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2 agosto 1980

Cielopaz

Fuori è spuntato un cielo con certe nuvole da Andreapazienza, stasera, e sul mio piccolo terrazzo riscopro incredulo la sensazione bella di avere freddo. Negli ultimi trenta minuti non ho fatto che guardare questo video strillato a gran voce dal sito di “Repubblica”. Per volare indietro di 27 anni, quando l’Italia era un Iraq senza attenuanti generiche. Penso ad un Liceo che a 18 anni ha creduto opportuno non raccontarmi un fatto come quello (e così molti altri), incaponendosi sull’epopea di certe avventure risorgimentali, tergiversando su certi decreti della destra storica. La Storia segue un filo, certo, e il salto in lungo nella cronologia non si può fare, siamo d’accordo. Ma ammettiamolo che c’è una forte componente di cagarsi sotto, di è troppo presto, quelle cose sono ancora troppo calde. Io a scuola la strage di Bologna la racconto partendo da una canzone. No, non di Claudio Lolli, santopatrono della Pozzanghera. Io gli canto Cremonini, ai cuccioli: “Padre, mille anni, e quante bombe sono esplose nei tuoi ricordi!”. Se interessa? Sicuro che interessa. Come sarebbe interessato a me, conoscere quei fatti. E invece ho dovuto arrangiarmi, e ho avuto la fortuna di poterlo fare. Torno al mio cielo. Per ritagliarne un pezzetto e spedirlo come fosse una cartolina e un piccolo regalo.

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L’armadio

Sono figlio di una camicia a quadretti sopra un paio di jeans consumati, con le tasche piene di chiodi.

Sono figlio di un grembiule da casalinga, fratello di un k-way in gore-tex riavvolto per entrare nel marsupio di una bicicletta da corsa.

Un giorno una maglia di lana con disegnato un paesaggio che ricordava Murnau mitt kirche di Kandinsky mi ha abbracciato forte dicendomi che sapevo ascoltare le persone. E soprattutto che non guardavo mai l’orologio mentre stavo accogliendo parole. Ancora oggi, la postina scorbutica che fa partire i miei pacchi e le mie buste ne indossa una molto simile, direi identica, fatta salva la disposizione dei colori, e ogni volta è un piccolo brivido.

Sono stato l’allievo di una camicetta di cui una mano sottile tormentava sempre l’ultimo bottone. Quella camicetta mi prestava tragedie greche dicendomi che sapevo capire l’animo umano, quella camicetta – anche lei – ha fatto sì che scegliessi il suo stesso mestiere e mi ha insegnato l’infatuazione per le cose belle.

Sono stato discepolo di un paio di leggerissimi pantaloni ciclamino decorati a pesci, sui quali poggiava il legno di una chitarra acustica.

Sono il Prof. di una quarantina di giacche a vento rosse, bandiere di una gloriosa società sportiva. Ognuna porta cucito all’interno un nome singolare, ma io le so riconoscere anche da fuori.

Dalla tasca di una tuta rossa una volta è caduto un foglietto dove avevo scritto 8 parole. Quella tuta ha percorso e ripercorso la sua strada per ore fino a ritrovarle intatte, sane e salve. Tutte 8.

Una camicia da boy scout mi ha insegnato che se possiedo una cosa e siamo in tre, in tre quella cosa dovrà essere divisa.

 

Molti di questi abiti ho perduto.

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Le storie di Scuolamagia, Soletta

Incontro

Succede che consegnata e discussa la tesi di laurea sui cantieri della Tav, la protagonista del libro del post precedente, a pag. 142, apra una specie di parentesi. Troppo bella e toccante per non regalarvela qui.

 

«Tempo fa sono passata davanti al tuo portone. Ho guardato l’incisione del tuo cognome sull’ottone del campanello. Ho alzato gli occhi e ho visto che ci sono due finestre  con le bandiere della pace. Una sarà tua?

E guarda caso ti vedo nel piccolo giardino qui di fronte. La mia pausa pranzo. Ti siedi vicino a me sulla panchina, al fresco. Pacato. Come se ci fossimo visti ieri.

Cerco di nascondere l’emozione. Ma lo sai che, con piccoli gesti del collo e delle dita, tiro la tenda dei capelli sul viso, come quando rischiavo di essere interrogata.

La tua casa è nella stessa via dove lavoro. Lavoro… si fa per dire… non è quel tipo di lavoro che immagini. Di cosa mi occupo? Progetti vari, ricerca sociale… Oh, faccio di tutto, dalla segreteria, a prendere contatti, organizzare convegni, scrivere rapporti, cercare dati, a fare interviste, la mia specialità, direi. È una cosa un po’ noiosa da spiegare e tu lo capisci. Ti bastano poche parole per capire. Non quelle ingarbugliate che uso per spiegare a tutti… Mi vedi bene? Mah, sarà… sai, in quest’ultimo anno me ne sono successe di cotte e di crude. Dici che sono forte? Ah, per via delle spalle che mi ritrovo? Sempre a prendermi in giro… Ho ricercato il tuo numero di telefono sull’elenco. C’è sempre il tuo nome. E pure la professione: prof. Il mio prof. quello che si sistemava sempre il ciuffo dei capelli. Sì, potevo chiamare… provare… ma sai, poi che avrei detto?

Le medie: italiano, storia, geografia, educazione civica. Anche educazione sessuale, ricordi? A tutti chiedevi le nostre paure. Io ti dissi che avevo terrore di partorire e tu commentasti: “Be’, sei già alla fine, tutta la parte precedente non ti spaventa?”. No, prof. non ho avuto veramente paura di amare.

Dai, mi fai arrossire! Sono rimasta con quella paura. Quella finale. Eh, no. Non ho ancora figli. Ti stupisce? Be’, però ho continuato a studiare. Hai sempre detto che ero una delle poche che aveva le idee chiare. Non lo so. Però mi sono laureata. Sai che gli schemi logici per studiare che ci insegnasti, quelli con poche parole e qualche freccia, tutti me li invidiavano all’università? Tutti a dire degli schemi della Simo… non sai quante volte ti ho rammentato. Vuoi la tesi? Sì, te la porto uno di questi giorni. C’è anche una dedica. A chi l’ho dedicata? A te che mi hai insegnato il dubbio e ai miei genitori che mi hanno sostenuto e incoraggiato nel pormelo.

Oh, sì che te la meriti.

[…]

Oh, sì che ce l’ho ancora il pallino per Istanbul, la vecchia Costantinopoli, quel punto tra Occidente e Oriente… ricorderò sempre la lezione dopo la caduta del muro… e avrei voluto una tua lezione anche il giorno dopo l’11 settembre, ma che dico? Ogni giorno vorrei chiederti che pensi di tutto ciò che accade. Tra le righe del quotidiano, leggere anche un tuo commento. La gita a Baratti te la ricordi? Quando in pullman cantavi… sì, un po’ mi vergogno a dirtelo, ma ho la tua foto sul comodino di quel giorno. Ridevi. Quel tuo maglione verde. I jeans chiari. Non ho mai tenuto la foto di un ragazzo in camera mia, ma c’è la tua. Ti imbarazza?

E il mio primo tema te lo ricordi? Quanto ci rimasi male. Presi quasi sufficiente. Ma che vuol dire? O è sufficiente o non lo è. O uno annega o uno sta a galla. Tema di attualità sulla violenza negli stadi. E io descrissi cose che non avevo mai visto con toni romanzeschi, fin troppo caricati di fantasia. Tutto sbagliato. Non si affronta così un tema. Sì, lo capivo il messaggio. Da lì mi hai fatto innamorare dei temi. Ho fatto scienze politiche, sociologia, per trattare, studiare, fare ricerche su temi… e poi la scrittura. Sì, scrivo. Così, per allenarmi le mani e ripulire la testa. Lo sai? E chi te lo ha detto? Ah, vuoi dire che te lo immaginavi… Il racconto? Ah… Finestrella viola… sì che te lo avrei fatto leggere. E te lo dico ora a distanza di così tanto tempo, sì, perché ti ricordi quel biglietto che mi mandasti quando facevo le scuole superiori? Quello in cui mi dicevi che pensavi a me davanti a una pizza con altri colleghi… No, non l’ho buttato. Ma per chi mi prendi? Certo che l’ho apprezzato… Fammi parlare…

Io ti avevo risposto. Avevo anche imbustato la lettera.

Ma poi si è perso il tempo. Si è fermato.

Sai come succede? Si è posato un punto e io non potevo tornare indietro. Mi rimproveri. Lo so. Una risposta te l’aspettavi. Ma arrivò quella telefonata, e io mi chiusi in camera per due giorni… perché il dolore ha bisogno di spazi piccoli, alle volte.

E allora ti confido anche questa. Ricordi quando organizzavo la mia festa di compleanno? Tu lo sentisti mentre lo dicevo agli amici intimi e in mia vece invitasti tutta la classe. Quanto ti odiai. E adesso come faccio a dirlo alla mia mamma? Dove li mettiamo tutti? Ma ormai il danno era stato fatto. Mi avevi incastrato. Mi rimboccai le maniche e facemmo la festa nel garage della nonna. Sorridi, eh? Vecchia volpe. Ci volevi uniti, lo so. Quando facesti il regalo di compleanno a quella bambina che se ne stava sempre in disparte, che veniva presa in giro perché tutti sostenevano che suo padre portava sfiga, quando ci prendevi in giro per le nostre storie d’amore, quando ci chiamavi per soprannome, quando sottolineavi le nostre forze e le nostre debolezze, quando ci portavi in sala video a farci vedere film bellissimi.

Dovevi vederci, tutti insieme per la gita insolita. Una mattina di inverno. Ci eri riuscito di nuovo a farci ritrovare. Perché non potevamo non salutarti.

Sono passati più di dieci anni da quel giorno.

Caspita, sei sempre lo stesso, non sei invecchiato. Io sono cresciuta? Eh, sì. Ricordi alle medie ero piccola. La Fissi mi oltrepassava di tanto così e adesso guarda come sono alta! Ah, ti saluta anche lei, sennò se la prende a male.

Lancio le ultime briciole del panino ai piccioni. Dai viali rumorose macchine continuano a girare come in una pista telecomandata.

Guardo il portone chiuso di casa tua. Devo tornare al lavoro. Ma non avrei mai perso questa occasione per parlare con te. Visto che ne ho perse tante. Una e quindi tutte quelle che avevo.

No, un fiore non te lo porto. Ci sono venuta una volta dove riposi. C’è anche mio nonno Gino vicino a te. Semmai ritroviamoci qui, da queste parti. Ci prendiamo un caffè e facciamo due chiacchiere.

Un uomo anziano poco distante da me lancia un grumo di saliva sull’asfalto.

La vita, la storia di un uomo è uno sputo rispetto a quella dell’umanità.

Dicevi sempre.

Te ne vai di nuovo.

Che ti voglio bene neanche questo giro ce l’ho fatta a dirtelo.»

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Figlia di una vestaglia

Sto divorando il libro in cui Simona Baldanzi identifica la madre operaia con l’oggetto simbolo della sua vita quotidiana in fabbrica. Figlia di una vestaglia blu, si dichiara l’autrice, prima di raccontare con una sincerità disarmante la complessità dei destini più semplici.

 

«Io diciamo che il babbo ci credevo che era il mio. Ma sulla mamma nutrivo dei dubbi. Sempre per quella storia che fisicamente ci somigliamo tantissimo, ma caratterialmente zero. E poi talvolta era così distante, così perennemente incazzata col mondo intero che mi chiedevo se si ricordava di avere una figlia e un figlio.

Mi sedevo sul pratino di fronte casa mia quando era pieno di margherite. Avessi avuto il tuo velo da sposa, lo avrei attaccato ai miei capelli, ma quello lo hai già usato come zanzariera per la mia culla. E allora mi facevo delle corone strapiene di fiorellini e con il potere magico simboleggiato da ciò che mi circondava la fronte afferravo una margheritina strapiena di petali e la interrogavo. Mamma o non mamma?»

 

Adesso mi do un compito per casa. La mamma di Simona è una vestaglia blu. Ci sono persone anche nella mia vita che, grazie alla magia di una sinèddoche, possono essere raccontate come fossero un vestito? Il loro vestito?

Domani la risposta.  

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Questi posti davanti al mare

Mi è capitato alfine di arrivare a Portopalo di Capo Passero, in un giorno di sole agghiacciante, a bordo di una noleggiata Grandepunto. Ho visto quello che volevo vedere, quello che stavo cercando. Il mio Sud, la latitudine più prossima all’equatore in cui abbia mai messo piede. Il luogo in cui sono più evidenti la sconfitta del mio paese e la sua flemma incurabile, il suo cristianesimo di superficie ed il suo vizio di civiltà. Mi aspettavo il villaggio fantasma, popolato soltanto in certe albe da pescatori.

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Mi sbagliavo: le strade sono un mercatino vivace, sono voci che si incontrano. E poi c’è  il mare con la sua beneaugurante madonnina, con le spalle rigorosamente voltate ai bisognosi e il viso rivolto dolcemente verso chi non ha derive e già possiede approdi. So di non avere lo sguardo lucido, nel considerare le tragedie dei migranti che si consumano in quel mare, ma se fossi un candidato alle primarie del Pd comincerei la mia strada da lì, da Portopalo, e metterei nel mio pantheon la vita spezzata di Anpalagan Ganeshu, mio fratello che guardava il mondo e il mondo non somigliava a lui.

Prima di riprendere la mia strada, ho scritto le cartoline ai miei alunni. Quelli del ‘90, quelli che quel mare l’hanno costruito intrecciando sacchi neri dell’immondizia e l’hanno animato sul palcoscenico di un teatro. Grandissimo mare, frusciava e faceva vento sulle prime file e nel cuore di tutti gli spettatori.

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La mia Cina

Partire sì, ma da dove? Dal mio volo a planare, il primo di tutta una vita. Sotto di me: metropoli a perdita d’occhio. Quartieri a prima vista ordinati: il gruppo dei palazzoni gialli, le mille casettine grigie come un alveare, un fiume, una ragnatela di strade. Ma anche campi e un verde cupo. Mentre le mie ali si stanno immergendo in una foschia densissima, gusto la sorpresa di non temere il volo, né gli atterraggi né i decolli. Sarà merito dei piloti austriaci, maschere di flemma ed efficienza, sarà che i timori sono altri, in primo luogo la burocrazia dell’arrivo. I passaggi da compiere nella città aeroporto, la rincorsa degli sconosciuti compagni di viaggio che incedono con sicurezza, poi immancabilmente persi uno ad uno. Dov’è finita la rossa con la valigia rossa? E quello col pancione? Merda, tocca affidarsi ai cartelli. Non mi stupisce – seconda sorpresa – la marea di occhi a mandorla posti sopra bocche da cui escono parole come musiche, mi sconvolge invece la scoperta dell’esistenza di scale mobili orizzontali che non salgono e non scendono, vanno e trasportano carichi umani lungo corridoi infiniti. Ma i miei piedi sono più veloci e ansiosi, stare fermo davvero non so. Recuperata la valigia e mostrato il passaporto a un buon numero di doganieri accigliati (e sudati), esco dalla città aeroportuale, varco la soglia dell’aria condizionata e mi immergo in…, nel…, nella… Insomma, mi dico, taci e nuota.

 

Quello che vedo non appena il taxi lascia la banchina davanti al Beijing International Airport non ha nessuna forma. È pura vita che scorre, un fiume di corpi, una giostra impazzita di mezzi meccanici, un flusso atomico costante senza speranza di clinamen. Vabbé, c’è un grande e incasinatissimo traffico. Diventerà un rumore di fondo, un ambiente abitudine, diventerà mio.

Quello dell’umano formicaio è il più classico dei luoghi comuni sulla Cina. Sento di fare mie e di riferire a Pechino, invece, le parole che Lisa Ginzburg, nel suo saggio sulla malìa brasiliana (Malìa Bahia, La Terza) che mi accompagna mentre scrivo, riserva e regala al paesaggio di Salvador de Bahia: “nonostante i molti luoghi affollatissimi, si ha sempre la percezione di avere intorno molto spazio. Spazio per la mente, per il corpo; per il cuore, per la maturazione delle cose. Spazio per il tempo”.

Da dove cominciare la mia esplorazione metropolitana? La guida in inglese che sfoglio è fin troppo generosa nel regalare luoghi e dettagli. Palese è l’imbarazzo di una scelta che non so fare, ne esco con una decisione che spiazza prima di tutto me stesso: lo zoo. Lo zoo di Pechino. Pronuncio, e mi vergogno all’istante, l’osceno calambour: Noi, i ragazzi dello zoo di Pechino.

Una costante di questo mio viaggio è l’assenza nel mio bagaglio di esperienze precedenti analoghe, utili a stabilire confronti e relazioni e misurazioni. Quello di Pechino, insomma, è il mio primo zoo e ci entro come un bambino goloso di esotiche stranezze. Osservo compiaciute evoluzioni scimmiesche, balneazioni ippopotamesche, l’agonia di animali malcustoditi (ma possono esserlo, in uno zoo, bencustoditi?). Leggo negli occhi tristi di un orso in un fossato, vedo la rabbia ruggente di un leone. La gigantesca tigre ruota su se stessa in una stanza minuscola, il folle e inarrestabile girare non ha sfondo se non nel cemento grondante di piscio. Le star della struttura, inevitabilmente, sono i panda. Per l’animale orgoglio della nazione c’è uno zoo dentro lo zoo, la Casa dei Panda, con apposito ulteriore biglietto d’ingresso e tonnellate di merchandising. Per somigliare ai dolci protagonisti del logo del WWF i panda pechinesi andrebbero lavati (sbiancati) e stirati. E dovrebbero smettere di leccarsi il culo.

Un’immagine su tutte, tra un facocero e una scolopendra: l’immagine di un umano. Una bimba adagiata su una panchina, immersa in un sonno profondissimo, immobile simbolo di una flemma che noterò spesso nei giorni successivi, quella sinica capacità di adattarsi – al momento di scivolare tra le braccia di Morfeo – a qualsiasi suolo e a qualsiasi suono. BimbapancaxChi accudiva il “cadaverino”, intanto, mangiava e chiacchierava nemmeno troppo vicino. Chissà quali sogni, probabilmente quelli di tutti i bimbi del mondo al cospetto del mondo animale: cavalcate di leone o bagnetti sotto la proboscide dell’elefante.

 

Spostarsi, muoversi, attraversare. Il mezzo preferito è il taxi. A Pechino un’auto su dieci è una Hyundai Elantra. ElantraUna berlinetta di poche pretese, ma piuttosto silenziosa e di norma dotata di aria condizionata. I taxisti hanno facce stanche e camicie sudate, decisamente seriosi ti guardano anche dal tesserino appeso al vetro, che li abilita al faticosissimo servizio. Fa caldo e molti hanno stipato da qualche parte il termos con il te. Le Elantra sono gialle e marrone, gialle e verde, gialle e blu. Basta alzare un dito e loro arrivano.

Della metropolitana ricordo le scalinate e le persone sedute su pavimenti indecenti. Ricordo il mocio più grande del mondo, consunto e inutile alla sua causa, una specie di piovra gigante. (Ogni luogo ha il suo mocio, in Cina: mocio da ufficio, mocio sull’autobus… Utilizzarli, poi, quello è un altro discorso…) Ricordo la ressa all’arrivo dei vagoni, il poliziotto chiamato a regolare bruscamente le salite e le discese. Ricordo le gigantografie sulle pareti, immagini d’occidente per chi sogna Beckham o stravede per Cristiano Ronaldo. Ricordo l’uomo che sale sul treno per esibire la mostruosità del suo corpo mutilato, bruciato in chissà quale tragedia industriale, sciolto da chissà quale acido. Non chiede nulla e canta (sì, canta) con un piccolo microfono la sua sete di giustizia. Ricordo la netta percezione di una società più giovane rispetto a quella dalla quale provengo. Mi rendo conto che i ritmi dell’underground probabilmente non si sposano con la terza età, ma davvero pochi passeggeri sono più vecchi di me.

Salire su un autobus (che spesso – contrariamente al taxi – è guidato da una donna) è come salire su un vascello pirata. Ti accoglie l’urlo dei bigliettai: “uomini della filibusta!!!”. Molti mezzi pubblici sono decisamente moderni e funzionali, la conservazione di 2 “vedette” abbarbicate ai sostegni metallici, con borsa a tracolla piena di spiccioli, corrisponde a politiche occupazionali che nella mia ottica di europeo paiono assurde. Avessimo mantenuto anche noi, il bigliettaio-controllore! Ci saremmo risparmiati il verbo “obliterare”.

Le grandi arterie cittadine scorrono sotto numerosi ponti pedonali. Il traffico è un fiume che non si può fermare. Come faccia un cinese in carrozzina a passare dall’altra parte me lo chiedo soltanto adesso, un anno dopo. Decisamente fuori tempo massimo. Gli attraversamenti pedonali sono tutti uguali: sali le scale, cammini sopra le macchine, scendi le scale, sei dall’altra parte. Uno di questi ponti, però, è speciale. Apparentemente è soltanto architettonicamente un po’ meno spigoloso, ma sostare un attimo sul suo camminamento orizzontale è come toccare il cuore della metropoli, sentirlo battere.

Sostiene Renata Pisu che Pechino sia la vittima di un urbicidio, ma che goda nel contempo del fascino di Maurilia, città invisibile di Italo Calvino, dove il viaggiatore “è invitato a visitare la città e nello stesso tempo a osservare certe vecchie cartoline illustrate che la rappresentano com’era prima…”. Un luogo dove il caotico e disordinato presente risulta indispensabile perchè si staglino netti i fasti del passato, perchè trovino senso. Beijing, capitale del nord, capitale della nostalgia.

 

Prosegue il viaggio, prosegue dentro una parentesi di magia. È così che sento di dover classificare la visita al Palazzo d’Estate, antica residenza imperiale: una sorta di luogo incantesimo. A discapito del nome, l’unico rammarico è quello di non esserci potuto andare d’inverno, con il lago ghiacciato, l’affluenza ridotta dei turisti chiassosi, lo skyline della città frenetica sullo sfondo silenzioso, le foglie e il vento. Le foglie e il vento, soprattutto. Salire le scale del palazzo è un privilegio non concesso a tutti, come nel caso dei Panda allo Zoo si tratta infatti di pagare un ingresso supplementare. Ridicolo pedaggio che evidentemente per i cinesi presenti in massa risulta ancora proibitivo. Sul legno laccato di fresco godo di un insperato silenzio e leggo qualche pagina dell’autobiografia di Filippo Timi, Tuttalpiú muoio. Non è il libro più adatto, mi rendo conto, ma sento forte in bocca il sapore romantico di un gesto che mi toglie d’un tratto la ripudiata patente di turista e mi regala quella della persona che voglio essere e così raramente mi accade di essere. Al mio fianco altri occhi leggono e consumano Caos calmo, che sarebbe un bel titolo anche per questo pezzo di storia.

 

Piazza Tien an men la ricordo infuocata. Il sole a Pechino non si vede mai ma c’è eccome. E fa chinare la testa, e fa agognare l’ombra. Appunto, dove la trovi un’ombra a Piazza Tien an men? Ci sono le ombre del passato, quelle sì, le immagini che hai visto ma che non ti hanno fatto mai capire davvero quello che era successo. C’è l’ombra del carrarmato e del fragile ostacolo umano capace di arrestarne l’incedere, la foto che ho fotocopiato alla classe dicendo appiccicatela sul quaderno, è un’immagine importante, è più di un’immagine, è un simbolo. Ora sono lì, e vedo i militari di guardia, immobili ed eleganti più che altrove, vedo un paio di aquiloni, vedo i raccoglitori di bottigliette vuote con il loro sacchi ingombranti, vedo i turisti americani con le magliette dai colori osceni. Fischietto o canticchio la canzone di Claudio Lolli: “…e queste rose volano, non sanno nulla della rivolta in cui si sono aperte, del sangue invaso di bandiere…”. Riconosco me stesso anche in un pensiero banale: me l’immaginavo più grande, la piazza più grande. Me l’immaginavo infinita, invece finisce…

 

Il Grande Timoniere, intanto, dall’ingresso della Città Proibita guarda e non è granché guardato. Forse gli spetta il destino di tutti gli dei in questo tempo confuso. Meglio così, e beato quel popolo che non ha bisogno di eroi.

All’interno della Città Proibita mi sento più che mai attore nella commedia del turismo. Un copione che decisamente non apprezzo. Proprio oggi leggo della chiusura del caffè Starbucks, pezzo si Stati Uniti nel cuore della vecchia dimora imperiale. È la globalizzazione, baby, vuoi mettere le catene al vento, vuoi raccogliere l’acqua con lo scolapaste? In realtà, credo sia un’altra la Cina da proteggere, da incellophanare e custodire. E poi – consapevole di rischiare l’impopolarità – difendo la torta al formaggio di Starbucks, più buona dal vivo che nei telefilm made in Usa.

 

La giovane donna possiede un’automobile di cui sembra fiera, è climatizzata e più pulita di un taxi. Tiene anche una famiglia, mentre guida risponde al telefono e impartisce indicazioni domestiche ad un figlio. Una madre, insomma, che con quella macchina di solito accompagna il bimbo a scuola, va a fare la spesa e scarrozza abusivamente viaggiatori stranieri nel loro lieto peregrinare. Un modo come un altro per arrotondare lo stipendio del marito, è sufficiente trovarsi nell’angolino giusto della città e capirsi al volo – occhi a mandorla negli occhi non a mandorla – pattuire un compenso, stabilire un orario e un luogo. Nella mia fattispecie, il luogo si chiama Grande Muraglia. Baricco è venuto a scriverci il finale del suo saggio a puntate sui “nuovi barbari”, per dire come il mondo sia cambiato e non ci sia barriera che tenga, di mattoni o di idee. Io mi accontento di vedere quello che mai avrei pensato di vedere e di trascorrere una giornata all’aperto sotto un cielo bello e blu. Forse andrebbe davvero guardato dallo spazio, il monumento serpentone, simbolo dell’identità di un popolo, per percepirne la grandezza e la follia. Probabilmente estrapolare il senso di quella lunghezza impensabile non è impresa per noi umani con i piedi per terra. Insomma, sai che dietro la montagna, dove si sfoca e si perde, la muraglia continuerà, e poi ancora, e poi ancora… Sai, d’accordo, ma non vedi, e allora sei di nuovo davanti ad un’astrazione, ad una linea che diventa tratteggiata quando il foglio sta per finire e bisogna far capire che però continua. Mi sento come Borges che voleva vedere TUTTE le formiche del mondo, e tutte in una volta. L’orizzonte è limpido, tutt’attorno alberi, colline e montagne. In certi punti le scale salgono ripide, scendendole le gambe tremano, la schiena sudata soffre le sferzate del vento che mi piace pensare venga dalla Mongolia. Sì, non può venire che da lì, da laggiù, da quel lontano che spio come Giovanni Drogo, ma senza ansia e dentro tanta pace.

Raggiunto il parcheggio sono assalito dalla “piccola violenza” inflitta alla mamma taxista. Il compenso è stabilito alla partenza, è ovviamente bassissimo e non comporta limitazioni orarie. Se le mie pippe sul tempo e le distanze, la geografia e la geometria fossero durate altre tre ore, la signora avrebbe atteso paziente messaggiando un po’ e maledicendomi forte. Lavo la mia coscienza di schiavista con una lauta mancia, secondo me Baricco non ha fatto altrettanto.

 

La Cina è un grande mercato. No, nessuna analisi macroeconomica. Puro esercizio di osservazione spicciola attraversando le brulicanti strade di Pechino. All’angolo la signora con le mani sporche di lavoro e la faccia più pulita del mondo ti offre le sue pesche esposte sul piccolo carretto. Un pezzo di Cina rurale trapiantato a forza tra i palazzoni e gli ingorghi del traffico. Da tempo, infatti, i vecchi mercati all’aperto hanno traslocato in enormi e più confortevoli strutture coperte, senza perdere la loro vitalità e il loro disordine. Inutile cercare un tentativo di coordinamento, i piccoli esercenti crescono uno sull’altro, espongono spesso gli stessi prodotti, ammiccano al cliente con le stesse esche. Un tripudio di merci, colori, odori, rumori e strilli. Qualcuno tratta sul prezzo, qualcun altro vuol provare dei jeans ed ecco la commessa improvvisare una “cabina” con uno spago e un telo, qualcuno mangia, qualcun altro dorme (dorme?). Ragazzi e ragazze assalgono le merci esposte come formiche affamate, l’acquistare è un acquistare allegro, i sorrisi non si contano. Assisto all’ebbrezza del capitalismo e alla morte del copyright. Sono testimone, però, anche della libertà di indossare una canottiera fosforescente e una minigonna ascellare. Ragazzine, ragazze e donne fanno la fila per farsi dipingere le unghie, ragazzini, ragazzi e uomini le osservano sgranocchiando una pannocchia. Il panorama iconografico sulle magliette in esposizione va da Mao a Ronaldiño, da Avril Lavigne all’immancabile Panda, dal mio Astroboy e Emily the Strange. In un cantuccio in disparte un ragazzo espone magliette con un’enorme svastica. Interpellato sul senso di quella scelta commerciale risponde che sa cosa rappresenti quell’articolo in vendita e con la faccia un po’ ebete ha l’aria di dire ‘mbeh?…    

 

Facile raccontare un monumento, un grattacielo, un fiume. Ma come si raccontano le persone? Se mancano gli strumenti – e le certezze – per scomodare categorie sociologiche, per abbozzare riflessioni antropologiche. Se troppo poco è stato il tempo che vola e ti sguscia dalle mani. Al massimo si può rivolgere lo sguardo a qualche immagine rimasta impressa nella memoria, materiale grezzo che andrebbe filtrato e setacciato con gli strumenti della Cultura. Ma questo passa il convento: soltanto le mie impressioni. Rivedo la mia Prof. del Liceo che ammonisce me e i miei compagni, in partenza per Praga, gita scolastica: “…dovete parlare con le persone del luogo, con i praghesi, altrimenti viaggiare non ha nessun senso…”. Ma Prof, e i monumenti, e le piazze, e i ponti, non basta guardare quelli? No, no, no, non bastava. Così, anche se non parlo, guardo, guardo forte, voyeuristicamente osservo tutto e registro e confronto.

Vedo ragazzi, leggeri e colorati come aquiloni, incontrarsi la sera e ridere in allegri capannelli, scherzare seduti per terra attorno a uno spiedino di carne cotta sul posto. Vedo ragazze con la gonna a fiori appese alle biciclette di giovani morosi spericolati. Vedo bambini con i culi per terra – i culi nudi – giocare a rincorrersi, giocare a spararsi. Vedo ammiratissime bambine vestite di piume. Vedo un’infanzia accudita, vedo, e anche se ho letto mille volte della tragedia dei bambini operai, bambini oggetto, mi compiaccio egoisticamente per quello che è stato risparmiato ai miei occhi.

Vedo vecchiette salutare il Sole alle 5 di mattina, vedo ginnastiche collettive intense come preghiere, seguo i passi di un distinto signore con l’hobby di tagliare il vento con la spada, tra una panchina e l’altra del parco, custode di movenze millenarie. Vedo l’anziana signora con la faccia che sembra uscita da un fumetto. Il suo viso è identico a quello di Mr. Magoo e per me diventerà la Signora Magoo. È facile incontrarla, a sera, mentre passeggia nelle vie del quartiere. È una persona minuscola, ma sembra circondata dal rispetto riservato alle autorità. Ed è in effetti una piccola autorità in quello spicchio di città: molte persone si intrattengono con lei palesando grande soggezione. Ecco, quale storia custodisce la Signora Magoo? Mi piacerebbe conoscerla, ed è bello pensare che la metropoli senza anima una Storia così non la riesce a schiacciare.

Vedo gli occhi che non mi vedono di un bambino cieco. Siede a gambe incrociate sul marciapiede davanti al supermercato. Avvolto in una giacca da guardia rossa si muove facendo ondeggiare la testa, mentre il sole affonda nelle sue orbite svuotate di luce. Ascolta il suono delle monete che ogni tanto tintinnano sul fondo del suo barattolo di caffè.

 

L’area dove si svolgeranno i momenti clou della prossima Olimpiade è situata a nord-ovest della città-cantiere. Perplesso davanti alle testimonianze architettoniche dell’antichità (si può considerare “storica” una colonna del 1300 dipinta di fresco con tanto di adesivo della ditta restauratrice?), sbalordisco davanti all’apoteosi della (post)modernità. Mi spaventa un po’, questo invaghirmi di grattacieli di cristallo e spirali di cemento, ma questo accade: percepisco la vertigine dell’uomo piccolo che crea le cose maestose. Per questo non dimenticherò mai le scintille che operai formica spruzzano aggrappati all’acciaio del Nido, l’intreccio metallico che avvolge lo Stadio Olimpico. Un disegno geometrico tanto maestoso quanto apparentemente irrazionale: nessuna simmetria, nessun centro e l’idea impossibile del movimento e della leggerezza. Una cornice perfetta in cui iscrivere l’uomo, magari l’africano che nell’estate del 2008 taglierà a braccia alzate il traguardo dei 5000 metri dentro gli occhi di tutto il mondo. NIDOLa storia del Nido, fin dal suo concepimento, la racconta benissimo Fabio Cavalera, inviato del “Corriere”, nel suo Il manager dei bagni pubblici.

Pechino non sembra perseguire l’estasi di uno sviluppo verticale. I suoi palazzi non grattano il cielo, non salgono fino alle stelle. La capitale sembra si sia chiamata fuori dalla sfida alla costruzione più alta, nuova febbre asiatica da Kuala Lumpur a Honk Kong, da Tokyo a Shanghai. La capitale ha puntato sulla quantità, concedendosi magari il lusso di qualche mirabilia architettonica nella variatio del tema classico: il parallelepipedo di cemento. Il fotografo Michael Wolf – verificate su Google, mannaggia! – ha avuto la mia stessa idea e probabilmente, gironzolando per Honk Kong, ne sta spremendo quattrini. Si tratta di mettersi davanti al megacondominio, lavorare di zoom e, soprattutto, escludere dal campo visivo tutto ciò che lo inserisce nel paesaggio: la strada, il terreno, il palazzo vicino, il cielo. Soprattutto il cielo. WolfPer ottenere la casa alveare, la scacchiera di finestre, il labirinto verticale dove tutto sembra uguale e moltiplicato all’infinito. Il trionfo del dato antropico sul dato fisico.

Ovunque in città sorgono, al posto degli antichi hutong, immensi cantieri recintati, attivi anche di notte. Dai cancelli entrano ed escono camion scoperti colmi di operai come merci. Nel baccano infernale di saldatrici e martelli pneumatici, attorno alle cattedrali che stanno sorgendo manovalanze stremate dormono adagiate su qualche muretto aspettando il suono di una nuova sirena. Uomini – spesso poco più che ragazzi – con le facce del contadino inurbato. Assurdo pensare che quella vita senza diritti sia “qualcosa di meglio” rispetto ad un prima.

Se fossi un pittore futurista, pensando a Pechino disegnerei un paesaggio dominato dalle gru, linee rette verticali e orizzontali come luminosi tagli di spada. Se fossi Spielberg scriverei un film sulla rivolta delle gru, coi bracci meccanici impazziti a rifilare mazzate a mulinello sugli umani indifesi. Per fortuna non sono Spielberg. 

 

Il lavoro nel paese del comunismo realizzato. Realizzato e ammorbidito. E diluito. E contraddetto. E stravolto. E…

Il lavoro è ovunque, pullulano le mani occupate. Le mansioni sono parcellizzate all’inverosimile, tutti sono occupati, tutti saranno inevitabilmente lavoratori alienati. L’effetto è parossistico nei grandi supermarket: un cliente a caccia di un rasoio elettrico viene circondato da cinque solerti commessi in divisa arancione. Nel reparto alimentari l’addetta sorridente non conosce la locazione dei detersivi, l’addetta ai detersivi, d’altronde, ignora se nel grande emporio si vendano anche bilance. Nel reparto ferramenta la commessa indica gentile la scatola coi lucchetti e le rispettive chiavi. Al cliente ne servono 4 ed eccola afferrare il pallottoliere per la moltiplicazione. C’è posto anche per lei che non sa contare, nel grande mercato, e questo mi piace. Le metropoli, si sa, risolvono (?) il problema dei rifiuti riducendo alcuni cittadini allo stato di rifiuti. Quello che a San Paolo spesso è deputato ai meniños de rua, a Pechino tocca in sorte a uomini di mezza età che sembrano già vecchi. A bordo di biciclette con le ruote sgonfie e le catene afflosciate percorrono e attraversano le strade trascinando carretti stipati di cartoni, oggetti di plastica, barattolame, pezzi di legno. Alle 8 di mattina come alle 8 di sera. Ogni tanto qualcuno riposa adagiato sul suo mezzo sgangherato, sotto un albero o un’ombra qualsiasi. Bicicarica2Attorno ai cassonetti della spazzatura stazionano a turno uomini avvoltoi pronti a raspare nei rifiuti. Il giorno della mia partenza – appena chiusa la valigia – sto gettando un vecchio pigiama dalla lunga carriera, gesto utile a limare qualche grammo al pesante bagaglio che deve andare incontro alla severa pesa aeroportuale. La mano ha già sollevato il coperchio quando due occhi circondati da una faccia senza età si frappongono tra me ed il mio gesto. Con l’aria di chi si scusa consegno direttamente il consunto capo d’abbigliamento nelle mani di quella faccia. Insieme a quel brandello di cotone è stato come se mi sbarazzassi di tutte le notti dormite tra le sue pieghe in un letto caldo e sicuro. 

 

Va scomparendo, mi auguro senza il peso di alcun rimpianto, il mestiere del guidatore di risciò. Qualche bicicletta umana, ruolo ormai relegato al folklore dei luoghi da cartolina, ha cercato nei miei occhi il consenso all’offerta di alleviare la fatica di camminare sotto il sole. Consenso rifiutato, ovviamente, ché non sarei stato più capace di guardarmi allo specchio.

In ogni ambiente lavorativo vigono le regole di un caporalato tanto spietato quanto apparentemente accettato e condiviso. Commesse e camerieri sono sottoposti ad apprendistati militareschi, vengono messi in riga davanti alla clientela (qualora occidentale: attonita) e costretti a ripetere ad alta voce gli ordini impartiti dal principale che sembra il tenente cattivo di un film sul Vietnam. Poi, finita la messinscena tradizionale e confuciana (comunque umiliante), liberi tutti e la cameriera, tra una marea di clienti, potrà tranquillamente mettere le dita nel naso.  

Altro simpatico professionista – indispensabile ingranaggio urbano – è il portatore d’acqua. Con quella del rubinetto a Pechino non è proprio il caso di dissetarsi, ogni abitazione è pertanto fornita di un apposito frigorifero con una grande boccia di liquida salvezza. Rimasti a secco basta comporre un numero e un ragazzino muscoloso (va da sé…) inforcherà il suo carretto, salirà le scale – che siano 15, che siano 1000 – e recapiterà un nuovo pesantissimo dissetante contenitore.

 

Il mio viaggio è stato anche un viaggio nei suoni e nei rumori di una città.Il rumore pesante del traffico.

 

StradaXIl rumore dei condizionatori: pressoché ogni costruzione – pubblica e privata, meraviglia architettonica o catapecchia – è provvista di impianto di climatizzazione. Quando i profeti di sventura, d’innanzi ai rischi di black out energetici nelle nostre calure estive, ammoniscono che “verrà il giorno in cui anche i cinesi vorranno il condizionatore…”, ignorano che i cinesi – come dargli torto – hanno già voluto da un pezzo.

La musica della lingua, frontiera invarcabile, aspra nella bocca degli operai che faticano al sole, dolce misteriosa nel canto che sento arrivare da lontano in un pomeriggio d’ozio. Parole come gocce di resina, parole come gocce d’acqua. Io imparo a dire “grazie”, “buongiorno”, “il conto” e “questo…” con il dito sulla figura stampata sul menù. Imparo a dire ma non vale, perché quei suoni si tratta di cantarli nella giusta tonalità.

Il suono affascinante e un po’ inquietante delle cicale (almeno credo) tra i rami degli alberi, a sera, come un sottofondo costante dei ritorni a casa.

Un mondo sonoro è fatto anche si silenzi e di rumori assenti, sottratti. Il suono delle campane, ad esempio. O quello delle ambulanze. In quasi un mese di permanenza mai una sirena e nessuna emergenza. Com’è possibile, in quel mare di macchine, in quell’oceano di gente?  

Il rumore che fanno le pagine di un giornale sfogliato. Le edicole non mancano ed espongono riviste patinate. Pochi davvero, però, i quotidiani sotto il braccio dei cinesi. Più facile incontrarne uno avvolto attorno ad un melone.

 

“Il cielo è azzurro sopra Berlino”. Ha provato a fare il colto e l’originale (forse potrei risparmiarmi certi sarcasmi, io che rimango un ragazzo dello Zoo di Pechino…), il telecronista Marco Civoli la sera del 9 luglio 2006. Nel mio accogliente salotto cinese, quella notte, io non l’ho proprio sentito, invece, il triplice fischio dell’arbitro Luis Medina Cantalejo. L’incomprensibile telecronaca di CCTV, television network of People’s Republic of China, riposava infatti nell’ovatta dell’audio abbassato. Non mi ha mai mosso alcun afflato patriottico, tantomeno calcistico, quindi quella notte la ricordo bella ma bella come le altre, e il rigore di Grosso avrebbe potuto stamparsi sul palo o sulla faccia del portiere senza creare in me alcuno scompenso. Le prime prove degli azzurri le avevo osservate con gli occhi distratti di chi, alla vigilia di una partenza con 400 “p” maiuscole, ha altro a cui pensare. La nazionale di Lippi l’ho trovata oltremodo brutta e sterile e mi è dispiaciuto un po’ che proprio mentre stavo volando sopra l’Asia la Germania abbia eliminato l’Argentina di quel genio di Riquelme, il mio calciatore preferito.

Come fossi anch’io un artefice del trionfo azzurro, ricevo nei giorni successivi congratulazioni e complimenti da cinesi di tutte le estrazioni. Dietro i sorrisi spalancati sembrano dirmi: bravi, avete conquistato la Coppa del Mondo, noi presto conquisteremo il Mondo.

Davvero esilarante il programma calcistico della Tv cinese dedicato ai mondiali tedeschi. La trasmissione probabilmente più vista del pianeta si svolgeva in uno scenario imbarazzante. Uno studio mastodontico e deserto gestito da un trio di “esperti” commentatori. Davanti al tavolone dal quale il terzetto disquisiva di fuorigioco e regola del vantaggio, il corpo senza vita della mascotte del torneo. Giuro, sembrava davvero appoggiato lì senza cura, il leone col capo ciondolante, 20 secondi prima del via della diretta.

(Scorrendo le programmazioni di altri canali pubblici, cioè di tutti i canali, impressiona la potenza di fuoco degli spot pubblicitari – automobili, tantissime automobili – e l’anacronismo di alcune parti del palinsesto. Il canale deputato alla musica, una sorta di Mtv cinese, trasmette musica aggiornata all’anno del mio esame di maturità: 1994. Censura? Sul costume più che sulle idee, si direbbe, se è vero che ho rivisto un antico Paul McCartney cantare in un video sbiadito l’allegra “Hope of deliverance”. Un limpido inno alla libertà che probabilmente infastidisce il regime meno dell’ombelico di Shakira o del fondoschiena di Beyoncé. Il baronetto inglese, infatti, veste una giacca impeccabile.)

 

Rileggo queste righe e l’effetto è quello di una macedonia appassita. Con pensieri banali come banane annerite, riflessioni scontate come pere marce. Scriverle, però, è stato quasi una necessità, un argine contro la nostalgia e il riaffiorare dei ricordi. Mi conosco, tra qualche anno ritornerò su queste parole e non avrò bisogno di loro perché ricorderò tutto, forse addirittura ricorderò qualcosa in più.  

Nella valigia chiusa del ritorno ho stipato una miriade di domande tutte aperte.

Cos’ho visto davvero?

A cosa condurrà quello che ho visto?

Si conserverà qualcosa di quello che ho visto?

Sono capace di rispettare quello che ho visto?

(Cosa sognano tutti quegli occhi neri?)

Come raccontare quello che ho visto?

Rivedrò di nuovo?

 

Un’ultima frase, indispensabile, prima dell’ultimo punto.

La meta del mio viaggio non era la Cina.

La Cina è stata il più luminoso degli sfondi possibili dietro lo scorrere dei miei giorni migliori.

Eccolo, l’ultimo punto.  

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Soletta

Canti degregoriani

Non sono mai andato ad un concerto senza studiare. Senza un ripasso delle canzoni che ricordavo meno, senza rispolverare rime e ritmi. Ieri sera avrei dovuto “giustificarmi” come a scuola, davanti a De Gregori e al suo palco raggiunto quasi per caso, ma poi si sa, le basi cognitive sono buone, l’alunno si è sempre impegnato, un po’ di mestiere. Insomma, ho superato la prova.

Eterno dilemma: è un bene o un male che il Principe stravolga le sue canzoni, le rivolti come calzini? Oppure certi pezzi oltre che suoi son diventati anche “nostri”, ché li cantiamo da 20 anni e quindi ci appartengono?

Faccia pure, il poeta. E va benissimo se nel testo rinfrescato (La ballata dell’uomo ragno) “Mitterand” diventa “Sarkozy”.

Una cosa piccola, poi, da bella che era l’ha fatta diventare bellissima.

Provate a cantare, se la conoscete.

La canzone è Un guanto. Sì lo so, appunto: meravigliosa.

Ma se al posto di

ERA LA NOTTE DI QUEL BRUTTO GIORNO

…uno dice…

ERA LA NOTTE DI QUALSIASI GIORNO

…non è una specie di miracolo?  

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Senza categoria

Ho

Da tempo prendo quello che non è di nessuno alla fine del precipizio del giorno.

Ho molte urgenze, che si accumulano come batuffoli grigi della polvere, intessuti di capelli e ritagli nel telaio degli angoli.

Ho un corpo smisurato che non potò mai vivere interamente.

Ho progetti di pentimento in continua elaborazione per renderli adattabili ad ogni occasione.

Ho una stanchezza e mi alleno a farne un richiamo che la mia frenesia possa riconoscere.

Ho poca preghiera esercitata da pochi pianti e molti privilegi.

Ho un cuore che molesto con pensieri camuffati da battiti.

Ho soglie sulle quali mi capita di stare in attesa.

Ho intimità sufficienti per dire come mi sento in questo preciso istante.

Ho idee di partenza portate come una coda.

Ho capelli che arrotolo in ciocche da quando sono bambina per restare bambina.

Ho sogni che costano poco e che sono i miei sogni più preziosi.

Ho un animale che vive appollaiato su di me che sono un albero.

Ho una difficoltà a pensarmi cresciuta percorrendo da sempre le stesse strade.

Ho un ventre che si contrae e spasima.

Ho una lingua per sentire e una per lavorare.

Ho un respiro che a volte trattengo come un ricordo.

Ho parole che raccolgo come fossero d’ordine, quando le trovo posso entrare e sentirmi piena di meraviglia.

 

Antonella Bukovaz

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Soletta, Stream of consciousness

I bambini di Topolò

Prendiamo una panca. No è meglio una coperta, la mettiamo per terra e ci sdraiamo. Sbrigati che comincia. Guarda quante stelle. Dormi? Io quasi, tu?

È un luogo incantevole, il cinema di Topolò. Vecchio muro di una casa vecchia, le poltroncine tra i sassi, qualche scalino, pochi fili d’erba. L’incantesimo più bello, però, lo fanno i bambini. Perché ci sono, nonostante le proiezioni lunghe e spinose. Si sdraiano per terra, tra il loro corpo e la linea dello sguardo verso il cielo c’è un angolo retto. Hanno 5, 7, 9, 11 anni e hanno il fiatone per il Nascondino di cui si sono appena spenti gli echi. Ma adesso tacciono, anche se nessuno ha fatto shhhhhhhhhht, forse tra un po’ dormiranno. Qualcuno deve aver loro detto che su quel muro bianco tra poco succederà una magia.

Puntualissima.  

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Soletta

Se papà te le canta (post moralista)

Se sei una bambina piccola piccola e quando accendi la Tv vedi la mamma che limona con un cane, crescere non dev’esser facile.

Se però poi c’è papà che scrive una canzone per te, ti porta nello studio di registrazione e te la fa pure cantare insieme a lui e tu ridi forteforte e sincera, e la canzone in soldoni dice che lui ti vuole un gran bene e che quando non ti vede gli manchi e che ogni volta non vede l’ora di rivederti per cantare ancora insieme a te… beh, allora e cose si aggiustano un pochino.

(Chi l’avrebbe mai detto che un giorno avrei “recensito” positivamente Morgandeibluevertigo?)

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Le storie di Scuolamagia, Lettere a sara, Piccola posta, Stream of consciousness

Missing

Cara Sara, ti scrivo. Sì, ancora, e faccio pure un piccolo riassunto per chi magari non sa chi sei. Sei la ragazza di un manifesto trovato appeso da un mio alunno, quello che non sa disegnare le stelle, su un muro alle Canarie. Purtroppo non eri appiccicata a quella parete canarina perché sei una cantante, una ballerina, un’attrice che si deve esibire da qualche parte. Stavi lì perché sei scomparsa («desaparecida», ed è per questo che quel grande foglio è diventato un regalo per il prof. di geografia) e di te si son perse le tracce. Sei rimasta appesa vicino alla lavagna per tutto l’anno scolastico e sei diventata importante. Sono rimasto male ogni volta che qualcuno non ti ha notata. Sono gli adulti, generalmente, a non avere occhi per te. Il Presidente della commissione d’esame è stato l’ultimo a deludermi e rattristarmi. Come si fa ad entrare in 3ª C e non notare l’enorme testa di drago testimonianza di antiche esibizioni teatrali? Come si fa a non buttare un’occhiata agli scrittori, ai cantanti e ai registi che pendono dai muri con i loro paracadute? Passi per il drago e i paracadute, ma come si fa a non degnare di uno sguardo te, Sara? Eppure capita che qualcuno abbia attenzioni soltanto per registri e scartoffie e l’orologio per andarsene il prima possibile. Periodicamente ho cercato tue notizie su internet, sognando di entrare in classe un bellissimo giorno con la bellissima notizia. Google, invece, diventava ogni volta più avaro di notizie, e le notizie sempre più avare di speranze. Di te si riparla ora, ma solo un po’, dopo la sparizione in Portogallo di altri due bambini. Si ipotizzano reti di pedofili e altre organizzatissime cose aberranti. Io continuo a sperare in una tua fuga volontaria, e in una tua vita diventata migliore. Se puoi, splendi. Clio

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Stream of consciousness

Cornacchie

Diario dei giorni nella casa dell’infanzia. Sono spariti i gatti e le croste del formaggio rimangono sul cortile teatro dei miei giochi (la fattoria, la guerra, il vulcano, il safari, …). Sono arrivate le cornacchie, tante e sinistre, grandi come aquile. Più di loro spaventano le ombre nere sui muri bianchi. Sono spariti i prati, mangiati dal bosco. Uno sognavo di riuscire a disegnarlo, quand’ero un piccolo pittore paesaggista. Verde chiaro inghiottito dal verde scuro. Nel piccolo cimitero di montagna, aperto anche col buio, ho laicamente visitato l’amico di scuola, suicida due anni fa. La lapide è sobria, com’era lui. Si complica soltanto in un angolo dove sorge una colonna tronca, spezzata. Come lui, appunto. Nei giochi voleva sempre ci fosse il mare, ci fossero barche e sommergibili. Io ci mettevo la fantasia, lui la perizia e la precisione. Che brutto suono la parola “cornacchia”. Brutto e ben gli sta.

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Le storie di Scuolamagia

Cosa hai fatto in questi cinque anni?

Quando lo chiedono ad Antonio (Albanese) – cos’ha fatto in quei cinque anni – lui risponde in due modi:

«Booooh…»

«Funghètti…»

Era durata un lustro, infatti, la sua visita al supermercato per risolvere una voglia della moglie incinta, prima di una gran botta in testa e la conseguente amnesia.

E io, altro gran bell’esemplare di uomo d’acqua dolce, cos’ho fatto in questi cinque anni?

Oggi uno dei miei primissimi alunni, l’alunna Cicciuzza, ha l’orale della maturità. Sembrava tranquilla, ieri, nonostante Lucrezio e Leopardi, la Fisica e la Geografia Astronomica. Speriamo non la zittiscano come fece il commissario all’esame di terza media, quello stroncare che tocca in sorte ai secchioni che espongono veloce e sicuro, quasi a dir loro “stai al tuo posto, certa pedanteria è roba nostra”.

Cos’ho fatto in questi cinque anni?

Cosa sono diventato?

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Soletta

Scudo umano

Il padre è seduto sulla sedia vicino al letto. Alex dorme con le gambe raccolte. Dietro il letto, oltre la finestra, l’oceano. Alex apre gli occhi:

«Cosa stai facendo?»

«Ti proteggo.»

«Non puoi proteggermi per sempre…»

«Finché potrai scegliere…»

 

XXY, di Lucía Puenzo

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