Cineserie, Le storie di Scuolamagia, Res cogitans, Stream of consciousness

Shanghai ghetto

In coda al mio viaggio una piccola parentesi a Shanghai. Ogni anno in classe, mentre parlo ai cuccioli di terza di urbanesimo e megalopoli, ci divertiamo a disegnarne lo skyline. Loro sul quaderno di geografia, io sulla lavagna o dove capita. Per questo mi è sembrato quasi di tornarci, a Shanghai, più che di arrivarci. Tornare in un luogo conosciuto in un viaggio di gesso e cancellino, di gomma e grafite, paradossalmente un viaggio quasi più preciso di certe occhiate che si possono lanciare dal finestrino di un taxi imbottigliato nel traffico.

Compito davvero improbo, visitare una metropoli del genere in un arco di tempo ristrettissimo. Si impongono delle scelte, bisogna individuare delle priorità. Ecco allora riemergere il ricordo di alcune letture, più o meno lontane nel tempo. Ecco allora i contorni di una storia tragica e suggestiva, e il suo teatro in cui andare ad immergermi.

La vicenda dei 30.000 ebrei in fuga dall’Europa della fine degli anni 30, accolti dalla città cosmopolita che sta attraversando gli ultimi scampoli di una sorta di età dell’oro, prima di sprofondare nel baratro della guerra e dell’occupazione giapponese.

ghetto2

A Shanghai esiste un ghetto ebraico, un quartiere che prima di diventare una prigione era stato definito “Piccola Vienna”, un pezzo di Mitteleuropa trapiantato sulle rive del fiume Huangpu.

Un taxi mi porta dall’albergo fino alla Zhoushan Road, attorno alla quale sorgeva e brulicava di vita il ghetto, all’interno del distretto di Hongkou. L’autista è stupito del mio interesse per un’intera strada, una destinazione che gli sembra indefinita e vaga, senza numeri civici, senza un edifico specifico – uno shopping mall, un museo, un ristorante – da raggiungere.

Ghetto3

Le piccole abitazioni, sottratte agli ebrei e affidate a famiglie cinesi dopo la vittoria dei comunisti nel ’49, sembrano davvero raccontare un tempo lontanissimo. Costruite all’inizio del secolo scorso dagli ebrei di Shanghai – ebrei russi in fuga da pogrom e persecuzioni varie – sono riuscite a sopravvivere alla schizofrenia architettonica che ha stravolto (e stravolge…) la città, ormai ridotta ad un istrice di grattacieli.

Negli anni 40 il quartiere fu in grado di assorbire l’ondata di profughi provenienti dal cuore del vecchio continente. Dal 1942 le sorti del conflitto mondiale lo fecero diventare un vero e proprio ghetto, la comunità seppe stringere i denti e stringersi negli spazi, ignara di Auschwitz e della soluzione finale. La “puttana d’oriente” fu la sua salvezza. 

Incontro Peter, la guida che accompagna i visitatori all’interno della sinagoga e del museo allestito nel ghetto. Peter è poco più di un ragazzo, è cinese e studia storia all’università di Shanghai. È un volontario e fa qualcosa di simile a quello che tanti suoi coetanei in maglietta blu stanno facendo a Pechino per le Olimpiadi.   Lui lo fa per la memoria, anche se non  nasconde un po’ di invidia per gli angeli che stanno vegliando sugli eventi della capitale.

Peter parla un inglese elementare ma impeccabile, ma soprattutto indulgente nei confronti del mio. Gli chiedo se sa che a Pechino (a Shanghai non so…) nei negozi si possono acquistare T-shirt con la svastica, gli chiedo se è un fenomeno diffuso tra le nuove generazioni cinesi… Mi risponde che il “nazi style” piace molto ai giovani, ma che si tratta soltanto del fascino esercitato sull’uomo dalla violenza e dai fatti cruenti. In realtà, i cinesi vecchi e giovani non sanno, conoscono a fatica gli eventi della loro storia, figuriamoci quella degli altri popoli.

Ghetto

Con me e Peter tra le sale del museo c’è un’anziana coppia di ebrei americani. Sono in vacanza, hanno le mascotte di Beijing 2008 sulla maglietta, ma ad un salto a Shanghai non hanno potuto rinunciare. Guardare i loro volti mentre l’olocausto brucia sulle pareti – nei video d’epoca, nei documenti fotografici: soltanto questo è un’esperienza. Peter se ne accorge e mi chiede: “ma tu non sei ebreo?”. No. “ E allora perché sei venuto qui?”. Brutta domanda, e cattivo segno. Peter è ammirato, gli sembro una specie di pioniere, mi dice che potremmo diventare molto amici, io e lui.

Saluto la coppia americana, lei sospira sapendomi arrivare da un luogo non troppo lontano da Venezia. “Oh, Venice…”.

Esco dal museo e sono solo. È ancora Zhoushan road, sono ancora quelle mura. Non ho fretta, parlo ancora un po’ con loro e con la loro storia perduta nell’indifferenza della città.

Standard