Res cogitans, Stream of consciousness

I senzapera

Bicicletta mattutina. Terapeutica: mi servono sudore e vento sulla faccia. La noto subito, al primo chilometro. Due ultimi passetti che diventano un minuscolo solletico sulla pelle, l’aria di chi ha trovato un ubi consistam. Porti fortuna? Pungi? Sei velenosa? Mi fai compagnia? Rimane fino a metà della salita, poi forse la pendenza, o i movimenti che si scompongono. Insomma, sparita, ma il cartello indica che mancano 600 metri. Mi alzo sui pedali e arrivo. In cima, vicino alle poche case del borgo, c’è il camion della frutta. Angurie, meloni, albicocche, odore buono. Pere. Gialle grandi meravigliose. Ci affonderei la faccia, sbrodolandomi. Da quanti secoli non la mangio, una pera? Non ce la faccio, il ciclista non riesce a chiedere la pera sbrodolante, una di numero, pagandola i centesimi necessari. Eppure gli sembra un gesto quasi poetico, forse nobile, assolutamente normale. Ha visto la scena, ma se n’è tristemente accontentato. Svevo li chiamava “teoristi”, uomini tutto pensiero e niente azione. Uomini senza pera. Ci fosse almeno sulla coscia, durante la discesa, una coccinella cui raccontarlo.

Standard
Le storie di Scuolamagia, Stream of consciousness

Tra corpo e voce: io

Sto cercando un vecchio libro di Alberto Cavallari, già direttore del “Corriere”, un reportage dalla Cina. Vecchio…, perché vecchio? Diciamo non recentissimo (mi accorgo or ora che la data di pubblicazione coincide con la mia di nascita…). Lo stanzone della biblioteca è ovviamente il più sperduto e lontano dall’ingresso, lontano dalle novità e dai bestseller, le persiane abbassate e solo una frusta di sole a sollevare grani di polvere. Oltre gli scaffali e la penombra, solo un’ultima saletta con tavoli e sedie: luogo di ricerche e di compiti svolti allegramente insieme dai ragazzini nei pomeriggi d’inverno. Mentre i miei occhi scandagliano le file di volumi, ecco una voce squillante – inaccessibile per il mio sguardo, colpa di un muro – e un corpo di ragazzina (10? 11?) gracile e serioso, chino su un quaderno. Inerte, il Corpo. Iperattiva, la Voce. «Ma insomma, se ti dico che devi trovare ½ di 4… tu cosa fai?».  «Suuu, è la stessa cosa che hai fatto prima: unmezzodiquattro, come si fa?, dai…». Poi, sempre più insistente: «ma allora hai proprio la testa dura, ½ di 4, mica unsedicesimodicentotrentadue…». Voce incalza, Corpo è alle corde. Compare un dito di Voce, a indicare ½ di 4 sulla carta a quadretti. Inutile, Corpo mangia matita. «½ di 4». «½ di 4». «½ di 4». «½ di 4». È un bombardamento, mai vista tanta (inutile) furia didattica. Sarebbe un lavoro per SUPERPROF. Corpo ha chiaramente bisogno d’aiuto. Voce ha chiaramente bisogno di una lezione. Dovrei sbottonare la camicia, togliere gli occhiali, sistemare il mantello e volare verso quel tavolo. Un foglio bianco, una matita e dei disegni (la torta, le fette di torta), le mani, tante mani, 4 mani, metà di quattro mani: o le mie e o le sue.

Poi fortunatamente Voce si ravvede, con la mano spazzola affettuosamente il caschetto castano di Corpo e si evita la supereroica umiliazione: «Dai, facciamo 5 minuti di pausa…».

Mi sa che ho voglia che ricominci la scuola.

Ecco il libro di Cavallari, intanto. Comincia così:

«Dal gennaio 1975 molte cose sono cambiate».

Eccheccavoli, certo che son cambiate! Son nato io!     

Standard
Soletta, Stream of consciousness

L’importante è partecipare

4 mesi 3 settimane 2 giorni, che film. Che film. Che film. Mai “sospeso così a lungo la mia incredulità”, mai creduto di poter pensare – col cuore e con lo stomaco: cazzo, rispondete a quel telefono!!! (Dall’altra parte del cavo poteva esserci una delle protagoniste in gravi difficoltà). Mai fatto così tante congetture sugli esiti possibili, le sfighe e i contrattempi che sarebbero potuti capitare. Fa che no… Fa che no… Fa che no… Mai “partecipato” così tanto, insomma. E sofferto, anche, certo. Perché la pellicola non fa sconti, davvero. Se cerchi dolcezza e tenerezza ti conviene provare altrove. Oppure le porti tu, incrociando le dita, partecipando, appunto, soffiando sulla trama, stando in pensiero per chi è rimasto solo, facendo compagnia a chi cammina da solo nella notte nera.

 

Standard
Res cogitans, Soletta, Tutte queste cose passare

Spingendo la notte più in là

Il libro di Mario Calabresi è bellissimo. La sua tesi sta tutta nella sensazione provata acquistandolo, sfogliandone le prime pagine. Quella sensazione strana, imbarazzante, di “trasgressione”, quasi uno scarto improvviso da una consuetudine consolidata e da certi sedimentatissimi cliché. Mi ha fatto sentire libero, e ha complicato ulteriormente la matassa più intricata ci sia in questo paese.

Standard
Soletta, Tutte queste cose passare

Scrivendo cantando

«Tre anni fa, più o meno in questi giorni, moriva. Enzo Baldoni. Lo conoscevo, ma non è per questo che ne scrivo oggi. Forse eravamo perfino amici – avevamo lavorato, e parlato, e riso insieme. […] Sì, credo che fossimo amici, ma non è per questo che ne scrivo oggi. E neppure per esorcizzare il ricordo della sua ultima telefonata dall’aeroporto, e di quella mia frase inconsapevolmente spaventosa: “Cerca di riportarla a casa, quella testa bacata che ti ritrovi”. Gli era talmente piaciuta  che l’aveva messa nel suo blog, ma io non ne ho saputo niente finché non è arrivata la notizia del rapimento, e allora son cominciate le telefonate dei giornalisti: “Abbiamo letto, dunque eravate amici, che cosa ne pensa, cosa ha da dire…”.

Ho da dire, oggi, a tre anni di distanza, che sì, Enzo era un mio amico, e mi manca. Che era un uomo intelligente, generoso, simpatico. Un giornalista curioso e appassionato. Ho da dire che il suo rapimento, la sua morte sono stati atti inqualificabili, inumani, a opera di tagliagole cui abbiamo avuto modo di conoscere altre imprese. E ho da dire che nei giorni tra il suo rapimento e la sua morte – “giornate furibonde, senza atti d’amore, senza calma di vento / solo passaggi, passaggi di tempo” – gli è stata riversata addosso una quantità scandalosa di offese e insulti, da parte di certa politica e di certa stampa, ma scuse e autocritiche, ancorché postume, non me ne ricordo. Che non solo non è stato fatto tutto il possibile per provare a liberarlo, ma che per giornate intere – furibonde, sì, e senza atti d’amore ma anche di elementare giustizia – si è ironizzato sulle “nuove vacanze intelligenti della sinistra”, e insomma anche lui se l’è andata a cercare, e poi in agosto, si sa, son tutti in ferie. Passaggi di tempo. […]

E ho da dire un’ultima cosa, un magone che da tre anni mi chiude la gola: Enzo se n’è andato da solo, non c’era nessuno a dirgli addio, e “difficile non è partire contro il vento, ma casomai senza un saluto”. Allora, oggi io vorrei salutare Enzo Baldoni, uomo simpatico e impetuoso, buon giornalista, anima salva in terra e in cielo. Che bello questo suo tempo. Che bella compagnia.»

 

Lella Costa, su “A

Standard
Stream of consciousness

Do you need somebody?

La cosa bella è che ogni volta che la vedo – ahimè nemmeno troppo spesso – Margherita canta sempre la stessa canzone. La accenna quasi furtivamente, colla sua piccola voce roca. Sono altre le melodie che ti farebbe sentire volentieri, quella no, quella è solo roba sua, e da tanto tempo. E allora eccola che raduna la borsettina e le cose sue di bambina, chiude la portiera della macchina e attacca piano: “…e poi svegliarsi essendo l’alba …addormentarsi essendo notte… do you need somebody? …e c’è ancora mare …do you love somebody? …mare nelle mani…”. Margherita e la sua canzone nei riflessi colorati della pozzanghera.  

 

Standard
Res cogitans, Stream of consciousness

Essere Juan Roman Riquelme

Scrive qui, scrive sempre, vorrà fare lo scrittore…

Di notte suona e canta sulla sua terrazza e in qualsiasi altro momento, se si può. In macchina non ne parliamo, mette un CD e urla. Vorrà sicuramente fare il cantante.

Scarabocchia ovunque, i suoi cassetti son pieni di pennarelli. Sognerà mica un futuro da pittore?

Però è circondato dai libri, li insegue nei negozi, li ordina su internet, qualcuno pure lo legge… E se vuol fare il bibliotecario?

No no, cari, spiacente di deludervi, ma ci sono giorni acuminati di pensieri in cui alla fine uno sbotta e perviene a certezze indissolubili.

Quello che vorrei essere (e non sarò mai) è questa cosa qui.

Nient’altro, fanculo tutto il resto, il perché ve lo dico un’altra volta.

Standard
Res cogitans, Tutte queste cose passare

Che Skyfe!

Mi aveva in effetti un po’ insospettito, nei giorni scorsi, tutto quel clamore su Repubblica.it per le rogne ferragostane di Skype. È bloccato, non funziona, ha ripreso a funzionare, ma – sottolineato – non al 100%. Mi ero chiesto, tra le altre cose: perché NON è stato il mio giornale preferito a farmi conoscere Skype? Perché non l’ha mai strillata forte, la novità delle telefonate gratis? Ingenuo, mi ero detto, come fa a parlare bene di Skype un giornale imbottito di Canalis (e questo di per sé non sarebbe un problema…) telefonanti, messaggianti, wirelesseggianti? Ingenuo due volte, oggi scopro che è nato REPUBBLICA VOIP, il servizio per telefonare e videotelefonare via internet a prezzi eccezionali. E quindi, che notizia è il problema tecnico di Skype? È ancora una notizia?

Basta, ché la Pozzanghera non è mica beppegrillopuntoit. Me ne guardo bene. Però uffa, perché il mio giornale non fa solo il giornale?

Standard
Soletta, Stream of consciousness, Tutte queste cose passare

Vivere come persone morte

Alcuni – la percentuale è bassissima – ce la fanno e arrivano.

Hanno attraversato il deserto.

C’hanno messo 5 anni.

Hanno fatto 2 figli durante il tragitto.

Hanno scavalcato reticolati alti 6 metri.

(Hanno visto brandelli di carne umana pendere dal filo spinato)

Hanno attraversato il mare in tempesta.

(Hanno visto quelli inghiottiti dal mare in tempesta)

(Hanno visto anche quelli che a un certo punto, sulla barca al centro del Mediterraneo, si sono alzati, hanno detto “Io torno da mia madre” e sono scesi!!!!!!)

Hanno visto quelli riversi sulla sabbia infuocata, hanno frugato nelle loro tasche in cerca di un nome e di un indirizzo di posta elettronica cui spedire un giorno una triste certezza.

Hanno visto carceri inumane, hanno mangiato e bevuto gli scarichi del proprio corpo.

Hanno capito la differenza tra avere e non avere 25 centesimi di euro al momento di corrompere un carceriere.

Alcuni ce la fanno. Alcuni arrivano. Dicono di sé, però:

«VIVIAMO COME PERSONE MORTE».

 

Pochi libri mi hanno sconvolto così tanto.

Cos’è la mia tristezza davanti a tutto questo.

Standard
Piccola posta, Soletta, Stream of consciousness

Cari saluti

Vi sarà capitato di pensare che il titolare di una rubrica settimanale o quotidiana, sulle pagine di qualche giornale, quella volta lì molto probabilmente non aveva la minima idea di cosa scrivere? Blocco totale, foglio bianco – di carta, di Word – che osserva impassibile, la mente che è un deserto di idee. Succede a tutti, è umano, anche ai migliori. I migliori però se la sanno cavare meglio e si traggono dall’impaccio con maggiore disinvoltura. Riciclano un pensiero già espresso in precedenza e gli fanno un piccolo lifting, se sono cervellotici buttan giù un pezzo cervellotico e metagiornalistico sul tema “non sapere cosa scrivere”. Forse Lella Costa, nella sua paginetta su “A”, questa settimana proprio non sapeva cosa scrivere. Così s’è presa la libertà ferragostana di fare dei saluti e mandare qualche bacio, confessando senza tante storie l’uso privatistico del mezzo. Tutte donne, le destinatarie, anche se lei preferisce chiamarle “ragazze”, qualunque sia la loro età.

E allora ciao alla sua mamma e alle sue figlie. A un’amica che sta navigando e si merita l’appellativo di pirata. Alle sue amiche che scrivono poesie, a una in particolare e chissà chi è. Manu la saluta insieme alla sua pancia e mi sa che Manu non soffre di obesità. Dori, Dori mi sa che è Dori Ghezzi. Così come Randi, con quel nome, mi sa che è la compagna di Adriano Sofri, la destinataria della lettera d’amore più bella ch’io abbia letto mai (“Cara Randi, buon compleanno. Avrai un giorno pieno di pensieri, cioè di ricordi. Mi piacerebbe che ti ricordassi di una sera che deve ancora venire, sebbene se ne conosca già la luce di specchio…”). Ciao a Teresa, che Lella spera si trovi in montagna, e ciao a Cecilia, che Lella spera tanto sia serena. Le donne della famiglia Strada, I suppose, e chissà cosa turba la giovane figlia del fondatore di Emergency. C’è spazio anche per un saluto rivolto ad una misteriosa Occhidibottone, definita “viaggiatrice viaggiante”. Si sa del debole di Lella Costa per Ivano Fossati, e come darle torto. Un buon pezzo, però, non è un buon pezzo se non ha un buon finale. Giudicate voi.

“Buon ferragosto a tutte voi – e a mio marito, che se è l’unico maschio un motivo ci sarà”.   

Standard
Cineserie, Res cogitans, Soletta, Stream of consciousness, Tutte queste cose passare

Solette

Parliamo di libri e di memoria. Ho letto d’un fiato Tutta un’altra strage di Riccardo Bocca.

La strage è quella di Bologna, 27 anni dopo. Anche se sembrano 270. Mi indigno per le parole del Presidente del Consiglio di allora, poi Presidente della Repubblica. Al giornalista rivela: “lei ha davanti a sé una persona che ritiene una cazzata che la magistratura sia indipendente”. È troppo, no? E quelli che hanno messo la bomba, condannati dalla giustizia italiana al termine di estenuanti processi? “Persone normali”, dice l’ex premier, “bravi ragazzi che mi vogliono bene”.

Pausa ristoratrice con il romanzo Balzac e la Piccola Sarta cinese di Dai Sijie: delicato, luminoso.

Fa bene Bernardo Valli a ricordare, sulla quarta di copertina, la “leggerezza” di Calvino e a dire che l’anima del libro sorreggerebbe il volo di una piuma. Dentro ci trovate pure una Rivoluzione culturale a tratti atroce, a tratti comica, nelle lande sperdute dov’è ambientata la storia. Il finale? Strepitoso e crudele. Crudelissimo. E i comunisti non c’entrano. La colpa è tutta di Balzac e della Bellezza.

E adesso?

Per terra, adesso, sul legno del pavimento, sotto questa musica che ascolto, c’è il libro inchiesta Mamadou va a morire di Gabriele Del Grande.

Fanno ancora centro, le Edizioni Infinito, dopo il meraviglioso libro sulla Bosnia.

Un viaggio attorno a quel grande cimitero che è diventato il Mediterraneo, un viaggio nelle vite e nei sogni di chi s’imbarca per entrare nell’area Shengen. La prossima volta che cliccherò sull’icona di Skype e leggerò 7.678.987 UTENTI IN LINEA sarà impossibile non pensare che migliaia di quelle dita sulle tastiere non si stanno scambiando files musicali, scatti fotografici, non stanno condendo le loro parole con faccine sorridenti o lingiuacciute, ma cercano un posto su una bagnarola scassata, stanno tentando di investire i soldi di una vita in un biglietto per la morte. Certo, che gran coglione, per me Skype è gratis ed è qualcosa di curioso, uno dei tanti orpelli della mia vita comoda. Io sono pure stato felice, su Skype, grazie a Skype. Se penso che sono uno di quei 7.678.987 e lo sono contemporaneamente ad un ragazzo del Mali è piuttosto facile sentenziare: eccolo, il Villaggio Globale. Poi, però, la Storia mi sembra sempre quella, la solita vecchia Storia, quella che “dà i brividi, perché nessuno se la può inventare”. Tantomeno cambiare.   

Chiudo con la soletta al programma televisivo “Evoluti per caso” su Rai 3. Una strepitosa Syusy Blady è a Santiago del Cile sulle tracce di Darwin. La accompagnano insegnanti e studenti universitari italiani. Due ragazze ventenni le dicono di aver visitato come due turiste la città, e di essere state al palazzo della Moneda. “Ma voi sapete cosa rappresenta il palazzo della Moneda, no?” “Certo”, ribattono le due, “era l’antica zecca dello stato da cui il nome…”. E allora ecco che quel bel donnino s’incazza, magari per finta ma a me è parso anche per davvero, s’incazza e dice forte a quelle due ventenni cos’ha rappresentato per lei quel palazzo e cosa, in fondo, dovrebbe rappresentare anche per loro.

Standard
Senza categoria

“Scivolando nel cavo di un palmo di mano…”

Troppo il tempo lasciato

a rincorrer presente e passato,

lascio il passo alla mia meraviglia

dal profumo di timo e lavanda.

E noi, e noi come edera

ci rincorriamo su un muro…

E noi, e noi a piantare radici nel tempo futuro…

E noi, e noi eterni nel tempo di noi…

No, non sono petali e mirto a fare

di me una regina

ma se tu custodissi per me

un pensiero e una casa

io sarei tua amante e tua custode.

 

Petali e Mirto, Giua… GiuaGiua

Standard
Stream of consciousness

Snyakutz

Sono i giorni del mal di testa, ancora, delle stanze abbuiate e delle musiche terapeutiche. E mentre le tempie pulsano e sono in fiamme, i piedi gelidi reclamano calzini. Al mondo non succede granché, e il viziaccio di affiancare a “Repubblica” il “Corriere” si risolve quasi sempre in uno scialo di carta e inchiostri. Valentino Rossi non paga le tasse, d’accordo, ma è innamorato della Canalis e allora perché rompergli le scatole proprio adesso?

La bici potrebbe salvarmi un po’ la vita, ma se poi arrivato in cima si ricomincia con le luci e gli accavallamenti visivi?

Consolano davvero certe parole di bambina dentro un sms, quando alla domanda della Mamma “quali sono per te le cose davvero importanti?” rispondono: “UN TAVOLO E UNA SEDIA”. Ma non basta, aggiungono “…E UNA MANO, CHE È ANCHE DELICATA”. Maria Sole, neanche tre anni, alta suppergiù / due mele o poco più.

C’è una bambina anche nei versi di Antonella Bukovaz, poetessa di Topolò. A quattro anni chiede: “ma come fanno i morti a stare con gli occhi chiusi tutta la vita?”. Già, come fanno?

Poi c’è un libro con un titolo bellissimo e delle storie belle, tutte intrecciate tra loro. Se nessuno parla di cose meravigliose. Un rischio da scongiurare, certo.

C’è anche la voce di una cantante sfortunata, spentasi una decina d’anni fa quando aveva la mia età. Rincorro con la chitarra il ritmo dolcissimo di una sua ballata (una cover) e scopro un accordo nuovo, rotondo, pulito. Devo ringraziare un vecchietto che me lo insegna imbracciando il suo strumento su YouTube, e sembra divertirsi parecchio.

Infine ci sono i pensieri da pensare, le lettere da scrivere, i ricordi da ricordare. Il mostriciattolo di plastica, in piedi davanti al mouse, strizza i quattro occhi e mi fa segno di cliccare, di postare.

Ché tutto scorre, e quel che sarà sarà.

Standard
Le storie di Scuolamagia, Stream of consciousness

Aura

La prima  volta ero in seconda liceo. La Prof. mi chiede di leggere un capitolo dei Promessi sposi e sono costretto a dirle che proprio non posso. In realtà da qualche minuto sto pensando che tutto sia finito. La giovinezza, la vita, tutto.

Poi ci sono state tutte le altre volte.

La volta prima dell’esame di maturità, a causa dell’esame di maturità.

La volta a Trieste, davanti all’università, e lì la colpa son sicuro che era del vento.

La volta prima dell’esame di Storia delle dottrine politiche.

La volta prima di dare Storia dell’arte veneta.

Le volte al sindacato, quand’ero un obiettore di coscienza.

La volta che mi sono svegliato e ho detto non è possibile, succede anche nel sonno.

La volta che avevo appena fatto gol ed ero pure tutto fiero del gol che avevo fatto.

La volta che in classe stavo parlando di commercio equo e di sperequazioni economiche planetarie.

La volta che stavo suonando e cantando una canzone di Guccini, da allora mai più nemmeno ascoltata.

[Poi ho conosciuto G. e ho scoperto che succedeva anche a lei. E succedeva forte. E succedeva a scuola, perché io di G. ero il professore di italiano, storia e geografia. G. che sotto il banco aveva il “quaderno dei mal di testa”, diario delle sue cefalee auree. Capitava di vedere i suoi occhioni riempirsi di lacrimoni pesanti, e di notare come – esattamente come nel mio caso – non trovasse le parole per dirlo, quello che le stava accadendo. Uscivamo dall’aula, cercavo per lei il posto più adatto, comodo e buio. E silenzioso. Telefonavo alla famiglia e mi sedevo al suo fianco. Le tenevo forte la mano, le accarezzavo la fronte, le asciugavo le gocce dalle guance. Cercavo di distrarla con le parole, la portavo lontano colle parole. Una volta mentre la accudivo così m’ha detto lo sa che lei per me è come un padre? No, G., non dire cazzate, sono solo uno che c’è passato prima di te. No, insisteva, lei per me… No, G., no… E giù a discutere… Sì, no, sì, no… benissimo, intanto passavano i minuti, la mamma si avvicinava e si raggiungeva la soluzione compromissoria: fratello maggiore e non ne parliamo più.]

La volta che era ieri. E la tastiera del telefonino non ha più voluto dirmi che ora fosse. E si è sdoppiata, si è persa tra bagliori e brillamenti sempre gli stessi, sempre inequivocabili. Per un’oretta, poi passa, poi capita di salutare certe fitte nella testa come una liberazione. So che c’è chi ne soffre e la sa vivere come una semplice emicrania. Io esagero, lo ammetto, e sto in ansia per almeno un mese, dopo…

Ecco, questa sarà la volta che dopo ho fatto un post.

Standard
Soletta, Stream of consciousness

Che bel

La commessa ha mani rapide e sguardi concentrati, nel piccolo supermarket della località turistica. Sta alla cassa ma è tutta un fremito, ruota il collo di centottanta gradi frustando l’aria coi capelli raccolti a coda. È bella, “di una sua bellezza acerba”, di una grazia palesemente imbrigliata in una divisa fin troppo austera. Avrà 25 anni e le parole che dice sono condite con l’accento delle sue parti. Tanto, condite. Tocca  a me. Passano le pesche. Bip. Passa il sugo. Bip. Passano il pane e il prosciutto cotto. Bip bip. Passano le altre verdure, passa il dentifricio. Bip bip bip. Passa infine Tre voli di Chiara Zocchi, romanzo, edizione economica, Garzanti Elefanti, sottotitolo: “la storia di tre tipi di amore: il finto amore, l’amore ideale, l’amore vero”, la copertina blu con una grande nuvola bianca. Un libro che già possiedo nella sua prima versione rilegata e ambiziosa, un libro che ho già letto, ma che mi ha fatto così tanta pena, lì su quello scaffale così disordinato, solo tra tanti Federichimoccia, un Brunovespa e i mille comici di Zelig. Niente bip, per i libri bisogna digitare un codice. Quelle mani agitate sembrano trovare finalmente pace, dieci polpastrelli aderiscono al cartoncino, fanno frusciare la carta, accarezzano la nuvola. Due occhi e duecento lentiggini mi colpiscono forti e sfrontati, una voce e un sorriso mi dicono tutta la loro invidia:

«Oh dio che bel ch’el à da èser quel liber qua…».

Standard
Res cogitans, Soletta, Stream of consciousness

Capricci

Arriva finalmente il giorno di leggere Luigi Meneghello, Libera nos a Malo.

 

Le balie nostre venivano da un paese lontano detto Arquà, molto più povero e piccolo del nostro, dove c’era una gatta chiamata Petrarca alla quale avevano fatto anche un monumento. La mia bambinaia era la Ernestina, ed è tra le prime cose al mondo che ricordo. Era una cosa molto bella.

La Ernestina e io in granaio facevamo la rivista dei giocattoli rotti; c’era un bel tramonto, e mi sentivo felice.

«Mi sono molto goduto oggi,» dissi alla Ernestina. Lei si felicitò con me per la bella giornata.

«Questo giorno qui lo voglio di nuovo domani,» dissi. La Ernestina disse sorridendo che anche domani sarebbe stato un bel giorno. M’insospettii e dissi freddamente:

«Io voglio che torni questo giorno qui».

«Questo giorno qui ormai è passato,» disse la Ernestina, «domani ne viene un altro.»

Mi rivoltai come un forsennato, intravedevo che c’era di mezzo una specie di regola intollerabile, la Ernestina non ne aveva colpa ma la graffiavo urlando: «Voglio che torni questo giorno qui! Questo giorno qui! Questo giorno qui! Voglio che torni!». Niente da fare.

 

Se ve lo state chiedendo da anni o se ve lo siete chiesti anche una volta sola, a cosa serve la letteratura…

A chiudere un libro, serve, non prima di averne sottolineato dieci righe con la matita, e correre ai giorni che replicheresti all’infinito. Sono due, tre, massimo quattro, in ogni vita. Puntare i piedi, impuntarsi, frignare duro, fare i capricci, ché quei 19 dicembre, quei 17 aprile, quei 20 agosto son roba tua e la rivuoi indietro. Subito.

(Poi ci sono quei blog che chiederebbero ai lettori: e voi, c’è un giorno che vorreste ricominciasse daccapo?)

Standard
Piccola posta, Tutte queste cose passare

Ladra di vento

PPzingara

Quanto tempo ci vuole perché nasca un pregiudizio? Perché si insinui il viscido pesce nelle orecchie? Quali e quanti bambini sono stati davvero rapiti dalle zingare? Perché non ce li hanno mai mostrati, perché non conosciamo i loro nomi? Nella mia memoria, tra i tanti cantanti, i tanti tennisti, i tanti poeti tristi e statisti e brigatisti ci starebbero due nomini così, no? Marcellino e Paolina, opplà, e giuro che non me li dimentico più. E invece no, non ci sono. Allora io vorrei imparare il nome della zingara che s’è fatta due giorni di prigione perché noi italiani siamo un popolo di santi poeti e stupidi. E viviamo di pane e studioaperto. Scusaci tanto, A. D., e prendi questa mano…

Standard