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A ciascuno la sua BUONA IDEA

Bevevano un caffè davanti alla macchinetta, uno di quei gesti che ci rendono uguali, ché tutti abbiamo in tasca qualche spicciolo, ché tutti abbiamo voglia di un caffè. Due uomini maturi, due dentisti, professionisti all’interno della stessa clinica. Ho osservato la loro pausa sfogliando una rivista nella grande sala d’attesa.

Bevevano un caffè e chiacchieravano. Parlavano come tanti di cose economiche. Sembravano pure capirle, al contrario del voyeur che li spiava fingendo di leggere “Vanity Fair”. Le tasse, mannaggia, che aumentano sempre, e certi investimenti che son diventati rischiosi, e poi in generale il Paese che sembra respingere chiunque dimostri spirito di iniziativa e mentalità imprenditoriale. Visto il momento storico, varrebbe veramente la pena di riconsiderare quel vecchio progetto. Ci sarebbero quelle isole – non ho nemmeno capito quali, in quale arcipelago, in quale mondo – dove rifugiarsi dopo aver mandato tutto a fare in culo. Laggiù è facile. Laggiù una villa affacciata sull’oceano la porti via con poco. Laggiù fa sempre caldo e anche la situazione politica sembra essersi stabilizzata, non è più il tempo delle rivolte e delle rivoluzioni. Laggiù la servitù ti serve per davvero. Laggiù piazzi l’amaca tra due palme e non fai più un cazzo. Sì, laggiù puoi proprio smettere di lavorare, quello che hai messo da parte basta e avanza per vivere da pascià, l’hanno già fatto in tanti, cosa credi. I più furbi, non rimane che raggiungerli. C’è solo un problema, non marginale: la sanità. Nonostante il rapido sviluppo, quei luoghi non hanno ancora colmato tutti i gap. Se salta una valvola cardiaca, da quelle parti si va all’altro mondo e la gente se ne fa una ragione. Ecco, quello è un problema. Forse bisogna aspettare ancora un po’, e riparlarne, magari nella pausacaffè.

Sono rientrati nelle rispettive stanze, a incapsulare canini, a devitalizzare molari. Io tornando a casa ho ascoltato cento volte questa canzone nuovissima. “Mi basterebbe essere padre di una buona idea”. A ciascuno la sua…   

 

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Io e Lui, Jane Lui

Jane Lui è una cantautrice e musicista californiana nata ad Hong Kong. Suona qualsiasi strumento le venga posto tra le mani, comprese le pareti di casa sua e i boccioni per l’acqua che si usano negli appartamenti delle grandi città, ed ha una voce stupenda. Non so nulla di lei se non quello che si può evincere dal suo canale YouTube, dai sui profili di Facebook e Twitter. Non conosco nessuno che ascolti la sua musica o abbia almeno sentito una volta pronunciare il suo nome. Anzi, ci penso in questo momento: io stesso non ho mai pronunciato il suo nome e l’ho scritto per la prima volta in questo post.

Come molti, ho incontrato per la prima volta Jane in questo video diventato presto virale ed è stato facile fare una diagnosi: “bravissima, ma al giorno d’oggi se si vuol campare di musica o ci s’inventa qualcosa di geniale o ci si attacca al tram”.

Il teatro in cui questa poliedrica artista si esibisce, a qualsiasi ora del giorno e della notte, è YouTube, dove i suoi video catturano per simpatia, dolcezza, originalità, romanticismo, mestiere.

Però, lavorare in questo modo alimenterà ancora per chissà quanto tempo i pregiudizi del pubblico e opere ispiratissime finiranno inevitabilmente nel calderone del dilettantismo allo sbaraglio. Una vera ingiustizia per chi possiede talento e magari ha pure studiato un sacco.

Ne ho avuto la conferma ieri, quando Jane Lui si è rivolta ai suoi utenti con una lettera accorata. Al giorno prima risaliva la pubblicazione della sua ultima creatura: un medley di brani hip hop/rap interpretati da 4 suoi giovani collaboratori con le voci di un nutrito numero di celebrità vere o di cartone, vive o morte, da George W. Bush alla rana Kermit, da Richard Nixon a Woody Allen.

 

Una cavalcata musical-cabarettistica di 6 minuti e 13 secondi in cui fa capolino ad un tratto l’imitazione muta e tremendamente riuscita dell’astrofisico Stephen Hawking. Causa, quest’ultima, di una serie di reazioni indignate da parte dei primi fruitori del video, nonostante il geniale scienziato abbia spesso messo in gioco il suo sense of humour, comparendo ad esempio negli episodi dei Simpson e – addirittura in carne ed ossa – nella serie di successo Big Bang Theory.

Insomma, in nome del politicamente corretto alcuni americani hanno reagito rumorosamente e Jane Lui, regista e arrangiatrice del video, c’è rimasta male.

 

«Prima di tutto, come arrangiatrice / regista del video, vorrei assumermi personalmente la responsabilità per il mio amico, Spencer, che ha fatto l’imitazione. Sono stata io a scegliere personaggi e canzoni, e mi assumo la mia piena responsabilità nell’affrontare questa discussione e queste scuse».

 

«Mi rendo perfettamente conto che il fatto che non fosse mia intenzione ferire nessuno non ha nulla a che fare con l’effetto finale di questa scelta che ho fatto. Il fatto che  sia stata percepita come offensiva merita tutta la mia attenzione e una risposta. Quindi sono qui per affermare che sono profondamente dispiaciuta».

 

«Alcune persone con cui ho parlato mi hanno detto: “Non sei la prima persona ad aver scherzato su questo” o “Ci sono state imitazioni molto più crudeli su altre celebrità”, ma non credo che ciò mi esenti da delle scuse sincere, e dal riconoscere il male che posso aver provocato – anche perché “ripetere un modello solo perché c’è stato qualcosa di peggiore” è il motivo esatto per cui la discriminazione di perpetua, e da ciò ho imparato che posso essere più sensibile e attenta nel mio approccio».

 

Jane ha fatto quindi un passo successivo. Ha aperto un dibattito pubblico, per dare voce a tutte le opinioni, dicendo che avrebbe eliminato il video dalla rete nel caso la maggioranza degli utenti l’avesse democraticamente sancito.

 

«Anche nel caso prevalessero gli apprezzamenti per il video, sono profondamente dispiaciuta per la scelta che ho fatto che può aver causato dolore a qualcuno. Sto imparando ogni giorno ciò che significa essere più attenta nelle mie scelte e a tutte le interpretazioni delle stesse, sto imparando che ho la responsabilità davanti al mio pubblico di comportarsi rispettosamente, mostrando compassione e lavorando senza sosta verso una maggiore integrità creativa».*

 

Tutto molto onesto e anglosassone, direi. Se provo a immaginare la stessa situazione nel mio paese vedo gente che propone la gogna per l’artista blasfemo e l’artista che piange per essere finito tra le maglie laceranti della peggior censura. Un meccanismo che si inceppa al primo sassolino negli ingranaggi e non riparte. Non si mette in discussione, come ha dimostrato di saper fare una grande cantante che sa imitare perfettamente il Diavolo della Tasmania.  

*Il pensiero di Jane Lui è stato tradotto – fifty fifty – da Pozzanghera e da Google. 

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Le ragazze di pagina 16 e 17

La ragazza di pagina 16 cammina sicura. La mano in tasca è innaturale e forse serve soltanto a far capire che c’è, una tasca. Ha possenti bracciali e stivali fiammanti: accessori da supereroi.

La ragazza di pagina 17 è ferma sulla soglia della casa d’appuntamenti in cui lavora. È truccata e sfoggia orecchini appariscenti.

La ragazza di pagina 16 ha lo sguardo da dura, proporzionato al suo incedere determinato.

La ragazza di pagina 17 accenna un sorriso e sembra quieta, in pace.

La ragazza di pagina 16 ha i capelli nel vento.

La ragazza di pagina 17 ha la testa coperta da un velo, ma davanti scappano rigogliose manzoniane “ciocchettine di neri capelli”.

La ragazza di pagina 16 fa la modella. Nella fattispecie sta posando per la griffe LALTRAMODA (www.laltramoda.it).

La ragazza di pagina 17 è la protagonista di un reportage dal Bangladesh di Ettore Mo (non leggo abitualmente il “Corriere”, ma mai trovato un suo pezzo che finisca lì, che non abbia la dicitura “continua…”), e fa la sex worker, la prostituta.

La ragazza di pagina 16 con tutta probabilità sta attenta alla linea e ha una gran paura di ingrassare.

La ragazza di pagina 17 prende abitualmente l’Oradexon, una cow pill, una pastiglia per le vacche. Dona in poco tempo rotondità inaspettate, quelle che piacciono ai clienti di quella parte del mondo. Si dà ai bovini perché ingrassino in fretta. Agli umani provoca diabete, sfoghi cutanei e atroci mal di testa.

La ragazza di pagina 16 e la ragazza di pagina 17.

Il caso ha voluto che si guardassero stamattina sulle pagine dello stesso quotidiano. Impossibile non notarlo. È proprio così: si scrutano, da pagina 16 a pagina 17 e viceversa. Si può tirare una linea con la squadretta, da occhi ad occhi.

Nessuna morale, nessuna considerazione sulla “globalizzazione dei diritti” questa sconosciuta.

Solo un quadretto, una piccola illuminazione. Prima di continuare con pagina 18.

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“L’hanno prossimo mi metteranno l’aria condizionata”

Giuro che non si tratta di deformazione professionale. Quando correggo non sono uno spietato cacciatore di errori, ho fin troppi dubbi attorno a una miriade si misteri grammaticali e se due opzioni linguistiche per un istante mi sembrano in conflitto, prefiguro immediatamente una soluzione che le contempli e le accetti entrambe, senza nemmeno scomodare il vocabolario.

Sono uno di quegli insegnanti a cui capita che gli alunni dicano: “ho dimenticato un accento e non te ne sei accorto”. Rispondo sempre in maniera diversa – “l’ho fatto apposta, per vedere se te ne accorgevi tu…”; “mi scuso e corro a firmare la mia lettera di dimissioni”; “è colpa della tua calligrafia incomprensibile, vedi, quella virgola mi sembrava un accento…”; “esiste una variante trecentesca senza accento, la usa anche Dante”; “quanto vuoi per insabbiare questa storiaccia dell’accento? Se lo sa tua madre sono rovinato…” – e non ci penso più.

Nei libri, però, gli errori non li sopporto. E capita sempre più spesso. E il più somaro, nella classe (casta?) degli editori, è senza ombra di dubbio Einaudi. Vabbè “STILE LIBERO”, ma così si esagera! L’avreste detto, Einaudi, così ordinato, con quel grembiule bianco e lindo, lui così di buona famiglia. La colpa non è degli scrittori, molto spesso sono infatti le opere tradotte le più lacunose.

Uno si affeziona a Chloe, ragazzina di strada dal tragico passato. Si affeziona soprattutto a sua sorella Camille, vittima delle peggiori violenze, personaggio di una feroce vitalità. Trova interessante lo psichiatra che si fa carico di entrare nella mente della protagonista, fino a riuscirci. E quando i due – medico e paziente – sono uno di fronte all’altra nell’ultimo breve capitolo, nello stanzino di cui hai quasi imparato a sentire il caldo asfissiante, ecco…

Non può finire così…

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Nino si chiamava

Dopo il libro più bello dell’estate, sicuramente quello più originale. Già il genere: una fantabiografia. Vita e pensieri verissimi raccontati con disegni stranianti: un uomo gigantesco raccontato a fumetti come fosse un bambino infinito, un po’ Peter Pan, un po’ (anche nel tratto) Piccolo Principe. Tante le cose imparate, altrettante le sottigliezze che, purtroppo, credo mi siano sfuggite.

In una parola: emozionante.

 

Carissimo Delio,

mi sento un po’ stanco e non posso scriverti molto. Tu scrivimi sempre e di tutto ciò che ti interessa nella scuola. Io penso che la storia ti piace, come piaceva a me quando avevo la tua età, perché riguarda gli uomini viventi e tutto ciò che riguarda gli uomini, quanti più uomini è possibile, tutti gli uomini del mondo in quanto si uniscono tra loro in società e lavorano e lottano e migliorano se stessi non può non piacerti più di ogni altra cosa. Ma è così? Ti abbraccio.

 

Antonio

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Il badminton spiegato a Gramellini

«E quelle che prendono a racchettate un volano come bambini sulla spiaggia. Perché il volano sì e il calciobalilla no? E il flipper? E il vecchio caro ruba-bandiera?».

Massimo Gramellini, il Buongiorno, 10 agosto 2012

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Gramellini, vieni con me. Sì, è lontano, lo so. Fa pure caldo, ma giuro: facciamo presto. Ecco, siamo arrivati. No, non guardare in su. Lo so che quel grattacielo sembra non finire mai e conficcarsi direttamente nelle nuvole, ma non siamo qui per quello. Giriamoci attorno, al bestione di vetro, cemento e acciaio. Proprio qui, ecco, dove quasi nascosti brulicano di vite questi palazzoni metropolitani. Veri e propri formicai, con migliaia di magliette colorate a stendere e le biciclette a riposo sui terrazzi. No, non fare quella faccia, non è un postaccio come sembra. C’è un sacco di vita. Guarda laggiù, c’è qualcuno che frigge spiedini sul marciapiedi. Quasi tutti si fanno aria con il ventaglio mentre ciabattano nei cortili. Ci sono anche gli anziani, quelli che non osano affrontare lo stradone grande, quello del grattacielo; ci sono pezzi di città a cui hanno rinunciato: troppe auto, troppa fretta, e i riflessi non son più quelli di una volta. Ma lo senti quel rumore, Gramellini? No? Allora sbircia laggiù. Sì, esatto: volani. Volani e racchette. Tanti? Sicuro, guarda da quella parte, altre 4 coppie di atleti. Li chiamo “atleti”, sì, anche se quel signore avrà 70 anni e sua moglie è molto distante dal peso forma. Però hai notato lo stile? I passetti all’indietro, la rotazione del braccio. Immagina una massaia di Voghera fare 10 palleggi con un pallone da calcio; fidati, il paragone ci sta. E quella coppia, saranno due giovani fidanzati o saranno fratello e sorella? A Gramelli’, dico a te, non facevi “la posta del cuore” sui giornali, una volta?

Ovvio che ci sono anche i bambini: quello laggiù gioca col nonno, quei due invece sembra che si stiano sfidando all’ultimo sangue. E la bimba: ha i capelli tagliati come Xie Xingfang, una star del badminton cinese, la moglie del campionissimo Lin Dan… Sì, bravo, i Pellegrini-Magnini del Celeste Impero. Ottima sintesi da giornalista paludato. Insomma, volani a destra e sinistra, mentre fa buio e la scarsa illuminazione decisamente non aiuta i giocatori. Né noi che li spiamo. Ma li senti come ridono e se la spassano, Gramellini? Prova ad ascoltarli tutti, adesso. TUTTI. Perché in tutta l’Asia, mica solo qui a Pechino, sono milioni. Centinaia di volte il numero di quelli che ogni giorno, sulla terra, salgono su una pedana per praticare la scherma, lo sport che fa battere forte il tuo italico cuore.

Ecco perché ci sono anche loro alle Olimpiadi. Ma occorreva venire fin qui? Dai, raccogli quella racchetta che facciam due tiri. Col volano, sì, con cosa se no? Cosa vuol dire non son capace. Io invece mi chiamo Lin Dan, vero?

Sì, Gramellini, ridono. Di noi. Bonariamente, ma ci stanno sfottendo. Siamo ridicoli, come due bambinoni sulla spiaggia.  

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Solo FORZA PURA, nessuna FORZATURA

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Il giornale su cui scrive Aldo Cazzullo è lo stesso su cui scriveva Pier Paolo Pasolini. Uno che amava le posizioni scomode, uno che capovolgeva i punti di vista. Facile dire oggi quanto vedesse lontano, quanto le sue parole fossero profetiche. A quelli che c’erano già, probabilmente gli editoriali del poeta facevano venire la gastrite, o dei gran giramenti di balle.

Aldo Cazzullo, turbato forse dagli eccessi retorici di qualche collega, ha detto la sua sulla partecipazione di Oscar Pistorius alle Olimpiadi londinesi provando a pasolineggiare. Risultando decisamente più cinico che profetico.

Già dall’incipit è evidentemente “in posa”.

«Vi è parso che la presenza di Pistorius alle Olimpiadi fosse una bella storia innestata su una forzatura? Non siete gli unici. Sono d’accordo con voi».

Sa di mentire, il giornalista. Sa che l’opinione pubblica – più o meno a conoscenza della vicenda sportiva dell’atleta sudafricano – non ha affatto maldigerito quella presenza sulla pista, sa che certi dubbi da tempo non li solleva più nessuno e che forse può convenire a lui, risollevarli, sul giornale della domenica.

Fin qui tutto lecito, è compito della stampa pungolare i lettori e non grattar loro sempre e puntualmente il pancino. Sono le argomentazioni messe in campo nelle righe successive, a rendere pessimo il pezzo di Cazzullo.

Sulle questioni “tecniche”, sulle presunte distorisioni ai regolamenti di gara che la partecipazione di Pistorius provocherebbe, ha fatto per l’ennesima volta chiarezza Claudio Arrigoni

Ma c’è dell’altro: l’inviato del “Corriere” sente puzza di marketing. Pistorius ha degli sponsor che in questi giorni più del solito lucrano sulla vicenda umana del quattrocentista. Buongiorno Cazzullo! Benvenuto sul pianeta terra. Il giornalista pochi giorni fa ha elogiato con enfasi (e a ragione!) le gesta di Velentina Vezzali; se tuttavia applicasse lo stesso arido cinismo al caso della schermitrice jesina, giungerebbe alla conclusione che la nascita del celebrerrimo piccolo Pietro, 7 anni fa, fosse finalizzata alla creazione del mito dell’atleta-mamma, funzionale all’immagine della barretta ai cereali, leggera e nutriente, del marchio Kinder. A noi piccoli pasolini non la si fa. Sia dunque vietato agli atleti disabili di firmare contratti di sponsorizzazione (vade retro, Satana!) con chicchesia, e già che ci siamo alle madri spadaccine di figliare.

Sfugge inoltre a Cazzullo, il messaggio che Pistorius lancia quotidianamente al mondo dei disabili (sommati “la terza nazione del mondo”, per citare la suggestiva metafora di un bel libro), e invita tutti a guardare piuttosto all’esempio del ministro tedesco Schaeuble. Il giorno che un ministro dell’economia disabile si affaccerà sulla scena politica italiana, tuttavia, Cazzullo-Pasolini ci dirà che stiamo cedendo a qualche misteriosa forzatura.

Il perché secondo me Oscar Pistorius avesse diritto di partecipare alle Olimpiadi l’ho scritto 4 anni fa, alla vigilia di Pechino 2008. Non ho cambiato idea.

Come segnala Arrigoni, sulle pagine dei social network con cui l’atleta sudafricano comunica con i suoi tanti fan e follower non campeggiano soltanto i baffetti dello sponsor e nemmeno i suoi slogan ammiccanti. (Altra furbata di Cazzullo: “nothing is impossible”, usato nel suo articolo, non appartiene alla Nike di Pistorius, bensì, come sanno i ragazzini, all’Adidas. Ma all’autore serviva la parola “impossible”, e quindi l’unica soluzione era imbrogliare, operare – lui sì – una piccola forzatura: Just do it).

C’è una foto. Che la dice lunga. Lunghissima.

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Once upon a time, Tirunesh Dibaba

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Tirunesh Dibaba sta sul palmo di una mano.

Il problema, dopo averla raccolta, sulla linea del traguardo, è che ricomincerebbe a correre, risalendo l’avanbraccio e il braccio come fossero altipiani.

Tirunesh Dibaba quello fa, corre. Anche dopo aver trionfato, abbraccia qualche collega – senza trasporto,  di corsa – riceve una bandiera dell’Etiopia e ricomincia a mulinare le gambe. Il volto è impassibile, sta volando sulla prima corsia, ma l’espressione è quella di una bambola antica appoggiata sopra un letto.

Tirunesh ieri sera ha fatto qualcosa di straordinario, ma non se l’è filata nessuno. Solo qualche lancio d’agenzia. Nessuno che raccolga la sua storia. La poesia l’ho vista solo io e confesso di sentirmi solo.

Tirunesh Dibaba forse non esiste, forse è una fata che compare solo a me, come in un sogno, tra uno scampanìo da ultimo giro di pista e un “c’era una volta” con la voce di Franco Bragagna. 

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Sottolineando il libro dell’estate

La caccia al libro dell’estate. Quasi uno sport olimpico. Vincenti e perdenti, sorprese e vecchie glorie. In gara: l’alto profilo contro il basso profilo, la scrittura veloce contro la scrittura lenta. Discipline: dal noir individuale al porno-soft a squadre. Eroi: osannati dalla critica, plurimedagliati nei concorsi letterari e primatisti nelle classifiche di vendita. Sulle pagine culturali gli oculati consigli degli scrittori, in quelle pubblicitarie le offerte speciali degli editori.

Poi però a chinque – da sempre, anche al di fuori di quel circo – capita davvero di pensare: questo è il libro più bello che ho letto, quest’estate.

A me è capitato stamattina alle 10.00. Appena richiuso il volumetto iniziato ieri sera tardi. Una sessantina di paginette di quello che non è un romanzo e non è un saggio. Perché è semplicemente una lettera. Una lettera d’amore, più precisamente. L’ha scritta un uomo alla donna della sua vita, per raccogliere un’ultima volta il senso di un amore e per dirle semplicemente “io se non ci sei tu, da solo non ce la faccio”. Non è però una questione di solitudine, di assistenza nella malattia (è Dorine, il destinatario, ad essere ammalata), di sostegno reciproco. È qualcosa che ha a che fare con il SENSO, con il FINE di due vite quando si ingarbugliano così strettamente. E con la FINE, mannaggia alle parole quando sembra che ti prendano in giro.

Basta chiacchiere, spazio alle piccole prede della mia matita, mai così messa alla prova da quando sono diventato un sottolineatore compulsivo.

 

«Stai per compiere ottantadue anni. Sei rimpicciolita di sei centimetri, non pesi che quarantacique chili e sei sempre bella, elegante e desiderabile. Sono cinquantotto anni che viviamo insieme e ti amo più che mai. Porto di nuovo in fondo al petto un vuoto divorante che solo il calore del tuo corpo contro il mio riempie».

 

«Ho bisogno di ricostruire la storia del nostro amore per coglierne tutto il senso».

 

«Avevo l’impressione di costruire con te un mondo protetto e protettore».

 

«Non avevi un posto tuo nel mondo degli adulti. Eri condannata a essere forte perché tutto il tuo universo era precario. Ho sempre sentito la tua forza e insieme la tua latente fragilità. Amavo la tua fragilità dominata, la tua fragile forza. Noi eravamo entrambi figli della precarietà e del conflitto. Eravamo fatti per proteggerci reciprocamente dall’una e dall’altro».

 

«Semplicemente mi avevi dato la possibilità di evadere da me stesso e di installarmi in un altrove di cui eri la messaggera».

 

«”La tua vita, è scrivere. Allora scrivi”, ripetevi. Come se la tua vocazione fosse di confortarmi nella mia».

 

«Ho fatto a tua insaputa una tua foto, di schiena: cammini con i piedi nell’acqua sulla grande spiaggia di La Jolla. Hai cinquantadue anni. Sei meravigliosa. È una delle immagini di te che preferisco».

 

«Tu eri ed eri sempre stata più ricca di me. Ti sei schiusa in tutte le tue dimensioni. Eri a tuo agio nella tua vita; mentre io avevo sempre avuto fretta di passare al compito seguente, come se la nostra vita non dovesse cominciare veramente che più tardi».

 

«La notte vedo talvolta la figura di un uomo che, su una strada vuota e in un paesaggio deserto, cammina dietro un carro funebre. Quest’uomo sono io. Sei tu che il carro  funebre trasporta. Non voglio assistere alla tua cremazione; non voglio ricevere un vaso con le tue ceneri.

[…]

Spio il tuo respiro, la mia mano ti sfiora. Ciascuno di noi vorrebbe non dover sopravvivere alla morte dell’altro. Ci siamo spesso detti che se, per assurdo, avessimo una seconda vita, vorremmo trascorrerla insieme».

 

André e Dorine Gorz si sono tolti la vita, insieme, nel 2007. Dal 2006 una lettera d’amore spiegava a tutti il perché.

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Gore Vidal l’americarnico

Nel paesino dove insegno abitano un bel po’ di persone che di cognome fanno Vidale. “Vidale” è anche il nome dell’unico panificio rimasto, appoggiato alla curva da cui chi proviene dal Friuli può scorgere per la prima volta, da lontano, Scuolamagia.

Ricordavo di aver letto da qualche parte, on line, la storia di Gore Vidal che raggiunge Forni Avoltri sulle tracce dei suoi antenati italiani, e proprio in quel panificio sosta brevemente per incontrare coloro che probabilmente conservano con lui un seppur sbiadito legame di sangue.

È il 1977.

Lo zio, Michele Vidale e GoreIl divo della letteratura (e del cinema, e della saggistica, e…) indossa una giacca scura. Ha già fatto la guerra, è stato candidato al Congresso, ha sceneggiato Ben Hur, ha recitato in un film di Fellini (nel ruolo di sè medesimo), ha scritto il suo capolavoro.

È il 1977.

Quell’uomo si sveglierà ancora per molti anni con davanti un panorama mozzafiato, si divertirà a fare a fettine il suo paese, solleverà dubbi sulle dinamiche dell’11 settembre, reciterà – per interposto pupazzo giallo – in alcuni episodi dei Simpson.

Digitando il nome dello scrittore su Google, dopo aver cliccato sulla barra spaziatrice, si può usufruire dei suggerimenti del motore di ricerca, immagino basati sul calcolo statistico delle chiavi inserite con maggiore frequenza dagli utenti. “Gore Vidal Gay” viene prima di “Gore Vidal Libri”. Ci sta: fu anche una testimonianza di profonda libertà individuale, la vita di questo americano. 

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Wallenberg medaglia d’oro

Ci sono medaglie che arrivano subito, il tempo di indossare una tuta, detergere il sudore, darsi una sistemata ai capelli e approssimarsi al podio. Così presto che spesso gli atleti dichiarano: “sono andato a dormire con la medaglia, e solo il giorno dopo mi sono reso conto di avere vinto”.

Ci sono medaglie che arrivano con quasi 70 anni di ritardo. Così tardi che i premiati non possono più chinare il collo, stringere i fiori nel pugno, storcere il naso per le lacrime che spingono come piene di fiume.

Ci sono le medaglie olimpiche e in uno strano cortocircuito lessical-metaforico, nel luglio di London 2012, ci sono le medaglie al valore e alla memotia come quella che gli Usa, dopo la firma apposta da Obama, hanno deciso di dedicare a Raoul Wallenberg nel centenario della nascita.

Wallenberg, svedese, campione mondiale di filantropia, salvò dallo sterminio 100.000 ebrei ungheresi. Le enciclopedie arrotondano, va da sé, e “centomila” è il risultato di un arrotondamento che quasi banalizza il significato di un record difficilmente eguagliabile.

Si perderà in questi giorni la notizia, tra i tanti titoli dei giornali piovuti direttamente dalle piste, dai campi, dalle pedane, dai tatami. “Oro per Wallenberg” e chi lo conosce? Sarà un arciere svedese, al massimo un pesista danese, peccato per gli italiani…

Strano, ripeto, il cortocircuito. Tuttavia, portandolo alle estreme conseguenze, si può forse immaginare “quell’uomo dall’aspetto serio e ordinato, la riga di lato e un po’ di riporto: una fisionomia difficile da trasferire nel bronzo delle statue”* salire il gradino più alto di un podio speciale.

La tuta gialla e blu della Svezia e gli occhi ad ammirare i bei colori delle bandiere degli avversari, ché i filantropi son fatti inguaribilmente così.

 

*: qui da noi un ricco racconto dell’avventurosa vita di Wallenberg l’ha fatto pochi mesi fa Adriano Sofri, nell’inserto domenicale di “Repubblica”. 

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La carezza di Ilaria

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Quando si dice: “prendersi cura di un fratello”.

Quando si è primogeniti, e si guarda il segno matematico – > – dal lato opposto della punta.

Quando si misurano le parole, che ad un tratto sono diventate la cosa più importante.

Quando si sta per dire: “non volevano farci vedere Stefano, né da vivo né da…”.

Ma ci si ferma prima. Per poi continuare: “…né dopo la sua morte”.

Una frase da aggiustare in corsa.

Un’astrazione – a suo modo nobile – al posto di una concretezza che sa di rassegnazione, di distacco, di rinuncia.

Una carezza.

 

Ilaria Cucchi, in Tv, una sera d’estate.

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La mia Cina (RISTAMPA)

Esattamente cinque anni fa scrivevo questo testo, nel primo anniversario di un viaggio importante. Composto quasi di getto, con urgenza. Paga lo scotto di una certa ingenuità, ma condanna senza appello un (cosiddetto) blogger che oggi, talvolta, fatica a radunare i caratteri che servono per un tweet.  

Partire sì, ma da dove? Dal mio volo a planare, il primo di tutta una vita. Sotto di me: metropoli a perdita d’occhio. Quartieri a prima vista ordinati: il gruppo dei palazzoni gialli, le mille casettine grigie come un alveare, un fiume, una ragnatela di strade. Ma anche campi e un verde cupo. Mentre le mie ali si stanno immergendo in una foschia densissima, gusto la sorpresa di non temere il volo, né gli atterraggi né i decolli. Sarà merito dei piloti austriaci, maschere di flemma ed efficienza, sarà che i timori sono altri, in primo luogo la burocrazia dell’arrivo. I passaggi da compiere nella città-aeroporto, la rincorsa degli sconosciuti compagni di viaggio che incedono con sicurezza, poi immancabilmente persi uno ad uno. Dov’è finita la rossa con la valigia rossa? E quello col pancione? Merda, tocca affidarsi ai cartelli. Non mi stupisce – seconda sorpresa – la marea di occhi a mandorla posti sopra bocche da cui escono parole come musiche, mi sconvolge invece la scoperta dell’esistenza di scale mobili orizzontali che non salgono e non scendono, vanno e trasportano carichi umani lungo corridoi infiniti. Ma i miei piedi sono più veloci e ansiosi, stare fermo davvero non so. Recuperata la valigia e mostrato il passaporto a un buon numero di doganieri accigliati (e sudati), esco dalla città aeroportuale, varco la soglia dell’aria condizionata e mi immergo in…, nel…, nella… Insomma, mi dico, taci e nuota.

 

Quello che vedo non appena il taxi lascia la banchina davanti al Beijing International Airport non ha nessuna forma. È pura vita che scorre, un fiume di corpi, una giostra impazzita di mezzi meccanici, un flusso atomico costante senza speranza di clinamen. Vabbé, c’è un grande e incasinatissimo traffico. Diventerà un rumore di fondo, un ambiente abitudine, diventerà mio.

Quello dell’umano formicaio è il più classico dei luoghi comuni sulla Cina. Sento di fare mie e di riferire a Pechino, invece, le parole che Lisa Ginzburg, nel suo saggio sulla malìa brasiliana (Malìa Bahia, La Terza) che mi accompagna mentre scrivo, riserva e regala al paesaggio di Salvador de Bahia: “nonostante i molti luoghi affollatissimi, si ha sempre la percezione di avere intorno molto spazio. Spazio per la mente, per il corpo; per il cuore, per la maturazione delle cose. Spazio per il tempo”.

 

Da dove cominciare la mia esplorazione metropolitana? La guida in inglese che sfoglio è fin troppo generosa nel regalare luoghi e dettagli. Palese è l’imbarazzo di una scelta che non so fare, ne esco con una decisione che spiazza prima di tutto me stesso: lo zoo. Lo zoo di Pechino. Pronuncio, e mi vergogno all’istante, l’osceno calambour: Noi, i ragazzi dello zoo di Pechino.

Una costante di questo mio viaggio è l’assenza nel mio bagaglio di esperienze precedenti analoghe, utili a stabilire confronti e relazioni e misurazioni. Quello di Pechino, insomma, è il mio primo zoo e ci entro come un bambino goloso di esotiche stranezze. Osservo compiaciute evoluzioni scimmiesche, balneazioni ippopotamesche, l’agonia di animali malcustoditi (ma possono esserlo, in uno zoo, bencustoditi?). Leggo negli occhi tristi di un orso in un fossato, vedo la rabbia ruggente di un leone. La gigantesca tigre ruota su se stessa in una stanza minuscola, il folle e inarrestabile girare non ha sfondo se non nel cemento grondante di piscio. Le star della struttura, inevitabilmente, sono i panda. Per l’animale orgoglio della nazione c’è uno zoo dentro lo zoo, la Casa dei Panda, con apposito ulteriore biglietto d’ingresso e tonnellate di merchandising. Per somigliare ai dolci protagonisti del logo del WWF i panda pechinesi andrebbero lavati (sbiancati) e stirati. E dovrebbero smettere di leccarsi il culo.

Un’immagine su tutte, tra un facocero e una scolopendra: l’immagine di un umano. Una bimba adagiata su una panchina, immersa in un sonno profondissimo, immobile simbolo di una flemma che noterò spesso nei giorni successivi, quella sinica capacità di adattarsi – al momento di scivolare tra le braccia di Morfeo – a qualsiasi suolo e a qualsiasi suono. Chi accudiva il “cadaverino”, intanto, mangiava e chiacchierava nemmeno troppo vicino. Chissà quali sogni, probabilmente quelli di tutti i bimbi del mondo al cospetto del mondo animale: cavalcate di leone o bagnetti sotto la proboscide dell’elefante.

 

Spostarsi, muoversi, attraversare. Il mezzo preferito è il taxi. A Pechino un’auto su dieci è una Hyundai Elantra. Una berlinetta di poche pretese, ma piuttosto silenziosa e di norma dotata di aria condizionata. I taxisti hanno facce stanche e camicie sudate, decisamente seriosi ti guardano anche dal tesserino appeso al vetro, che li abilita al faticosissimo servizio. Fa caldo e molti hanno stipato da qualche parte il termos con il te. Le Elantra sono gialle e marrone, gialle e verde, gialle e blu. Basta alzare un dito e loro arrivano.

Della metropolitana ricordo le scalinate e le persone sedute su pavimenti indecenti. Ricordo il mocio più grande del mondo, consunto e inutile alla sua causa, una specie di piovra gigante. (Ogni luogo ha il suo mocio, in Cina: mocio da ufficio, mocio sull’autobus… Utilizzarli, poi, quello è un altro discorso…) Ricordo la ressa all’arrivo dei vagoni, il poliziotto chiamato a regolare bruscamente le salite e le discese. Ricordo le gigantografie sulle pareti, immagini d’occidente per chi sogna Beckham o stravede per Cristiano Ronaldo. Ricordo l’uomo che sale sul treno per esibire la mostruosità del suo corpo mutilato, bruciato in chissà quale tragedia industriale, sciolto da chissà quale acido. Non chiede nulla e canta (sì, canta) con un piccolo microfono la sua sete di giustizia. Ricordo la netta percezione di una società più giovane rispetto a quella dalla quale provengo. Mi rendo conto che i ritmi dell’underground probabilmente non si sposano con la terza età, ma davvero pochi passeggeri sono più vecchi di me.

Salire su un autobus (che spesso – contrariamente al taxi – è guidato da una donna) è come salire su un vascello pirata. Ti accoglie l’urlo dei bigliettai: “uomini della filibusta!!!”. Molti mezzi pubblici sono decisamente moderni e funzionali, la conservazione di 2 “vedette” abbarbicate ai sostegni metallici, con borsa a tracolla piena di spiccioli, corrisponde a politiche occupazionali che nella mia ottica di europeo paiono assurde. Avessimo mantenuto anche noi, il bigliettaio-controllore! Ci saremmo risparmiati il verbo “obliterare”.

Le grandi arterie cittadine scorrono sotto numerosi ponti pedonali. Il traffico è un fiume che non si può fermare. Come faccia un cinese in carrozzina a passare dall’altra parte me lo chiedo soltanto adesso, un anno dopo. Decisamente fuori tempo massimo. Gli attraversamenti pedonali sono tutti uguali: sali le scale, cammini sopra le macchine, scendi le scale, sei dall’altra parte. Uno di questi ponti, però, è speciale. Apparentemente è soltanto architettonicamente un po’ meno spigoloso, ma sostare un attimo sul suo camminamento orizzontale è come toccare il cuore della metropoli, sentirlo battere.

Sostiene Renata Pisu che Pechino sia la vittima di un urbicidio, ma che goda nel contempo del fascino di Maurilia, città invisibile di Italo Calvino, dove il viaggiatore “è invitato a visitare la città e nello stesso tempo a osservare certe vecchie cartoline illustrate che la rappresentano com’era prima…”. Un luogo dove il caotico e disordinato presente risulta indispensabile perchè si staglino netti i fasti del passato, perchè trovino senso. Beijing, capitale del nord, capitale della nostalgia.

 

Prosegue il viaggio, prosegue dentro una parentesi di magia. È così che sento di dover classificare la visita al Palazzo d’Estate, antica residenza imperiale: una sorta di luogo incantesimo. A discapito del nome, l’unico rammarico è quello di non esserci potuto andare d’inverno, con il lago ghiacciato, l’affluenza ridotta dei turisti chiassosi, lo skyline della città frenetica sullo sfondo silenzioso, le foglie e il vento. Le foglie e il vento, soprattutto. Salire le scale del palazzo è un privilegio non concesso a tutti, come nel caso dei Panda allo Zoo si tratta infatti di pagare un ingresso supplementare. Ridicolo pedaggio che evidentemente per i cinesi presenti in massa risulta ancora proibitivo. Sul legno laccato di fresco godo di un insperato silenzio e leggo qualche pagina dell’autobiografia di Filippo Timi, Tuttalpiú muoio. Non è il libro più adatto, mi rendo conto, ma sento forte in bocca il sapore romantico di un gesto che mi toglie d’un tratto la ripudiata patente di turista e mi regala quella della persona che voglio essere e così raramente mi accade di essere. Al mio fianco altri occhi leggono e consumano Caos calmo, che sarebbe un bel titolo anche per questo pezzo di storia.

 

Piazza Tien an men la ricordo infuocata. Il sole a Pechino non si vede mai ma c’è eccome. E fa chinare la testa, e fa agognare l’ombra. Appunto, dove la trovi un’ombra a Piazza Tien an men? Ci sono le ombre del passato, quelle sì, le immagini che hai visto ma che non ti hanno fatto mai capire davvero quello che era successo. C’è l’ombra del carrarmato e del fragile ostacolo umano capace di arrestarne l’incedere, la foto che ho fotocopiato alla classe dicendo appiccicatela sul quaderno, è un’immagine importante, è più di un’immagine, è un simbolo. Ora sono lì, e vedo i militari di guardia, immobili ed eleganti più che altrove, vedo un paio di aquiloni, vedo i raccoglitori di bottigliette vuote con il loro sacchi ingombranti, vedo i turisti americani con le magliette dai colori osceni. Fischietto o canticchio la canzone di Claudio Lolli: “…e queste rose volano, non sanno nulla della rivolta in cui si sono aperte, del sangue invaso di bandiere…”. Riconosco me stesso anche in un pensiero banale: me l’immaginavo più grande, la piazza più grande. Me l’immaginavo infinita, invece finisce…

 

Il Grande Timoniere, intanto, dall’ingresso della Città Proibita guarda e non è granché guardato. Forse gli spetta il destino di tutti gli dei in questo tempo confuso. Meglio così, e beato quel popolo che non ha bisogno di eroi.

All’interno della Città Proibita mi sento più che mai attore nella commedia del turismo. Un copione che decisamente non apprezzo. Proprio oggi leggo della chiusura del caffè Starbucks, pezzo si Stati Uniti nel cuore della vecchia dimora imperiale. È la globalizzazione, baby, vuoi mettere le catene al vento, vuoi raccogliere l’acqua con lo scolapaste? In realtà, credo sia un’altra la Cina da proteggere, da incellophanare e custodire. E poi – consapevole di rischiare l’impopolarità – difendo la torta al formaggio di Starbucks, più buona dal vivo che nei telefilm made in Usa.

 

La giovane donna possiede un’automobile di cui sembra fiera, è climatizzata e più pulita di un taxi. Tiene anche una famiglia, mentre guida risponde al telefono e impartisce indicazioni domestiche ad un figlio. Una madre, insomma, che con quella macchina di solito accompagna il bimbo a scuola, va a fare la spesa e scarrozza abusivamente viaggiatori stranieri nel loro lieto peregrinare. Un modo come un altro per arrotondare lo stipendio del marito, è sufficiente trovarsi nell’angolino giusto della città e capirsi al volo – occhi a mandorla negli occhi non a mandorla – pattuire un compenso, stabilire un orario e un luogo. Nella mia fattispecie, il luogo si chiama Grande Muraglia. Baricco è venuto a scriverci il finale del suo saggio a puntate sui “nuovi barbari”, per dire come il mondo sia cambiato e non ci sia barriera che tenga, di mattoni o di idee. Io mi accontento di vedere quello che mai avrei pensato di vedere e di trascorrere una giornata all’aperto sotto un cielo bello e blu. Forse andrebbe davvero guardato dallo spazio, il monumento serpentone, simbolo dell’identità di un popolo, per percepirne la grandezza e la follia. Probabilmente estrapolare il senso di quella lunghezza impensabile non è impresa per noi umani con i piedi per terra. Insomma, sai che dietro la montagna, dove si sfoca e si perde, la muraglia continuerà, e poi ancora, e poi ancora… Sai, d’accordo, ma non vedi, e allora sei di nuovo davanti ad un’astrazione, ad una linea che diventa tratteggiata quando il foglio sta per finire e bisogna far capire che però continua. Mi sento come Borges che voleva vedere TUTTE le formiche del mondo, e tutte in una volta. L’orizzonte è limpido, tutt’attorno alberi, colline e montagne. In certi punti le scale salgono ripide, scendendole le gambe tremano, la schiena sudata soffre le sferzate del vento che mi piace pensare venga dalla Mongolia. Sì, non può venire che da lì, da laggiù, da quel lontano che spio come Giovanni Drogo, ma senza ansia e dentro tanta pace.

Raggiunto il parcheggio sono assalito dalla “piccola violenza” inflitta alla mamma taxista. Il compenso è stabilito alla partenza, è ovviamente bassissimo e non comporta limitazioni orarie. Se le mie pippe sul tempo e le distanze, la geografia e la geometria fossero durate altre tre ore, la signora avrebbe atteso paziente messaggiando un po’ e maledicendomi forte. Lavo la mia coscienza di schiavista con una lauta mancia, secondo me Baricco non ha fatto altrettanto.

 

La Cina è un grande mercato. No, nessuna analisi macroeconomica. Puro esercizio di osservazione spicciola attraversando le brulicanti strade di Pechino. All’angolo la signora con le mani sporche di lavoro e la faccia più pulita del mondo ti offre le sue pesche esposte sul piccolo carretto. Un pezzo di Cina rurale trapiantato a forza tra i palazzoni e gli ingorghi del traffico. Da tempo, infatti, i vecchi mercati all’aperto hanno traslocato in enormi e più confortevoli strutture coperte, senza perdere la loro vitalità e il loro disordine. Inutile cercare un tentativo di coordinamento, i piccoli esercenti crescono uno sull’altro, espongono spesso gli stessi prodotti, ammiccano al cliente con le stesse esche. Un tripudio di merci, colori, odori, rumori e strilli. Qualcuno tratta sul prezzo, qualcun altro vuol provare dei jeans ed ecco la commessa improvvisare una “cabina” con uno spago e un telo, qualcuno mangia, qualcun altro dorme (dorme?). Ragazzi e ragazze assalgono le merci esposte come formiche affamate, l’acquistare è un acquistare allegro, i sorrisi non si contano. Assisto all’ebbrezza del capitalismo e alla morte del copyright. Sono testimone, però, anche della libertà di indossare una canottiera fosforescente e una minigonna ascellare. Ragazzine, ragazze e donne fanno la fila per farsi dipingere le unghie, ragazzini, ragazzi e uomini le osservano sgranocchiando una pannocchia. Il panorama iconografico sulle magliette in esposizione va da Mao a Ronaldiño, da Avril Lavigne all’immancabile Panda, dal mio Astroboy e Emily the Strange. In un cantuccio in disparte un ragazzo espone magliette con un’enorme svastica. Interpellato sul senso di quella scelta commerciale risponde che sa cosa rappresenti quell’articolo in vendita e con la faccia un po’ ebete ha l’aria di dire ‘mbeh?…    

 

Facile raccontare un monumento, un grattacielo, un fiume. Ma come si raccontano le persone? Se mancano gli strumenti – e le certezze – per scomodare categorie sociologiche, per abbozzare riflessioni antropologiche. Se troppo poco è stato il tempo che vola e ti sguscia dalle mani. Al massimo si può rivolgere lo sguardo a qualche immagine rimasta impressa nella memoria, materiale grezzo che andrebbe filtrato e setacciato con gli strumenti della Cultura. Ma questo passa il convento: soltanto le mie impressioni. Rivedo la mia Prof. del Liceo che ammonisce me e i miei compagni, in partenza per Praga, gita scolastica: “…dovete parlare con le persone del luogo, con i praghesi, altrimenti viaggiare non ha nessun senso…”. Ma Prof, e i monumenti, e le piazze, e i ponti, non basta guardare quelli? No, no, no, non bastava. Così, anche se non parlo, guardo, guardo forte, voyeuristicamente osservo tutto e registro e confronto.

Vedo ragazzi, leggeri e colorati come aquiloni, incontrarsi la sera e ridere in allegri capannelli, scherzare seduti per terra attorno a uno spiedino di carne cotta sul posto. Vedo ragazze con la gonna a fiori appese alle biciclette di giovani morosi spericolati. Vedo bambini con i culi per terra – i culi nudi – giocare a rincorrersi, giocare a spararsi. Vedo ammiratissime bambine vestite di piume. Vedo un’infanzia accudita, vedo, e anche se ho letto mille volte della tragedia dei bambini operai, bambini oggetto, mi compiaccio egoisticamente per quello che è stato risparmiato ai miei occhi.

Vedo vecchiette salutare il Sole alle 5 di mattina, vedo ginnastiche collettive intense come preghiere, seguo i passi di un distinto signore con l’hobby di tagliare il vento con la spada, tra una panchina e l’altra del parco, custode di movenze millenarie. Vedo l’anziana signora con la faccia che sembra uscita da un fumetto. Il suo viso è identico a quello di Mr. Magoo e per me diventerà la Signora Magoo. È facile incontrarla, a sera, mentre passeggia nelle vie del quartiere. È una persona minuscola, ma sembra circondata dal rispetto riservato alle autorità. Ed è in effetti una piccola autorità in quello spicchio di città: molte persone si intrattengono con lei palesando grande soggezione. Ecco, quale storia custodisce la Signora Magoo? Mi piacerebbe conoscerla, ed è bello pensare che la metropoli senza anima una Storia così non la riesce a schiacciare.

Vedo gli occhi che non mi vedono di un bambino cieco. Siede a gambe incrociate sul marciapiede davanti al supermercato. Avvolto in una giacca da guardia rossa si muove facendo ondeggiare la testa, mentre il sole affonda nelle sue orbite svuotate di luce. Ascolta il suono delle monete che ogni tanto tintinnano sul fondo del suo barattolo di caffè.

 


L’area dove si svolgeranno i momenti clou della prossima Olimpiade è situata a nord-ovest della città-cantiere. Perplesso davanti alle testimonianze architettoniche dell’antichità (si può considerare “storica” una colonna del 1300 dipinta di fresco con tanto di adesivo della ditta restauratrice?), sbalordisco davanti all’apoteosi della (post)modernità. Mi spaventa un po’, questo invaghirmi di grattacieli di cristallo e spirali di cemento, ma questo accade: percepisco la vertigine dell’uomo piccolo che crea le cose maestose. Per questo non dimenticherò mai le scintille che operai formica spruzzano aggrappati all’acciaio del Nido, l’intreccio metallico che avvolge lo Stadio Olimpico. Un disegno geometrico tanto maestoso quanto apparentemente irrazionale: nessuna simmetria, nessun centro e l’idea impossibile del movimento e della leggerezza. Una cornice perfetta in cui iscrivere l’uomo, magari l’africano che nell’estate del 2008 taglierà a braccia alzate il traguardo dei 5000 metri dentro gli occhi di tutto il mondo. La storia del Nido, fin dal suo concepimento, la racconta benissimo Fabio Cavalera, inviato del “Corriere”, nel suo Il manager dei bagni pubblici.

Pechino non sembra perseguire l’estasi di uno sviluppo verticale. I suoi palazzi non grattano il cielo, non salgono fino alle stelle. La capitale sembra si sia chiamata fuori dalla sfida alla costruzione più alta, nuova febbre asiatica da Kuala Lumpur a Honk Kong, da Tokyo a Shanghai. La capitale ha puntato sulla quantità, concedendosi magari il lusso di qualche mirabilia architettonica nella variatio del tema classico: il parallelepipedo di cemento. Il fotografo Michael Wolf – verificate su Google, mannaggia! – ha avuto la mia stessa idea e probabilmente, gironzolando per Honk Kong, ne sta spremendo quattrini.  Si tratta di mettersi davanti al megacondominio, lavorare di zoom e, soprattutto, escludere dal campo visivo tutto ciò che lo inserisce nel paesaggio: la strada, il terreno, il palazzo vicino, il cielo. Soprattutto il cielo. Per ottenere la casa alveare, la scacchiera di finestre, il labirinto verticale dove tutto sembra uguale e moltiplicato all’infinito. Il trionfo del dato antropico sul dato fisico.

Ovunque in città sorgono, al posto degli antichi hutong, immensi cantieri recintati, attivi anche di notte. Dai cancelli entrano ed escono camion scoperti colmi di operai come merci. Nel baccano infernale di saldatrici e martelli pneumatici, attorno alle cattedrali che stanno sorgendo manovalanze stremate dormono adagiate su qualche muretto aspettando il suono di una nuova sirena. Uomini – spesso poco più che ragazzi – con le facce del contadino inurbato. Assurdo pensare che quella vita senza diritti sia “qualcosa di meglio” rispetto ad un prima.

Se fossi un pittore futurista, pensando a Pechino disegnerei un paesaggio dominato dalle gru, linee rette verticali e orizzontali come luminosi tagli di spada. Se fossi Spielberg scriverei un film sulla rivolta delle gru, coi bracci meccanici impazziti a rifilare mazzate a mulinello sugli umani indifesi. Per fortuna non sono Spielberg. 

 

Il lavoro nel paese del comunismo realizzato. Realizzato e ammorbidito. E diluito. E contraddetto. E stravolto. E…

Il lavoro è ovunque, pullulano le mani occupate. Le mansioni sono parcellizzate all’inverosimile, tutti sono occupati, tutti saranno inevitabilmente lavoratori alienati. L’effetto è parossistico nei grandi supermarket: un cliente a caccia di un rasoio elettrico viene circondato da cinque solerti commessi in divisa arancione. Nel reparto alimentari l’addetta sorridente non conosce la locazione dei detersivi, l’addetta ai detersivi, d’altronde, ignora se nel grande emporio si vendano anche bilance. Nel reparto ferramenta la commessa indica gentile la scatola coi lucchetti e le rispettive chiavi. Al cliente ne servono 4 ed eccola afferrare il pallottoliere per la moltiplicazione. C’è posto anche per lei che non sa contare, nel grande mercato, e questo mi piace. Le metropoli, si sa, risolvono (?) il problema dei rifiuti riducendo alcuni cittadini allo stato di rifiuti. Quello che a San Paolo spesso è deputato ai meniños de rua, a Pechino tocca in sorte a uomini di mezza età che sembrano già vecchi. A bordo di biciclette con le ruote sgonfie e le catene afflosciate percorrono e attraversano le strade trascinando carretti stipati di cartoni, oggetti di plastica, barattolame, pezzi di legno. Alle 8 di mattina come alle 8 di sera. Ogni tanto qualcuno riposa adagiato sul suo mezzo sgangherato, sotto un albero o un’ombra qualsiasi. Attorno ai cassonetti della spazzatura stazionano a turno uomini avvoltoi pronti a raspare nei rifiuti. Il giorno della mia partenza – appena chiusa la valigia – sto gettando un vecchio pigiama dalla lunga carriera, gesto utile a limare qualche grammo al pesante bagaglio che deve andare incontro alla severa pesa aeroportuale. La mano ha già sollevato il coperchio quando due occhi circondati da una faccia senza età si frappongono tra me ed il mio gesto. Con l’aria di chi si scusa consegno direttamente il consunto capo d’abbigliamento nelle mani di quella faccia. Insieme a quel brandello di cotone è stato come se mi sbarazzassi di tutte le notti dormite tra le sue pieghe in un letto caldo e sicuro. 

 

Va scomparendo, mi auguro senza il peso di alcun rimpianto, il mestiere del guidatore di risciò. Qualche bicicletta umana, ruolo ormai relegato al folklore dei luoghi da cartolina, ha cercato nei miei occhi il consenso all’offerta di alleviare la fatica di camminare sotto il sole. Consenso rifiutato, ovviamente, ché non sarei stato più capace di guardarmi allo specchio.

In ogni ambiente lavorativo vigono le regole di un caporalato tanto spietato quanto apparentemente accettato e condiviso. Commesse e camerieri sono sottoposti ad apprendistati militareschi, vengono messi in riga davanti alla clientela (qualora occidentale: attonita) e costretti a ripetere ad alta voce gli ordini impartiti dal principale che sembra il tenente cattivo di un film sul Vietnam. Poi, finita la messinscena tradizionale e confuciana (comunque umiliante), liberi tutti e la cameriera, tra una marea di clienti, potrà tranquillamente mettere le dita nel naso.  

Altro simpatico professionista – indispensabile ingranaggio urbano – è il portatore d’acqua. Con quella del rubinetto a Pechino non è proprio il caso di dissetarsi, ogni abitazione è pertanto fornita di un apposito frigorifero con una grande boccia di liquida salvezza. Rimasti a secco basta comporre un numero e un ragazzino muscoloso (va da sé…) inforcherà il suo carretto, salirà le scale – che siano 15, che siano 1000 – e recapiterà un nuovo pesantissimo dissetante contenitore.

 

Il mio viaggio è stato anche un viaggio nei suoni e nei rumori di una città. Il rumore pesante del traffico.

 

Il rumore dei condizionatori: pressoché ogni costruzione – pubblica e privata, meraviglia architettonica o catapecchia – è provvista di impianto di climatizzazione. Quando i profeti di sventura, d’innanzi ai rischi di black out energetici nelle nostre calure estive, ammoniscono che “verrà il giorno in cui anche i cinesi vorranno il condizionatore…”, ignorano che i cinesi – come dargli torto – hanno già voluto da un pezzo.

La musica della lingua, frontiera invarcabile, aspra nella bocca degli operai che faticano al sole, dolce misteriosa nel canto che sento arrivare da lontano in un pomeriggio d’ozio. Parole come gocce di resina, parole come gocce d’acqua. Io imparo a dire “grazie”, “buongiorno”, “il conto” e “questo…” con il dito sulla figura stampata sul menù. Imparo a dire ma non vale, perché quei suoni si tratta di cantarli nella giusta tonalità.

Il suono affascinante e un po’ inquietante delle cicale (almeno credo) tra i rami degli alberi, a sera, come un sottofondo costante dei ritorni a casa.

Un mondo sonoro è fatto anche si silenzi e di rumori assenti, sottratti. Il suono delle campane, ad esempio. O quello delle ambulanze. In quasi un mese di permanenza mai una sirena e nessuna emergenza. Com’è possibile, in quel mare di macchine, in quell’oceano di gente?  

Il rumore che fanno le pagine di un giornale sfogliato. Le edicole non mancano ed espongono riviste patinate. Pochi davvero, però, i quotidiani sotto il braccio dei cinesi. Più facile incontrarne uno avvolto attorno ad un melone.

 

“Il cielo è azzurro sopra Berlino”. Ha provato a fare il colto e l’originale (forse potrei risparmiarmi certi sarcasmi, io che rimango un ragazzo dello Zoo di Pechino…), il telecronista Marco Civoli la sera del 9 luglio 2006. Nel mio accogliente salotto cinese, quella notte, io non l’ho proprio sentito, invece, il triplice fischio dell’arbitro Luis Medina Cantalejo. L’incomprensibile telecronaca di CCTV, television network of People’s Republic of China, riposava infatti nell’ovatta dell’audio abbassato. Non mi ha mai mosso alcun afflato patriottico, tantomeno calcistico, quindi quella notte la ricordo bella ma bella come le altre, e il rigore di Grosso avrebbe potuto stamparsi sul palo o sulla faccia del portiere senza creare in me alcuno scompenso. Le prime prove degli azzurri le avevo osservate con gli occhi distratti di chi, alla vigilia di una partenza con 400 “p” maiuscole, ha altro a cui pensare. La nazionale di Lippi l’ho trovata oltremodo brutta e sterile e mi è dispiaciuto un po’ che proprio mentre stavo volando sopra l’Asia la Germania abbia eliminato l’Argentina di quel genio di Riquelme, il mio calciatore preferito.

Come fossi anch’io un artefice del trionfo azzurro, ricevo nei giorni successivi congratulazioni e complimenti da cinesi di tutte le estrazioni. Dietro i sorrisi spalancati sembrano dirmi: bravi, avete conquistato la Coppa del Mondo, noi presto conquisteremo il Mondo.

Davvero esilarante il programma calcistico della Tv cinese dedicato ai mondiali tedeschi. La trasmissione probabilmente più vista del pianeta si svolgeva in uno scenario imbarazzante. Uno studio mastodontico e deserto gestito da un trio di “esperti” commentatori. Davanti al tavolone dal quale il terzetto disquisiva di fuorigioco e regola del vantaggio, il corpo senza vita della mascotte del torneo. Giuro, sembrava davvero appoggiato lì senza cura, il leone col capo ciondolante, 20 secondi prima del via della diretta.

(Scorrendo le programmazioni di altri canali pubblici, cioè di tutti i canali, impressiona la potenza di fuoco degli spot pubblicitari – automobili, tantissime automobili – e l’anacronismo di alcune parti del palinsesto. Il canale deputato alla musica, una sorta di Mtv cinese, trasmette musica aggiornata all’anno del mio esame di maturità: 1994. Censura? Sul costume più che sulle idee, si direbbe, se è vero che ho rivisto un antico Paul McCartney cantare in un video sbiadito l’allegra Hope of deliverance. Un limpido inno alla libertà che probabilmente infastidisce il regime meno dell’ombelico di Shakira o del fondoschiena di Beyoncé. Il baronetto inglese, infatti, veste una giacca impeccabile.)

 

Rileggo queste righe e l’effetto è quello di una macedonia appassita. Con pensieri banali come banane annerite, riflessioni scontate come pere marce. Scriverle, però, è stato quasi una necessità, un argine contro la nostalgia e il riaffiorare dei ricordi. Mi conosco, tra qualche anno ritornerò su queste parole e non avrò bisogno di loro perché ricorderò tutto, forse addirittura ricorderò qualcosa in più.  

Nella valigia chiusa del ritorno ho stipato una miriade di domande tutte aperte.

Cos’ho visto davvero?

A cosa condurrà quello che ho visto?

Si conserverà qualcosa di quello che ho visto?

Sono capace di rispettare quello che ho visto?

(Cosa sognano tutti quegli occhi neri?)

Come raccontare quello che ho visto?

Rivedrò di nuovo?

 

Un’ultima frase, indispensabile, prima dell’ultimo punto.

La meta del mio viaggio non era la Cina.

La Cina è stata il più luminoso degli sfondi possibili dietro lo scorrere dei miei giorni migliori.

Eccolo, l’ultimo punto.  

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La mission impossible della Canalis

Condannata dalla sua avvenenza ad essere considerata incapace di qualunque altra azione che non sia lo starsene in posa, Elisabetta Canalis ci fa oggi riflettere sul tema della sete.

Lo fa impersonando un cane, rinchiuso da un padrone crudele dentro una macchina parcheggiata al sole. Nel video girato per la Peta, la giovane donna boccheggia, si fa aria con le mani, aderisce col viso all’unico spiffero, scalcia furiosa, rinuncia, muore.

Bisognerebbe approfondirlo, il pregiudizio degli italiani maschilisti – uomini e donne, tant’è – che sanno distinguere in 20 secondi di spot il quid che separa un’attrice “cagna maledetta” da una grande attrice. Chissà chi avrebbero visto bene al posto della soubrette sarda: Anna Magnani, Margherita Buy, Meryl Streep? O forse qualche stella venuta dal teatro: Piera Degli Esposti, Mariangela Melato?

Il problema è che Elisabetta – volente o più probabilmente nolente, ché qui si tratta di tutto tranne che di difendere la Canalis – ci dovrebbe far pensare alla sete. E la sete, non c’è metodo Stanislavskij che tenga, non la sa recitare nessuno. La sete non si finge. Nemmeno quelli con gli Oscar sul comò, ci riescono.

La sete non si raggiunge con l’astrazione, non si tocca nemmeno con la compassione.

La sete non è più roba nostra.

La sete è ormai roba da cani e da altri poveri avanzi dell’umanità.

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Il 5° goal della Spagna

Antonio José Puerta Pérez è morto il 28 agosto 2007, all’età di 22 anni. Non era un calciatore famoso. Era un giovane di belle speranze, un talento delle rappresentative giovanili che però, in un’unica occasione, aveva già assaporato la gioia di indossare la divisa rossa della nazionale maggiore. La sua faccia è rispuntata ieri sera, senza troppa retorica, sulla maglietta di un uomo che sorrideva e saltellava, che abbracciava tutti, che giocava a fare il torero e soprattutto sollevava un trofeo importantissimo.

La memoria dev’essere tenace, se vuol essere tale. È bello che ci si ricordi di una persona di cui ci si era già ricordati. Ampiamente. Gli spagnoli a Puerta avevano già dedicato un mondiale ed un altro europeo. Non era la prima volta che stampavano la sua faccia e il suo nome sulle magliette. Non serviva, si sarebbe tentati di pensare. E invece sì, devono aver pensato gli uomini di Del Bosque.

Nel torneo che passerà alla storia per le magliette levate a favorire plastiche pose da statua, ecco un altro momento che avrebbe dovuto essere celebrato: un uomo che si mette una t-shirt con la faccia di uno sfortunato collega che non c’è più.

Chissà se l’avevano preparata, gli azzurri, la maglietta col ragazzo crollato in campo il 14 aprile 2012 (come dire: ieri)? Anche lui aveva onorato la casacca azzurra. Probabilmente sì, l’avevano preparata. O forse no. Non lo sapremo mai. L’avessero indossata comunque – nonostante la sconfitta, fieri di un inaspettato secondo posto – le Furie Rosse non si sarebbero certo sentite offese.

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Figlia

Quando ho sentito per la prima volta parlare di lei, a occhio sarò stato in terza media. L’ho stimata da subito e vorrei vedere: era la figlia del mio cantautore preferito. Ne son venuti tanti e tante, di cantautori dopo di lui, ma il primo è il primo, e non lo si scorda.

Di lei sapevo che era bella come il sole.

Di lei sapevo che era anche bella come la terra, e qui l’immaginazione di uno di terza media era messa a dura prova. Cosa vorrà mai dire?

La canzone scritta dal celebre genitore continuava: era pure bella come la rabbia. E mai prima di allora avevo pensato che quel sentimento potesse essere considerato dal  punto di vista estetico.

Gran finale: era bella come il pane. Spiazzante quel ritorno alla concretezza e alla tangibilità: game set e partita per il guru dei miei quattordici anni.

Quel brano, però, andava molto oltre il semplice decantare la bellezza di una bambina. Era un manifesto. Era una weltanschauung. Era un manuale per apprendisti esseri umani, era una bibbia per chi stava cercando un senso e una direzione. Rappresentava un meraviglioso e poetico NO da sbattere in faccia a tutti i conformismi e ad ogni scivolamento nella palude dei compromessi. Ricordava – era quello il nucleo esplosivo di quella bomba atomica in do maggiore – che essere giusti e in pace con la propria coscienza può essere molto meglio di essere felici. E tutta quella responsabilità etica era caricata sulle spalle di una bimba, che avrebbe dovuto essere sempre contro, finchè qualcuno non le avesse strappato la voce.

Sono passati gli anni e nel frattempo ho consumato svariati plettri su quegli accordi. Seduto sul letto o sul bordo della vasca da bagno, perfetto amplificatore naturale. Oggi scopro che Francesca Vecchioni ha vissuto e vive davvero così. Non accettando, scegliendo la vita contro le leggi di un paese morto. E che lontano l’ha portata il sogno. E che dentro il pugno oggi può mostrare fiera i suoi due fiori

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Le storie di Scuolamagia, Res cogitans, Soletta, Stream of consciousness

A scuola non si Url!

“La Repubblica” ha messo le prove Invalsi in prima pagina, oggi, dentro un bel pezzo della scrittrice Mariapia  Veladiano. Acuto, accorato, ma anche leggero al punto giusto: i GRANDI vogliono incasellare i piccoli, vogliono che mettano la crocetta sulla A, come avrebbero fatto loro. Evidentemente li tranquillizza sia ribadito che il vecchietto dei francobolli soffre soltanto di “solitudine” (A), non c’entra nulla con i suoi gesti un po’ matti la “fragilità dell’esistenza” (B) o addirittura “la noia” (C). Men che meno si parli di “avarizia” (D), quella crepi.

La cosa davvero assurda, nella Prova Nazionale 2012, l’ha sottolineata però Vincenzo Latronico sul “Corriere”. A me l’ha fatta notare un alunno, decisamente sorpreso, e io non ho saputo condire di parole il mio imbarazzo.

Alla domanda C6, un bravo studente avrebbe potuto rispondere correttamente ricopiando dal fascicolo un Url (!!!!!!!!!!!):

www.ferroviedellostato/areaclienti/condizioniditrasporto

A mano, con la penna.

“Un po’ come tracciare dei pixel a matita”, chiosa Latronico.

Un po’ come spedire il computer ad un amico utilizzando un corriere espresso. Ricordandogli di aprire in fretta quel pacco: dentro al computer, infatti, c’è una mail urgente da leggere.

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Le storie di Scuolamagia, Res cogitans, Stream of consciousness, Tutte queste cose passare

La prova INVALSI e la piccola rohingya

Non c’è mai la scuola aperta quando serve. Domani sarebbe servito. Invece la scuola sarà chiusa. Non letteralmente, perché i cancelli e i portoni si apriranno puntualissimi. Nella sostanza, sì. Chiusa, sbarrata, sprangata. “CHIUSA PER PROVA NAZIONALE INVALSI”, potrebbe recitare un cartello. Se ne starà nel suo bozzolo di meritocrazia posticcia, di oggettività un tanto al chilo. Rigorosamente con gli occhi chiusi,  allegramente al buio. Invece, anche se è giugno e fa molto caldo, avremmo dovuto esserci, insegnanti ed alunni, per parlare di una bambina.

Le cronache – quasi esclusivamente in inglese, in italiano ne accenna oggi Adriano Sofri nel suo pezzo da Oslo su Aung San Suu Kyi – dicono abbia un mese e mezzo di vita. È stata ritrovata alla deriva, a bordo di un’imbarcazione di fortuna. Sembrava vuota, non lo era. Proprio come le scuole medie domani mattina: sembreranno aperte, non lo saranno. È riuscita a superare il muro eretto dalle autorità del Bangladesh al flusso di profughi rohingya (una minoranza musulmana) in fuga dalla Birmania. Centinaia di disperati che tentano da giorni di attraversare il fiume Naf, confine naturale tra i due paesi asiatici.

Raccolta dall’imbarcazione – involontaria ruota degli esposti – la bambina è stata affidata a una generosa famiglia di pescatori, che le ha prestato le prime cure.

Non ci sarebbe stato molto altro da aggiungere, domani a scuola. Le belle favole bastano a se stesse. I ragazzi sarebbero tornati a casa gonfi di pensieri da cullare, e il prof. si sarebbe chiesto – immaginandoli sdraiati su un prato o smarriti davanti a una finesta: “non avrò mica dato troppi compiti?”.

(Vecchie “battaglie” contro l’Invalsi…: qui, qui e qui)

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Imago, Res cogitans, Soletta, Stream of consciousness

Sharapova batte Cassano 6-0 6-0

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Quando l’ho vista, scorrendo come di consueto le belle gallerie fotografiche del Post, sono rimasto folgorato. Stupenda. No, non lei… Cioè: anche lei, ma quello si sa, è la sua disgrazia, nessuno la ricorderà per i suoi dritti e i suoi rovesci.

Stupenda la foto, la situazione immortalata. Stupendo il luogo, una sorta di sacrestia laica. Stupenda la postura, la compostezza dei gesti, un corpo di donna come protetto da un guscio, come riposto in una custodia. Stupenda la luce.

Non vorrei essere il fotografo, non vorrei essere lei: vorrei essere il trofeo per stare vicino ad entrambi.

Ho detto: la metto nella Pozzanghera.

La Sharapova nella Pozzanghera?, ha commentato una parte di me dai banchi dell’opposizione. Ma ti pare?

Poi oggi, appena sentito il Cassano pensiero, mi son detto che le dighe a difesa della bellezza e contro la barbarie vanno erette sempre.

La Sharapova ci difenderebbe da quelli che pensano “i froci, problemi loro…”?????, attaccano di nuovo quelli della fronda.

Sì, guardo la foto e penso esattamente quello.

E la mozione passa, a maggioranza relativa.

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Res cogitans, Stream of consciousness, Tutte queste cose passare

Il terremoto dietro le sbarre

Il tuo lavoro è nei gesti che fai. Il tuo lavoro è i gesti che fai. Stringi il volante, digiti su una tastiera, spadelli spignatti e brandisci una motosega. Ammonisci con un dito, infili un ago in una vena, spalmi della malta tra un mattone e un mattone. Se sei fortunato fai un fa#- o uno smash, scrivi una poesia o tagli un traguardo a braccia alzate. Sempre gesti sono. Se sei fortunato, soprattutto, li hai potuti scegliere.

Da giorni mi perseguita l’idea di un gesto. Fa parte dei doveri quotidiani di certi lavoratori, in genere appartenenti alla categoria “sfortunati”: gente che non ha scelto.

Non so nemmeno a che ora si compia, quell’azione. Immagino di pomeriggio, ma potrebbe anche non essere così. Forse prima suona una campanella, oppure una sirena come quella di certe fabbriche. Un segnale che tutti conoscono, a dire che è ora. Probabilmente non servono parole, basta osservare le sigarette aspirate in fretta, gli ultimi passi inquieti, gli ultimi tocchi al pallone (anche qui siamo di fronte a questioni di fortuna), gli ultimi sguardi verso l’alto ad abbracciare un ramo, una nuvola, un temporale che arriva.

I prigionieri credo la odino per questo, l’ora d’aria: finisce subito. Poi si tratta di preparare il gesto – semplice e automatico – cercando il ferro che pende dalla cinta, il ferro delle chiavi, lunghe e pesanti. In pochi attimi, il tempo di qualche replica lungo un corridoio, il dovere è compiuto. Le celle sono chiuse. Il rumore è un’abitudine, tripla mandata: 1, 2, 3. Fine. Si torna in ufficio, con la “Gazzetta”, il caffè, le chiacchiere dei colleghi.

Mi perseguita l’idea di un gesto. Mi immedesimo in chi è costretto a compierlo in questi giorni in Emilia, nelle carceri di non so dove. Salvo casi rarissimi, non conosciamo il nome delle nostre prigioni.

Ci sono uomini che chiudono la porta a chiave. La chiave che gran parte degli italiani – come in quella famosa espressione – addirittura “butterebbe via”. C’è tanto, tantissimo da fare per l’Emilia terremotata. Forse dovremmo anche dividere con quelle persone il peso – morale – di quelle mandate.

  d

Il post è già scritto quando scopro con piacere che probabilmente, nella fattispecie, sono stato troppo pessimista.

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