbali. Quel mezzo milione di adolescenti ha impugnato la penna ed ha apposto le sue crocette.
Con tutta la concentrazione possibile, chi facendo gli scongiuri, chi facendo ambarabaccicciccoccò. Qualcuno – i più svegli – storcendo il naso: ma che domanda è questa?

«Quale altro titolo si potrebbe dare al testo che hai letto?»

Quesito seguito da 4 alternative TUTTE plausibili. Certo, una un pochino più delle altre, ma non siamo già lontani anni luce da un criterio oggettivo di giudizio?

E questa?

«Come si potrebbe definire il rapporto tra i due ragazzi?»

Si potrebbe???
Se mi chiedessero quale potrebbe essere la capitale italiana e mi indicassero di scegliere tra Roma, Parigi e Berlino, potrei tranquillamente rispondere Berlino, se solo le vicende della seconda guerra mondiale fossero andate in un’altra maniera. Oppure Parigi, se soltanto l’età napoleonica avesse trovato la giusta continuità…

Mi sto arrampicando sugli specchi? Forse, torniamo allora al testo che avevano davanti i quattordicenni italiani.

Il rapporto tra i ragazzi del racconto doveva essere definito scegliendo tra COINVOLGENTE E DELICATO (A), LEGGERO E SUPERFICIALE (B), TESO E MOVIMENTATO (C), INCERTO E BURRASCOSO (D).
Come ha ben spiegato Leonardo sul suo blog, Mister Invalsi ha deciso per COINVOLGENTE E DELICATO, ma si sa, Mister Invalsi ha il cuore tenero e si commuove per un petalo di rosa portato dal vento. Trattasi tuttavia di un’infatuazione adolescenziale appena abbozzata, quella narrata da Vittorini,  che lo stesso protagonista del racconto sente appesa ad una bava di ragno. E allora perché non LEGGERO E SUPERFICIALE? Burrascoso magari no (ma cosa vuol dire poi, “burrascoso”, applicato ad un rapporto amoroso e non alla meteorologia marina?), ma sicuramente anche INCERTO. E anche TESO, porca vacca!
I candidati all’esame sono ormai in vacanza, gli insegnanti hanno già barrato i loro registri. I primi non sanno di aver subito una piccola truffa, hanno preso solo 6, solo 7, solo 8… in base alle “opinioni oggettive” di un ente pubblico. I secondi non sanno che il “mito” dell’oggettività, fatte salve quelle materie in cui è davvero un criterio applicabile, ucciderà la fantasia a colpi di test a risposta multipla. Farà a pezzi il senso critico, il senso estetico… sostanze impalpabili e immisurabili che smetteremo semplicemente di cercare. Ci metteremo una crocetta sopra.
Qualche vecchio prof.  – ma clandestinamente, dietro qualche angolo buio – consegnerà bigliettini ripiegati nelle mani degli studenti. Questi li apriranno poco convinti e leggeranno l’incerta calligrafia.

“Ma, alla fine, il racconto di Vittorini ti è piaciuto?”

Standard
Le storie di Scuolamagia, Res cogitans, Soletta, Stream of consciousness, Tutte queste cose passare

Notte prima degli esami

Era il 1994. Era appena morto Ayrton Senna e lo sapevo. C’era appena stato il genocidio in Ruanda e come tutti lo ignoravo. Stava per cominciare il mio esame di maturità. Mancava una manciata di ore. Avevo paurissima, il giorno dopo mi avrebbero messo sotto gli occhi una di quelle tracce lunghe e incomprensibili dove mi avrebbero chiesto di esprimermi come un esperto di geopolitica, oppure mi avrebbero invitato a discettare sulla poetica di un autore mai affrontato in classe, oppure… Insomma, i peggiori scenari davanti agli occhi, mentre la cena non era pronta e la sera era vagamente afosa. Tutto molto vago, nella mente, e ovviamente non ricordo nulla delle questioni geopolitiche trattate il giorno successivo sul foglio di protocollo. In qualche modo, i panni del direttore di “Limes” devo averli vestiti.

Due ricordi ci sono, però: disposti uno di fianco all’altro nella nebbia di quel tempo lontano 17 anni. Ordinati e rispolverati ogni giugno, il giorno prima dell’esame dei miei cuccioli.
Due cose accadute in un lampo. Una perché era un lampo. L’altra perché in classe eravamo una ventina e la Prof. mica poteva tenerci al telefono mezz’ora. Però chiamarci sì, tutti, e dirci di stare tranquilli, che in un modo o nell’altro eravamo pronti e ce l’avremmo fatta. Non sapevo neanche avesse il mio numero, la Prof.

E poi il lampo, un secondo prima del drin. Ché la Prof. chiamava sul fisso e non c’erano i cellulari e di conseguenza neanche le suonerie di malikayane.
Il lampo, dicevo. E quella faccia che avrebbe caricato di energia il mondo intero. Figurarsi un maturando del 1994. Che va a rispondere al telefono ed era la sua Prof.

E adesso faccio anch’io il mio dovere e chissà cosa stanno guardando alla Tv.

 

Standard
Le storie di Scuolamagia, Res cogitans, Soletta, Stream of consciousness, Tutte queste cose passare

Le rose che non colsi, stavo facendo una prova Invalsi

Prove oggettive. Crocette. O A, o B, o C, o D. Deciditi, la risposta corretta è soltanto una. Maggio 2011, tempo di Prove Invalsi. Gli studenti italiani sono sotto la lente di un microscopio. La scuola italiana li sta misurando. Tra qualche mese usciranno i risultati della faticosissima impresa, le classifiche saranno pronte, le regioni messe in colonna. Una avrà vinto, alcune andranno in Champions, molte vivacchieranno a centro classifica e ci saranno pure gli sconfitti, anche se non retrocederanno.
La meritocrazia è partita dal basso. Tra pochi anni il paese sarà gestito dai cittadini migliori secondo specchiate procedure di selezione. Ecco, questo è il motivo per cui le Prove Invalsi mi fanno ridere.

Adesso vi spiego perché mi fanno piangere.
Prendiamo una storia. Non è una storia qualsiasi, è una storia che è entrata di prepotenza nelle aule di tutti gli ordini di scuola. Enaiatollah Akbari ha raccontato a Fabio Geda la sua incredibile vicenda personale. Ne è nato un libro bello ed efficace, un passaggio da Fazio ha sparso la voce. Quella è una tragedia greca, ma anche turca e afghana, iraniana e italiana. Il mondo è stretto dentro tutto quel peregrinare tra un deserto e un mare, tra una città libera e una città assediata. Un prof. un’occasione così non se la può lasciar sfuggire e infatti Nel mare ci sono i coccodrilli è entrato in una marea di classi italiane di ogni ordine e grado. E piace, e interessa, e appassiona. È bello quando a scuola entrano le passioni. Però a scuola stanno entrando subdolamente anche le Prove Invalsi, che sono perfette per riconoscere gli Speedy Gonzalez della logica, gli alunni dal ragionamento rapido ed efficace, ma sono inevitabilmente nemiche di altre importantissime caratteristiche degli studenti. Che infatti non riescono a far emergere e di cui – semplicemente – fanno senza. Cosette da niente come la capacità di ragionamento, di astrazione, il senso estetico, il senso critico, la sensibilità umana. Immisurabili, per loro natura. Per nostra fortuna.
La scuola si sta invalsizzando, dicevo. Ho in mano un’antologia, nuova fiammante, pronta per essere adottata in una scuola secondaria di primo grado. Chi si vede a pagina 34? Enaiatollah Akbari, manco farlo apposta. Purtroppo è soltanto un piccolo frammento di quella storia, ma ai lettori male non può fare. A far male sono le domande poste in calce al testo. Made in Invalsi, neanche farlo apposta.
Oggi sono lungo, seguitemi in medias res.
Scrive Fabio Geda:

«Ecco. Anche se ti dice [tua madre, n.d.r.] cose come queste e poi, alzando lo sguardo in direzione della finestra, comincia a parlare di sogni senza smettere di solleticarti il collo, di sogni e di desideri – che un desiderio bisogna sempre averlo davanti agli occhi, come un asino una carota, e che è nel tentativo di soddisfare i nostri desideri che troviamo la forza di rialzarci, e che se un desiderio, qualunque sia, lo si tiene in alto, a una spanna dalla fronte, allora di vivere varrà sempre la pena – be’, anche se tua madre, mentre ti aiuta a dormire, dice tutte queste cose… ecc. ecc.».

Fino ad arrivare alla parola che è nell’aria da almeno 20 righe: addio. Una madre che ti dice addio, senza dirti davvero addio, mentre tu hai 10 anni e sei convinto che quella sia una sera come le altre.
Ma non divaghiamo e anzi, concentriamoci.
Ecco il quesito Invalsi.

La mamma, parlando, non smette di solleticare il collo di Enaiat. Perché lo fa?

A. Vuole far ridere Enaiat con il solletico.
B. Vuole farlo addormentare in fretta.
C. È un modo per accarezzarlo e dimostrargli affetto.
D. È un modo per dirgli addio.

Io mi arrendo subito. Per me son tutte vere. Oppure lo sono una alla volta. Oppure lo sono a coppie. Oppure nessuna. E soprattutto: perché bisogna sbilanciarsi? La prima sembra la più fragile, ma che male ci sarebbe se la madre si fosse limitata a provocare il piacere giocoso di un solletico? E se quella donna avesse voluto davvero che il bimbo si addormentasse (B) per interrompere lo strazio di quella sorta di congedo? E non è forse quella una dimostrazione d’affetto (C)? Qualcuno all’Invalsi è in grado di negarlo? E non fa parte, quel gesto, di un tragico e doloroso rito di addio (D)?

Sento puzza di polvere da sparo. Hanno sparato alla letteratura. E alla molteplicità delle opinioni. E alla dignità dei punti di vista. Una strage.

Resto lì, come l’asino di Buridano. Mi lascio morire, faccio obiezione di coscienza. Chiedo venga interpellata direttamente la madre del racconto, peraltro ancora viva in qualche remota provincia afghana, affinché riveli il vero significato del suo gesto. Fino ad allora nessuno osi procedere con le classifiche di merito da stilare.

Rido ancora, è un’altalena tragicomica.
Ripenso infine all’alunno che uscendo dall’aula, qualche anno fa, dopo una di quelle prove, dopo aver visto i compagni cimentarsi con calcoli e ipotesi di cui non era stato capace (brillava, eccome se brillava, quel ragazzo, ma di altre altrettanto importanti luci), mi guarda e mi dice sconsolato:

«Oggi ho capito di essere stupido».

Sa essere carogna forte, la meritocrazia.

Standard
Cineserie, Soletta, Stream of consciousness, Tutte queste cose passare

Il film che mi ha guardato

After

L’estate scorsa, a Pechino, uscivo dal grande compound che mi ospitava e la prima cosa che incrociavo con gli occhi, prima di immettermi nella strada brulicante, era un grande manifesto affisso vicino alla fermata degli autobus.
Era la pubblicità di una pellicola in uscita e il pensiero, ricordo, era quello di far diventare un pezzo su questo blog la strana sensazione che veniva a crearsi. Abituato come tutti a guardare i film, mi trovavo nella paradossale situazione di ESSERE GUARDATO DA UN FILM. Gli occhi di quella bambina sul manifesto, non c’erano dubbi, mi puntavano con intensità qualunque fosse la mia direzione, qualunque fosse il mio umore, avessi o non avessi fretta. Mi inchiodavano alle responsabilità di possibile fruitore di quel film, mi invitavano allo sforzo di non rendere vani la fatica di quel lavoro grafico, la perizia di quell’inquadratura, la potenza di quella storia.
Aftershock, del regista Feng Xiaogang racconta la tragedia di Tangshan, la città colpita da un terribile terremoto nel 1976. Alla fine ci sono proprio dovuto andare, a vederlo, in un multisala della capitale cinese. Ma ho preferito sempre pensare di essere stato io ad essere cercato da quel film e da quegli occhi. Prima di rientrare in Italia, ho scattato una foto a quel manifesto, rimasta stivata nel computer, e mi sono ripromesso di scrivere del film che mi aveva guardato, contraddicendo la banale logica che sottostà alla magia del cinema.

Oggi pomeriggio, a Udine, nell’ambito del Far East Film Festival, rivedrò la bimba di Aftershock. Stavolta sarò io a cercarla con gli occhi. Gran bella idea, proiettarlo un 6 maggio in Friuli, quel film. Nel giorno in cui apprendo dall’inno dei cosiddetti “Responsabili”, stampella del governo del mio paese, che “in questo mondo di ostinata follia” dobbiamo essere “pronti a difenderci da mondi lontani”, sono felice di ricordarmi del terremoto di quando avevo un anno attraverso un altro terremoto, lontanissimo e ignoto ai più.

Standard
Res cogitans, Stream of consciousness, Tutte queste cose passare

La notte (bianca) della Repubblica

CISL

«Musica elettronica ad altissimo livello in piazza Annigoni con Kurokawa. Le immagini di Firenze contro il resto del mondo campeggiano sulla basilica di Santo Spirito. Migliaia di persone girano per la città ancora. E abbiamo pure arrestato in flagrante uno spacciatore in via Tripoli. Prossimo appuntamento: cappuccino in palazzo vecchio alle cinque…»

Certo, non è un documento ufficiale, e non è nemmeno una nota rilasciata da un ufficio stampa. È solo uno status su un social network, ma tant’è. I cortocircuiti stridono ugualmente, come musica elettronica di basso livello. È il Primo Maggio e Firenze festeggia con le serrande alzate – sciopero permettendo – e il suo sindaco sceriffo in piena forma.
“Abbiamo arrestato”: complimenti. Noi? Tu e chi? Tu e l’assessore alla viabilità? Avete fatto anche la foto? Il passo è breve: bastava aggiungere “marocchino”, o “rumeno”, e potevamo essere a Treviso. Il passo è breve. Però siamo a Firenze, però quella è Firenze.
Arrestatelo, lo spacciatore. Gli spacciatori si arrestano anche il Primo Maggio, i lavoratori preposti lo sanno dal giorno in cui sono stati assunti a tempo indeterminato, e c’hanno fatto il callo.
E buon riposo a chi può, anche a Firenze. Riposassero anche i sindaci, se lo meriterebbero. Alcuni lavorano troppo, tra una delibera, un arresto in flagranza di reato e un cappuccino all’alba.

Standard
Le storie di Scuolamagia, Res cogitans, Soletta, Stream of consciousness, Tutte queste cose passare

Il marciapiede per Torino, sì lo so…

La sento più di sempre, questa Gita. C’è una classe speciale da accompagnare. Si aspettano tanto, e io ho promesso tantissimo. E c’è Torino e tutta la soggezione che mi mette.
Vi lascio le chiavi della Pozzanghera, come al solito. Fate i bravi, mi raccomando. Vi lascio anche una cosa bellissima da leggere, qui. Racconta di due colori, il blu e il nero, come davvero non li avete mai visti. E racconta di un uomo – come ne vedete ogni giorno, e chissà quanti ne vedremo noi a Torino. Delle storie come la sua sappiamo poco, quasi niente. Le storie come la sua, forse non le possiamo nemmeno capire.

Standard
Le storie di Scuolamagia, Res cogitans, Soletta, Stream of consciousness, Tutte queste cose passare

Il cuore di Diamanti

Quando ripeto ai cuccioli che le frasi devono essere brevi, brevissime. Fiammate. Che c’è tempo per imparare a scrivere i propri pensieri in maniera più complessa e arzigogolata: tutta una vita. Prima bisogna saper sciogliere le parole in un galoppo veloce che respiri spesso. Quando con la mano faccio calare una sorta di paratia stagna davanti ai loro occhi ed è soltanto uno dei tanti punti che dovrebbero infarcire i piccoli temi, i fragili riassunti, le brevi risposte. Ecco, ogni qual volta a scuola tento di insegnare (ma si può?) una buona scrittura, penso a Ilvo Diamanti e alle sue bussole, e alle sue mappe. A volte esagera. I suoi non sono periodi – sono spari. Però arrivano, però colpiscono. Però che ritmo.

Poi oggi incrocio questo pezzo. E non ci sono le solite statistiche, non ci sono le solite curve. Non c’è la società italiana con le sue tante fette. C’è un uomo che parla col cuore. Il suo, e non è una metafora.

L’ho sentito arrivare che stavo a casa mia, pronto a recarmi a un incontro, dove mi attendevano molte persone. A discutere di cambiamenti sociali, culturali, religiosi. Mi ha fermato un dolore muto. Più che un dolore, un senso di oppressione al di sotto della bocca dello stomaco. Tanto che ho pensato a un’indigestione  –  la sera prima, sul tardi, avevo mangiato la pizza con un amico. Non dovrei, perché la digerisco a fatica, ma mi piace. E a volte  –  poche – transigo. Sono rimasto lì ad ascoltare questo dolore muto, che non accennava a diluire, a perdere intensità, nonostante l’attesa. Nonostante qualche palliativo. Non l’avevo mai provato. Non richiamava il pericolo che tutti, alla mia età, temono. L’Incombente, che ti aspetta all’angolo della strada, in qualsiasi momento della tua vita. Ti aggredisce. All’improvviso. Non avevo dolori al torace, alle spalle. Solo questa pressione allo stomaco, che si allargava e si acuiva. Ma io sapevo, ne ero certo, che era lui. Stava arrivando. E non l’ho atteso.

Ho avvertito mia moglie: “Portami all’Ospedale subito. Sta arrivando”.
CONTINUA…

 

Standard
Res cogitans, Stream of consciousness, Tutte queste cose passare

Addentando una mela che sa di fuga

Salgo sul Frecciabianca delle 18.35 dopo aver preso al volo dall’edicola l’ultima copia di “Repubblica”. Salgo in carrozza e dopo pochi chilometri del quotidiano ne ho già abbastanza. Provo con Scalfari: 4 righe e scappo altrove. Mi informo sulla Libia e su Lampedusa, su quello sì, e chiudo con l’amaca di Michele Serra. La leggo come fosse un elzeviro del “Corriere”, però. Non è giornata, chiudo il giornale e mi abbandono alla musica nelle cuffiette. Il mio vicino, un africano sui 40 anni, mi chiede se può, e le sue dita lunghe e affusolate indicano il giornale di Ezio Mauro. Certo che può, ma mi stupisco. Perché l’italiano che ha usato con il controllore, poco dopo la partenza, era a dir poco approssimativo, e nelle due telefonate a cui ha risposto ha sfoderato prima un saldo francese e poi una lingua misteriosa che sapeva di baobab ed elefanti.
E allora ho potuto rileggere in qualche modo la copia del mio quotidiano. L’ho fatto guardando gli occhi di quell’uomo entrare nel senso di ogni pagina. Nelle foto, nelle carte geografiche, nei numeri. In quei linguaggi universali. Inutili gli editoriali, superflui i commenti e le didascalie. Con le dita magre d’ebano sembrava seguire i contorni dei visi: una donna, un’insorta libica. Sembrava assaggiare i sapori delle cose: nelle pagine culturali c’era una dotta riflessione sul carpaccio. Non il pittore, il modo di cucinare il manzo. E poi lo sport, con un derby da rivedere grazie ad alcune immagini e un risultato numerico bene in evidenza.
Ho letto un uomo che leggeva con occhi che io non ho più da una vita, se mai li ho avuti. Quell’immersione è durata un’ora. Lo stesso tempo per ogni pagina: tutto aveva la medesima importanza. Tutto da scoprire.
“I lavori che noi non vogliamo più fare”: spesso chi arriva da lontano trova questa destinazione. Sono molte altre, le cose che non vogliamo/sappiamo più fare. Come leggere un giornale. O come scappare. Correre, veloci. Via, in salvo. Con quelle facce. Scappare. Via. Altrove. Dovunque. Vicino, lontano, scappare. A piedi nudi, via! Con le scarpe firmate che fanno incazzare la Lega. Via dalla Lega, verso i paesi della Lega. In culo alla Lega. Scappare, foera de i ball. Con quelle facce lì, che noi non sappiamo fare più. E che al massimo scappiamo da un verboso editoriale sul giornale della domenica.   

Standard
Le storie di Scuolamagia, Res cogitans, Stream of consciousness, Tutte queste cose passare

Nei panni, almeno un po’…

859424

Siamo in sei. La 3ª C e il sottoscritto. L’incontro con l’esperto è finito e ci sono due ore da far passare prima che il pullman di linea ci riporti nel paese di Scuolamagia. Decido di condurre la mia truppetta lungo un percorso naturalistico arricchito da alcune istallazioni artistiche. Sono belle, anche se un po’ acciaccate dopo gli schiaffoni dell’inverno. Dal bosco ci accorgiamo che mancano un paio di chilometri al paese successivo, anch’esso sede di un analogo posto di fermata per la corriera delle 12.03. Non ha più senso tornare indietro, e continuando magari ci scappa pure un bignè offerto dal prof. nella pasticceria dovelifanbuoni.
Siamo costretti a ritrovare l’asfalto, e una carreggiata che si restringe. Zero marciapiedi e vetture che sfrecciano. Nasce naturale una fila indiana, che si allunga presto complice il sole che picchia durissimo. Ciondoliamo svogliati. I sorrisi scalano un paio di marce. Poi Cami ci gela tutti e ce ne restiamo zitti, fino alla pasta con le mandorle. (Ché i bignè eran finiti.)

«Siamo come quelli di Lampedusa…»

Standard
Soletta, Stream of consciousness, Tutte queste cose passare

Avvelenata lampedusana

Qualcuno gli dice “vai” e Giacomo entra nel video. Si siede su una sedia da giardino, sopra una terra brulla e ventosa. Terra d’isola e vento di mare. Poi Giacomo imbraccia la chitarra e canta la sua rabbia. Un’avvelenata lampedusana. Che dice tutto quello che c’è da dire. In Tv l’altra sera Vittorio Feltri li ha chiamati per 3 volte LAMPEDUSIANI. Magari aveva ragione lui e si può dire anche così, non ho voglia di perdermi tra le accezioni dei dizionari. Preferisco leggere quel suono come il nome di un popolo alieno. Un popolo che assieme a suo fratello, il popolo tunisino, sta vedendo su quell’isola cose che noi umani…

Standard