Soletta, Stream of consciousness

Dolce e basta

A volte potrai avermi con un fiore, 

a volte un fiore non ti basterà. 

A volte penserai di avermi chiuso in una stanza. 

Dammi le tue chiavi, dolce, 

voglio farne una copia, 

voglio scrivere una lunga poesia per le tue braccia.

 

(Stamattina sono prigioniero di questa canzone. Prigioniero sì, ma con la Sindrome di Stoccolma. Non ho voglia di pigiare tastini e cerco il testo nella grande rete. Un sito mi fa credere che sia possibile scaricare la suoneria di Giorno di pioggia di De Gregori per il mio telefonino. E Word, stronzo, intanto scrive gregari e al posto di gregori e i gregari sono una gran cosa, specie se in bicicletta, ma caro il mio programma di videoscrittura: sai così tante cose, e un po’ di cultura musicale?

Così canto, e tra un po’ in macchina ancora di più. Dico “sulle tue braccia”, però.

Alcune di quelle pagine con nomi tipo tuttotesti testimania lyricsmania riportano “dolci” al posto di “dolce”. Sarà colpa di Word, oppure è davvero così impensabile chiamare una persona, semplicemente: “dolce”. Aggettivo purissimo, serve altro?)

 

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Le storie di Scuolamagia, Soletta

Perdere il nome delle cose

Nella pluriclasse 1ª – 2ª ci stiamo ancora studiando. Oh, sia chiaro, niente PROVE D’INGRESSO. L’unica volta che ho consegnato una di quelle fotocopie da crocettare l’ho raccolta prima del tempo chiedendo ad ogni alunno, antonioalbanesemente, “scusa, veramente scusa”. No, parlo di quel guardarsi occhi negli occhi, quel reciproco capire fino a dove ci si potrà spingere. Tra un po’ i nuovi arrivati si affezioneranno e paradossalmente prenderanno a darmi del lei. Per ora, come con la maestra, è tutto un dimmi-dammi-sai? Oggi alla quarta ora si trattava di leggere. Per me si trattava in realtà anche di capire a che punto stiamo con la tecnica, per loro di rompere il ghiaccio, con l’indice puntato sulla riga e la paura piccola di impappinarsi.

Mi sono detto: è la prima volta, perché rischiare che si stabilisca subito quell’odiosa gerarchia che separa i lettori rilassati affidabili sicuri di sé scorrevolissimi dai tentennanti tremolanti sbavanti strafalcionanti? No, oggi si sbaglia tutti. Mi sono ricordato quindi di un raccontino di Stefano Benni che è un vero e proprio campo minato. Io sono riuscito a fare i miei rilievi da insegnante, ho letto e sbagliato divinamente; loro hanno regalato all’eco della stanza risate squillanti, guance rosse e occhi che così un adulto se li è scordati da un pezzo.

 

Ci provi anche tu, lettore? Ad alta voce. Se arrivi in fondo senza un errore scrivi un commento e complimenti. (Però purtroppo non avrai riso…)

 

C’era un oshammi shammi che viveva in una wesesheshammi in cima a un wooba.
Venne una notte un oogoro e disse all’oshammi shammi:

– Shimì non voglio né la tua corona né il tuo bastone, voglio la tua shammizé.
– De shimite deé – rise l’oshammi shammi – cerca pure. Se vedi qua nella weseshe la mia shammizé, prendila pure.
L’oogoro frugò in lungo e in largo tutta la wesesheshammi e alla fine vide una woolanda e trionfante gridò: – Shimì, eccola qui l’ho trovata.
– Sei furbo come il tsezehé dalle lunghe orecchie – disse l’oshammi shammi – l’hai trovata ed è tua.
L’oogoro corse giù dalla wooba cantando e ridendo: – Ho una shammizé! Per tutta la vita shimideé, avrò una shammizé!
Sulla strada incontrò un vecchio woorogoro. – Shimì woro ti piace? – disse l’oogoro – guarda ti piace la mia shimmizé?
– Woof – disse l’orogoro – stupido come uno tsezehé! Non vedi che quella che tieni tra le braccia è una woolanda?
Alla luce della luna l’oogoro guardò bene, vide il suo errore e se ne andò tzuke shimite no shimé, triste come chi ha perso il nome delle cose.

 

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Res cogitans

La vertigine non è paura di cadere…

Maurizio Crosetti racconta su “Repubblica” il Mondiale di ciclismo e mi ricorda quel nesso sottile tra i pedali e la sofferenza, ché le volte in cui la gamba girava meglio erano sempre quelle che il cuore stava lì fermo e ingolfato, e nella testa si disputava una folle volata di pensieri.

                               

«Questo è un uomo che corre, e vince, col dolore dentro. Perché Paolo Bettini riesce sempre a trasformare la sofferenza in trionfo, quella sofferenza che è il suo vero doping. L’anno scorso, dopo il mondiale e la morte del fratello, volò al Giro di Lombardia come ossessionato da una vertigine di distruzione: strisciava i muri della discesa e sembrava un pazzo suicida, invece quell’accarezzare la fine era un modo per annullarla, disperatamente».

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